Arte

Una partita a scacchi per l’eredità del Caravaggio

30 Novembre 2017

“Lo spazio delle Gallerie d’Italia è una specie di schacchiera”. Alessandro Morandotti è il curatore de “L’ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri”, la mostra ospitata nel sito espositivo di piazza della Scala inaugurato sei anni fa, come ha ricordato Giovanni Bazoli, presidente emerito di Intesa San Paolo. L’istituto ha sposato con entusiasmo il progetto a cui Morandotti dice di pensare da quasi trent’anni. “Abbiamo costruito un percorso attorno al capolavoro del Caravaggio che fa parte delle nostre raccolte”, spiega riferendosi al “Martirio di Sant’Orsola”, che è conservato nella sede napoletana di via Toledo delle Gallerie d’Italia, a Palazzo Zevallos. “Lo abbiamo messo a confronto con dipinti di Giulio Cesare Procaccini, Bernardo Strozzi, Rubens, Van Dyck e altri maestri dell’epoca”. Morandotti gioca con la metafora degli scacchi provando a raccontare il disegno di mostra come una di quelle partite spiegate sulle riviste di enigmistica: “il bianco-meglio ancora il nero, trattandosi pur sempre di Caravaggio-vince in sei mosse”.

Sei sono infatti le grandi scene in cui è scandita la mostra, sei quadri che si dipanano tra Napoli, Milano e Genova, e provano a tenere assieme una trama che partendo dalla vicenda del dipinto conclusivo dell’opera del Merisi si dipana sino a quella che di fatto è la terza generazione di maestri caravaggisti, con l’epifania fuori tempo a massimo proprio a Genova dell’olandese Mathias Stom (formatosi presso uno dei primi caravaggeschi dei Paesi Bassi, Gerrit Van Honthorst) e il confronto con la scena locale, a partire da Gioacchino Assereto. In mezzo c’è Rubens, i suoi soggiorni italiani, e il successo di una formula che schiude precocemente l’ambiente genovese (in anticipo sul resto d’Italia) ai venti barocchi, prima dell’arrivo in città del dipinto del Caravaggio, e ancora, quando ormai la prima ondata caravaggista è già sul punto di esaurirsi, un’altra folata nordica, più compunta- oggi diremmo forse corporate– e meno teatrale quella di Van Dyck, che ne spegne per sempre le ceneri entro la metà del terzo decennio del secolo.

Matthias Stom, “Saul fa evocare Samuele dalla pitonessa di Endor”, 1639-1641. olio su tela, 170 x 250 cm. collezione privata. Courtesy Robilant+Voena

Proviamo allora a scandirli con precisione, questi sei grandi quadri, che negli ambienti delle Gallerie d’Italia assumono l’evidenza spaziale di altrettante sale e sezioni. L’introduzione è un formidabile confronto a tre, tra Caravaggio, Bernardo Strozzi e Giulio Cesare Procaccini, sul tema del “Martirio di Sant’Orsola”. C’è il dipinto del Merisi, arrivato a Genova nella tarda primavera del 1610, pochi mesi prima della morte del pittore. Nel saggio di catalogo Morandotti scrive che si tratta di un “…tema iconografico non proprio all’ordine del giorno nella storia della pittura del primo Seicento”. La storia di sant’Orsola e delle undicimila vergini, del loro viaggio dalla Bretagna sino a Roma, dell’incontro con papa Ciriaco e del loro ritorno al nord, culminato nel martirio di Colonia, è riportata nella duecentesca “Legenda Aurea” di Jacopo da Varagine, ed ebbe nel Medioevo una straordinaria diffusione, da cui originarono anche le raffigurazioni di Memling nello straordinario reliquario di Bruges e di Vittore Carpaccio nei teleri per la Scuola della Santa ora alle Gallerie dell’Accademia.

Vittore Carpaccio, “Martirio dei pellegrini e funerali di San’Orsola, 1493, tempera su tela, 271×561, Gallerie dell’Accademia.

Il tema più rappresentato è quello di Orsola che impugna un vessillo bianco con croce rossa e che, a piedi o in barca, è in viaggio verso Colonia assieme alle compagne. Più raramente veniva rappresentata la scena del martirio, di solito con una grande immagine di eccidio di massa, che, esattamente come la “Strage degli innocenti”, si prestava a interpretazioni in puro stile live action che esaltavano le capacità di creare il dinamismo dei pittori di storia.

Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, “Martirio di Sant’Orsola”, 1610, olio su tela, 143×180 cm, Collezione Intesa Sanpaolo Napoli, Gallerie d’Italia-Palazzo Zevallos di Stigliano

