Arte
Una feluca, tre dipinti e nient’altro. L’illacrimata sepoltura del Caravaggio
Non sappiamo ancora tutto sulla morte del Caravaggio. E non lo sapremo mai. Gli stessi biografi antichi, alla luce dei punti fermi che oggi possediamo, avevano in merito notizie imprecise. Giovanni Baglione, che era un pittore e aveva rivaleggiato con il Merisi, è l’autore de le “Vite de’ pittori, scultori et architetti”, pubblicato nel 1642. Il testo è tuttora fondamentale nella ricostruzione di molte vicende, in particolare per quelle relative alla fase romana, di cui Baglione fu testimone diretto e per molti versi parte in causa. Sugli ultimi mesi di vita del pittore, quelli che seguono al rientro a Napoli dalla Sicilia, la ricostruzione è sommaria: “Ma per esser perseguitato dal suo nemico, convennegli tornare alla città di Napoli; e quivi ultimamente essendo da colui giunto, fu nel viso così fattamente ferito, che per li colpi quasi non si riconosceva, e disperatosi della vendetta, con tutto ch’egli vi si provasse, misesi in una feluca, con poche robe, per venirsene a Roma, tornando sotto la parola del Cardinal Gonzaga, che col Pontefice la sua rimissione trattava. Arrivato ch’egli fu nella spiaggia, fu in cambio fatto prigione, e posto dentro le carceri, ove per due giorni Leone a veder, se poteva in mare ravvisare il ritenuto, e poi rilassato, più la feluca non ritrovava sì, che postosi in furia, come disperato andava cercando per quella spiaggia sotto la sferza del Sol il vascello che le sue cose portava. Ultimamente arrivato in un luogo della spiaggia misesi in letto con febre maligna; e senza aiuto humano tra pochi giorni morì malamente, come appunto male havea vissuto”.
Giovanni Baglione, “Amore sacro e amor profano”, Roma, Galleria Nazionale di Palazzo Barberini, 1602, olio su tela, 240×143 cm.
Buona parte di questo racconto torna nelle parole di Giovan Pietro Bellori, che nel 1672 scrisse le “Vite de’ pittori, scultori et architetti moderni”. Oggi considereremmo il suo testo più un trattato di estetica che un libro di storia. La tensione all’idealizzazione produce nelle sue biografie anche qualche svarione: allo scopo di configurare una sorta di annus horribilis per la pittura, fissa la morte del Caravaggio al 1609, lo stesso in cui scomparvero i due artisti più quotati dell’epoca, il campione del classicismo Annibale Carracci e il paladino dell’accademia tardo-manierista Federico Zuccari. Scrive infatti Bellori:“Fermatosi egli un giorno su la porta dell’osteria del Ciriglio, preso in mezzo da alcun con l’armi, fu da essi mal trattato e ferito nel viso. Ond’egli, quanto prima gli fu possibile, montato su una feluca, pieno d’acerbissimo dolore s’inviò verso Roma, avendo già con l’intercessione del card. Gonzaga ottenuto dal papa la sua liberazione. Pervenuto alla spiaggia, la guardia spagnola, che attendeva un altro cavaliere, l’arrestò in cambio e lo ritenne in prigione. E se bene egli fu tosto rilasciato in libertà, non rivvide più la sua feluca che con le sue robbe conduceva. Onde agitato miseramente d’affanno e da cordoglio, scorrendo il lido al più caldo del sole estivo, giunto a Porto Ercole si abbandonò, e sorpreso da febbre maligna morì in pochi giorni, circa gli anni quaranta di sua vita, nel 1609, anno funesto per la pittura, avendoci tolto insieme Annibale Carracci e Federico Zuccheri. Così il Caravaggio si ridusse a chiuder la vita e l’ossa in una spiaggia deserta, ed allora che Roma attendevasi il suo ritorno, giunse la novella inaspettata della sua morte”.
