Arte

Tre artisti italiani, tre silenzi

12 Marzo 2015

Misteriose sono le vie che conducono gli artisti ad esprimersi e altrettanto oscure quelle che  ad un tratto  li portano a tacere. Si dirà: c’è una fase creativa in cui il genio si esprime e una fase che viene spiegata inevitabilmente con locuzioni di tipo meccanico come  “esaurirsi dell’ispirazione”, indicando con ciò  un normale  ciclo fisiologico  o,  con una immagine, come un vento che gonfia le vele e che, cessando, le fa afflosciare. Però c’è modo e modo.

Sono stato sempre incuriosito dal modo in  cui smisero di creare tre artisti da me molto amati:  Corelli, Rossini e Verga.

Quella di Arcangelo Corelli (1653- 1713) è la spiegazione più naturale. La causa sembra da imputare a quel “male oscuro”  di Gadda e Berto: una tremenda depressione coglie l’artista e lo induce al silenzio. Pochissimo sappiamo di questo epilogo  doloroso del musicista italiano che più di ogni altro ha contribuito a porre le fondamenta della musica strumentale, nostra,  e  di quella universale (il concerto grosso corelliano arriva fino a Handel e Bach). Curioso appare, per chi sa quel dettaglio biografico, leggere in rete che talora la sua musica venga fatta ascoltare a scopo terapeutico proprio ai depressi.

Quello di Gioacchino Rossini (1792 – 1868) è il caso più curioso e bizzarro. Il genio di Pesaro sarà  sempre ricordato con una parolina di quattro lettere che faceva impazzire Stendhal: “Brio”. Una parola soavemente e brillantemente italiana. E rossiniana: ma rossiniana perché italiana e viceversa: italiana perché rossiniana, rappresentando in questo caso Rossini, tra tutti i nostri odiosi difetti, il trillo, l’energia, l’allegria, la leggerezza, la bellezza del nostro stare al mondo. Siamo sempre stati un popolo corrotto e felice (tranne in questi anni in cui il “crescendo” rossiniano sembra atterrato nei musi lunghi e nei rimbrotti reciproci), e la musica di Rossini è nostra come il nostro cielo, la nostra aria, la nostra luce.  Quando Hegel dettava le sue lezioni di “Estetica” (tra il 1818 e il 1829) la musica di Rossini era nell’aria. Concedeva  il filosofo di Stoccarda: «Gli avversari spacciano la musica di Rossini come un vuoto solletico dell’orecchio. Ma se si entra un po’ nelle sue melodie, questa musica è invece estremamente ricca di sentimento, di spirito, e penetra nell’animo e nel cuore, sebbene poi essa non si abbandoni a quel genere  di caratteristica che è preferito specialmente dal rigoroso intelletto tedesco». Infatti, Rossini era “rigorosamente” italiano: energia e brio, svelta procedura stilistica e “arie” che stanno ancora dentro di noi.

Rossini smette di scrivere per il teatro lirico improvvisamente a 37 anni (morì a 76): quasi quarant’anni di silenzio. Continuò a comporre, ma solo per se stesso, la moglie e gli amici. Una delle operine che gli vengono attribuite, falsamente dicono i critici, è il “Duetto buffo per due gatti”. Uno scherzo beffardo, una presa per i fondelli, un “cazzeggio” tutto italiano in musica.  A me è sembrato sempre un originale e rossiniano modo di congedarsi: uno sberleffo, un peperepè gaddiano.

Il silenzio di Giovanni Verga (1840- 1922) è altrettanto singolare. Dopo aver lungamente vissuto in Continente toccando le due città (Firenze e Milano) che sono anche le mie due tappe biografiche, Verga si ritira, alla fine degli anni ’90 poco più che cinquantenne, nella sua casa di Via Sant’Anna a Catania. Non gli riesce di portare a termine il ciclo dei “Vinti”. Spiega agli amici che la povera gente riesce a farla parlare, ma i ricchi no, perché «quando essi parlano mentiscono due volte: se hanno debiti, dicono di aver l’emicrania».    Ricordava Vitaliano Brancati ne “Il borghese e l’immensità”: «Tutti conoscono ormai come Verga abbia passato i suoi ultimi anni a Catania: strettamente simile a un qualunque borghese, col dialetto in bocca e nessun segno particolare, nemmeno sull’indice e il medio, che rivelasse in lui l’uso della penna». Tutte le mattine si recava in via Prefettura, ove c’era il circolo dell’Unione, e qui stava a cavalcioni di una sedia. Interrogato dagli amici, in dialetto: « Giovannino, che fai?», «Talìu» invariabilmente rispondeva. Verga non scriveva più: “taliava”, guardava.

Una delle attrattive irresistibili dell’arte è che la puoi lasciare in qualsiasi momento per “taliare” o  per andartene a vendere schiavi in Africa.

 

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