Né l’una né l’altra versione erano nelle corde di Caravaggio, al quale l’opera venne commissionata da Marcantonio Doria, che aveva conosciuto il pittore a Genova nel 1605, allorché, durante un breve soggiorno in città dell’artista, la sua famiglia o forse lui stesso in persona aveva provato ad assicurarsi un suo ciclo di affreschi per una loggia, proponendo senza successo la cifra astronomica di seimila scudi. Il Merisi elimina allora tutto il superfluo che accompagnava di solito la raffigurazione di questa scena: la barca, gli Unni, le vergini, la strage. Lascia solo un fromboliere raggrinzito, vestito pomposamente con una divisa più grande della sua taglia, una corazza finemente decorata e un cappello da hidalgo: quasi un personaggio di Cervantes, uno straccione con la pelle cotta dal sole, dai tratti plebei, che si crede un cavaliere di ventura. La Santa china gli occhi a guardare il dardo che le si era conficcato in petto, e prova a strapparselo. Tra martire e assassino s’infila una mano, rinvenuta dal restauro, che prova a sviare la freccia, salvando la vita a Orsola. E dietro, come comprimari, un altro armigero e lo stesso Michelangelo Merisi, come doveva apparire pochi mesi prima della morte, convenuto puntualissimo a tutte le scene criminali che gli era toccato dipingere, sempre in seconda fila, sempre con quello sguardo attonito dall’alto, di chi non può far altro che registrare gli eventi.

Cinque mani, cinque teste, un avvenimento da campo lungo, come nelle due interpretazioni che ne aveva lasciato Ludovico Carracci a Bologna e Imola, compresso nel format standard delle figure di tre quarti. Una sintesi vertiginosa, quasi da telecamera a mano, che utilizza l’acceleratore dinamico dei balugini di luce in rapida fuga su volti e armature come vettore dello sguardo. Stringendo l’inquadratura, quasi a volerla risolvere tutta su di un piano, Caravaggio si era liberato della necessità di trovare un momento di stallo, in cui tutti i personaggi stessero miracolosamente in equilibrio instabile, per rendere verosimile la propria raffigurazione. A trentanove anni e nell’ultima sua opera conosciuta, aveva finalmente colmato il suo gap giovanile di formazione, era diventato capace di fare un quadro d’azione, grazie all’idea di contrarre lo spazio e non il tempo, lasciando all’occhio dello spettatore il compito di rielaborare cinematicamente un evento schiacciato verso il suo compimento.

“L’atmosfera cupa, solennemente drammatica dell’ultimo quadro di Caravaggio è completamente rivisitata nei toni caldi e dorati delle opere di Strozzi e Procaccini”, scrive Morandotti. “Davanti ai loro quadri si misura la distanza emotiva ma anche stilistica con l’esemplare del Merisi. Nessun adeguamento, nessun plagio, ma la stessa storia raccontata con toni diversi”. Si comincia qui a dipanare la trama di una vicenda diversa, quella di una maniera di dipingere ancora antinaturalista ma non più manierista, pienamente calata nello spirito del nuovo secolo e però affrancata da quell’attenzione lenticolare alla realtà che è la misura del Caravaggismo. “Si poteva quindi dipingere con spirito di assoluta indipendenza anche messi di fronte a una prova autografa del grande protagonista della pittura a Roma e a Napoli”.

Il dipinto di Bernardo Strozzi ha una vicenda ancor più recente della “Sant’Orsola” del Caravaggio. É riapparso sul mercato nel 1989, allorché venne battuto a un’asta di Christie’s a Londra, con la corretta attribuzione al pittore genovese, precocemente influenzato dal passaggio in città di Rubens, e però nel contempo attento osservatore della lezione del Merisi, da cui mutua il taglio e il formato della scena, la concentrazione dell’azione, la sintesi del dramma in un’azione in pochi personaggi ed elementi essenziali. Viene collocato tra il 1615 e il 1618, un momento in cui i linguaggi e gli stili sembrano rimescolarsi ancora una volta, a Genova e non solo.

Bernardo Strozzi, “Martirio di Sant’Orsola, 1615-1618, olio su tela, 104×130, Collezione privata, Courtesy Robilant-Voena

La redazione di Giulio Cesare Procaccini invece presenta elementi che fanno supporre a una provenienza dalla collezione Arese, dove un dipinto attribuito al pittore bolognese in cui è rappresentata “…una santa martire in procinto di essere saettata” viene descritto in un inventario del 1810, un anno prima della vendita in blocco dei dipinti al vicerè Eugenio di Beauharnais. La tela, che dunque deve essere stata realizzata a Milano, è stata resa nota nel 2014-2015, dopo segnalazione di Paolo Bonacina e Francesco Frangi, ed è riferibile al 1620-1625. Forse Giulio Cesare Procaccini può aver visto il dipinto del Caravaggio nel suo soggiorno genovese del 1618 (dunque in un momento molto vicino alla realizzazione del quadro di Strozzi). Certamente la sua è una libera reinterpretazione che poco deve ormai alla composizione del Merisi. La scena di martirio è trasformata, come si legge nella scheda in catalogo, “in una sorta di danza elegante ed estenuata tra la santa e il suo carnefice”. Da mistero religioso profondamente sentito, come lo era stato nei mesi terminali della vita del Caravaggio, a evento mondano, narrato con fasto ed effervescenza in una vulgata sospesa nell’attimo appena precedente alla mutazione delle forme classiciste nei modi del teatro barocco.

É dalla contrapposizione di misure, maniere, attitudini che prende dunque le mosse questa partita a scacchi. Prima di addentrarsi nelle giocate successive, occorre però tornare all’antefatto. A un quadro esposto imprudentemente al sole per far asciugare la vernice, negli ultimi giorni dell’aprile 1610, a Napoli. Da lì dobbiamo ripartire.

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