Il racconto di Baglione e quello di Bellori sono molto simili. Proviamo a metterli assieme. Con una feluca, Caravaggio aveva cercato di raggiungere una località costiera a nord di Roma. Sbarcato in territorio spagnolo era stato preso prigioniero. Scambiato per qualcun altro, forse. E quando l’avevano rilasciato, la barca con le sue cose non c’era più. Provando a rintracciarla, o aspettando sulla spiaggia che tornasse, in una zona insalubre allora infestata dalla malaria, aveva finito per ammalarsi ed era morto, nei pressi di Porto Ercole. Una lettura dei fatti che per molti anni è bastata, pur nelle evidenti lacune, a soddisfare le domande dei suoi biografi.
Per ciò che riguarda invece le fonti dirette, il primo documento che parla della morte dell’artista è un breve avviso, inviato il 28 luglio da Roma alla corte dei Della Rovere a Urbino, seguito da altri dispacci concordanti nel fissare il luogo della morte in Porto Ercole. Tra i più interessati a saperne immediatamente qualcosa di più è Scipione Borghese, il cardinale nipote del Papa e segretaria di stato pontificio. Scipione, che era sul punto di ottenere la grazia per il pittore, fa compiere delle indagini da Deodato Gentile, vescovo di Caserta e nunzio pontificio nel Regno di Napoli. Questo è quel che scrisse Gentile al cardinale il 29 luglio:
“Ritrovo che il povero Caravaggio non è morto in Procida, ma a Port’hercole, perché essendo capitato con la feluca, in quale andava a Palo, ivi da qual capitano fu carcerato, e la feluca in quel romore tiratasi in alto mare se ne ritornò a Napoli, il Caravaggio restato in prigione, si liberò con un grosso sborso di denari, e per la terra e forse a piedi si ridusse sino a Porthercole, ove ammalatosi ha lasciato la vita: la feluca ritornata riportò le robbe restateli in casa della S.ra Marchesa di Caravaggio, che abita a Chiaia, e di dove era partito il Caravaggio: ho fatto subito vedere se vi sono quadri, e ritrovo che non ne sono più in essere, eccetto tre, li doi S.Giovanni, e la Maddalena, e sono in suddetta casa della S.ra Marchesa, quale ho mandato subito a pregare, che voglia tenerli ben custoditi, che non si guastino senza lasciarli vedere, o andar in mano di alcuno, poiché erano destinati, e si hanno da trattenere per S.Ill.ma”.
Nelle settimane successive anche il nuovo viceré di Napoli, il conte di Lemos, e il priore dell’ordine dei Cavalieri di San Giovanni s’interessarono alle opere rimaste in possesso della marchesa di Caravaggio Costanza Sforza Colonna. Alla marchesa restò probabilmente la “Maddalena in estasi”, il “San Giovanni Battista” pervenne a Scipione Borghese solo dopo che il viceré ne aveva fatta fare una copia, e del terzo quadro si perse ogni traccia. Questa spartizione unitamente ad alcuni elementi oggettivamente poco chiari hanno fatto scrivere a Vincenzo Pacelli che il pittore rimase vittima di un omicidio di stato, organizzato dall’Ordine di Malta, con il tacito assenso della curia romana, e forse anche con la complicità del viceré, di Scipione Borghese e dei Carafa Colonna, ansiosi di sbarazzarsi di un personaggio così scomodo, visti i rapporti strettissimi che avevano coi Gerosolimitani.
Incrociando la versione Bellori/Baglione e la lettera del nunzio pontificio, si ricava che Caravaggio sarebbe sbarcato a Palo, vicino a Civitavecchia: una destinazione più sensata di Porto Ercole, per chi doveva raggiungere Roma. La feluca coi quadri dopo la sua cattura era tornata a Napoli. E anche qui non c’è bisogno d’immaginare un complotto, la circostanza sembra sensata. Molto meno comprensibile è che, una volta liberato, il pittore abbia compiuto cento chilometri e più a piedi in territorio paludoso, per arrivare, chissà perché, sino alla spiaggia maremmana dove si sarebbe ammalato di malaria. Entrambi i biografi scrivono che fu arrestato “in cambio” di qualcuno. Cosa significa? Lo scambiarono per un ricercato? O forse doveva avvenire uno scambio di prigionieri? E se i quadri imbarcati sulla feluca avevano come destinatario Scipione Borghese, qual era effettivamente il ruolo di mediazione del cardinal Gonzaga?
Nel 2014 la decana degli studiosi del Caravaggio, Mina Gregori, annunciò il ritrovamento di una versione della “Maddalena in estasi” in una collezione privata tedesca. Il dipinto parve immediatamente più interessante di altre redazioni già note, come quella attribuita al copista e mercante fiammingo Louis Finson, o quella in collezione Klein che in molti ritenevano autografa. A complicare le cose, ecco però apparire un cartiglio recante l’indicazione di riportare il dipinto a Chiaia. Prova utile a dimostrare che si tratta proprio del dipinto che ha viaggiato sulla feluca, prima verso Porto Palo e poi rientrando a Napoli, o un indizio di troppo?
Michelangelo Merisi da Caravaggio, “Maddalena in estasi”, collezione privata, 1606, olio su tela.
Porto Ercole faceva parte allora dello Stato dei Presidi, creato nel 1557 da Filippo II, con territori appartenenti in precedenza alla Repubblica di Siena. Era sotto il controllo del viceré di Napoli, anche se retto da un governatorato locale, e ospitava una guarnigione spagnola. Palo invece apparteneva allo Stato Pontificio: qui un arresto era molto più probabile. Nell’estate del 2009, un’archeologa toscana, Giovanna Anastasia, ha dichiarato di sapere dove era sepolto Caravaggio. La stessa studiosa nel 2001 aveva annunciato il rinvenimento dell’atto di morte del pittore, durante una ricerca nelle carte d’archivio di Santa Maria Ausiliatrice, l’antico ospedale di Porto Ercole. Il documento anticiperebbe la data del decesso al 18 luglio 1609, poiché nello Stato dei Presidi vigeva ancora il calendario senese, sfasato di un anno. La studiosa sostenne che la tomba fu rinvenuta nel cimitero di San Sebastiano, alle porte della cittadina litoranea, già nel 1963, da un sacerdote che poi decise di inumare la salma nella cripta della parrocchiale di Sant’Erasmo, senza evidentemente informarne il mondo degli studiosi né le autorità: una ricostruzione non molto probabile, che ha prodotto negli anni successivi la vicenda un po’ sconcertante della ricerca dei resti del pittore nell’ossario, tramite confronto con il dna di alcuni discendenti della famiglia Merisi, dunque quella del padre del pittore. E arrivando così a stabilire la compatibilità di alcune ossa a quel profilo genetico, dimenticandosi che il Caravaggio possedeva anche una madre, Lucia Aratori.
Più della questione della morte, che fatalmente continuerà a essere oggetto di una curiosità vagamente morbosa, in particolare per un artista scomparso quattrocento anni fa, è interessante capire quale fu il lascito del Caravaggio. A Roma il suo influsso durò poco meno di trent’anni: alle porte del quarto decennio del secolo non c’era più nessuno che dipingeva alla sua maniera. A Milano continuarono a ignorarlo. In Sicilia ebbe solo mediocri prosecutori. Dalla Francia e dall’Europa del Nord vennero in Italia molti giovani, interessati alla sua lezione del vero. Spesso però ridussero quella particolare tensione verso il naturalismo alla stregua di una pittura di genere. La stessa cosa fece in Italia Bartolomeo Manfredi. Cecco del Caravaggio, Carlo Saraceni, Orazio Borgianni, i caravaggisti della prima ora non ebbero eredi.
Orazio Borgianni, “Disputa di Cristo con i dottori”, Roma, collezione privata, 1605-1608, olio su tela, 77×104 cm.
A Napoli e a Genova invece la conoscenza delle sue opere diede il via a una scuola in grado di lasciare il proprio imprinting sugli sviluppi della pittura locale. Per chi visita il Museo Nazionale di Capodimonte, la “Flagellazione” del Merisi costituisce una sorta di spartiacque, dopo di cui il corso della pittura partenopea, per come la impariamo a conoscere a partire dai libri sul Cinquecento napoletano di Giovanni Previtali, sembra finire improvvisamente, salvo scoprire che alcuni artisti, a partire da Battistello Caracciolo (a cui appartiene il “Battesimo di Cristo” dalla Collezione dei Girolamini, ora in mostra alle Gallerie d’Italia, che compare come immagine iniziale), si sono semplicemente rinnovati radicalmente. Comincia così un’altra storia, che la mostra delle Gallerie d’Italia documenta in maniera puntuale, e che al pari di Napoli riguarda, anche se in maniera diversa, Genova, dove il passaggio di Caravaggio, pur se gravido ci conseguenze, fu certamente meno decisivo di quello di Rubens. E d’altronde, se è vero, come assume la mostra “Caravaggio. Eredi e nuovo maestri”, che del Caravaggio, a Genova come a Milano, si poteva anche fare a meno, è indubbio che sino al 1640 qualcosa di quella lezione doveva comunque restare, almeno sino all’inizio del terzo decennio, e poi riecheggiare, con dinamiche che a volte somigliano a quelle di un domino, ma che sono ancora intellegibili, almeno sino a Mathias Stomer.
E allora, procedendo, per ampie falcate, non possiamo non ricordare che la figlia di Orazio Gentileschi, Artemisia, fu senza dubbio una pittrice straordinariamente brillante, una di quelle che sentì più intimamente il contenuto di novità, in termini di libertà espressiva, portato dall’amico del padre. I quattro pittori più importanti del Seicento, Velazquez, Zurbaran e Rembrandt e persino il già citato Rubens, che pure pare antitetico al realismo, guardarono con grandissima attenzione al lavoro di Caravaggio. Altri, meno acclamati, come Giovanni Serodine, Valentin de Boulogne, Mattia Preti, Jusepe de Ribera, modellarono la loro sensibilità individuale sul presupposto di quell’arte antiaccademica, evitando di scivolare nella maniera.
Giovanni Serodine, “Il tributo della moneta”, Edimburgo, National Gallery of Scotland, 1625, olio su tela, 146×227 cm.
Nelle mani degli epigoni, questo stile che con la fiammata caravaggesca era sembrato capace di affermarsi come un vero e proprio movimento, diventò presto innocuo, inservibile a un nuovo contesto di committenza in cui al paradigma del controllo delle immagini si andava sostituendo rapidamente quello dell’ostentazione del proprio rango, attraverso un arte esornativa, disimpegnata, mondana, superficiale, che non produceva più organizzazione del consenso, limitandosi a essere uno specchio della società, uno strumento di inclusione/esclusione. Non c’era più spazio per i piedi sporchi, i visi raggrinziti, le mani dei lavoratori, le vesti stracciate, i frutti bacati, le foglie rinsecchite. Tra nuove guerre e pestilenze, la morte aveva rubato il mestiere alla pittura, e l’arte doveva essere solo celebrazione della vita, un convivio calato in un paesaggio idilliaco, un eterno festino, che celebrasse una sensualità artificiosa, estetizzante, come se il mondo si fosse di colpo trasformato in una stucchevole beauty farm. Questa divenne la maniera incarnata dal più influente tra i principi dell’Accademia di San Luca, Pietro da Cortona, e ancora di Domenichino, Lanfranco, Francesco Albani: una continua elusione della realtà, elusione che col barocco si sarebbe trasformata presto in una strategia di fuga. Se entravi in una chiesa o in un palazzo nobiliare, dovevi alzare gli occhi al cielo: nelle volte, nei pennacchi, nelle cupole avresti incontrato le figurazioni di questo nuovo stile, rifondato sul disegno e sospeso lassù, a distanza di sicurezza da qualsiasi domanda di verità, nuovamente lontano dall’uomo.
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