Arte

Tímea Anita Oravecz, artista sciamano contro le frontiere

19 Aprile 2018

Mentre gli stati innalzano frontiere, artisti, poeti e intellettuali continuano – indomiti – a varcare i confini: Tímea Anita Oravecz è una di loro.

Nata a Budapest quando alta era ancora la cortina di ferro, Tímea è stata a lungo una nomade prima di fermarsi a Berlino, dove oggi vive e lavora; ha abitato a Vienna, a Granada, a Venezia, dove si è diplomata all’Accademia di Belle Arti; nel suo lungo peregrinare, anche New York, la Colombia, il Marocco.

Ed è dal viaggio tra Bogotá e Medellín che è nata “Paradise Lost“, la personale – prima in Italia – ospitata presso l’Ex-Elettrofonica di Roma (visitabile fino al 4 maggio, in vicolo Sant’Onofrio, 10).

Cittadina del mondo, una cosmopolita che parla 5 lingue (tra cui l’italiano), non c’è nulla nella sua biografia che ricordi il glamour delle globetrotter contemporanee, da milioni di follower patinati, piuttosto quella curiosità e quella fame di mondo congenita a tanti artisti prima di lei.

«Sin dai miei primi lavori, ormai 15 anni fa, ho raccontato la mia esperienza di extra-comunitaria. Ho iniziato a studiare in Italia nel 1998 e fino al 2008 ho dovuto, a scadenze più o meno regolari, alzarmi alle 4 e fare la fila in questura a Marghera perché nata in Ungheria, un paese allora fuori della Comunità Europea. Mi sono sentita sempre diversa dagli altri studenti dell’Accademia; ho fatto mille lavori in nero, senza assicurazione medica, senza garanzie, senza diritti».

Anni duri, fatti di 20mila lire guadagnate in dodici ore, in ristoranti veneziani e occupazioni di fortuna, anni di angoscia al pensiero di non poter pagare l’affitto di una stanza e finire a dormire in strada: «La paura, certe volte, è stata tanta; continuavo a chiedermi perché mai dovessi vivere in quelle condizioni quando il mio desiderio era solo quello di studiare come tutti gli altri. Eppure ero contenta di poter vivere a Venezia, città di bellezza, di poesia e di linee curve: una gioia per me che venivo dalle linee verticali e orizzontali dell’architettura sovietica, fatta di grigio cemento armato».

Intensa la sensibilità per gli ultimi e i diseredati che l’artista riversa in ogni sua creazione: «So che quanto ho vissuto da cittadina non europea mi ha reso diversa dai miei colleghi d’Accademia. Oggi, capisco i rifugiati che arrivano da noi; il loro essere in una situazione di sospensione, in cui ci sei fisicamente ma è come se non esistessi, in attesa dei documenti necessari per aspirare a una vita “vera”. Eppure, malgrado tutte le difficoltà, non ho pensato mai neanche un attimo di mollare. Diventare un’artista è quello che sognavo di fare quando ero bambina e ho fatto di tutto per poter esprimere quello che ho ritenuto, di volta in volta, necessario raccontare».

Necessità è parola che ricorre spesso nel vocabolario italiano di Tímea Anita Oravecz; parola quanto mai urgente in questa Europa “aux anciens parapets” che fatica a trovare una ragion d’essere che non sia auto-conservativa, dove gli intellettuali, siano essi scrittori, pittori, scultori, fotografi, poeti o pensatori tout court, si divincolano precipitosamente tra chi li vorrebbe capipopolo e chi relegati al ruolo di semplici “trombette”. Lei, delicata e coriacea magiara, ha opinione chiara su quale sia lo scopo del suo operare: che tocchi il tema dell’identità culturale o quella del nomadismo, fino all’immigrazione, è il contesto in continuo dialogo con il quotidiano a interessarle: «Quando incontro storie di disagi, di povertà, di dolore, mi si stringe il cuore e provo l’urgenza di condividere con il mondo i loro racconti. Dare voce a chi non ce l’ha: è questo il mio compito di artista».

In Colombia, eden naturalistico dagli scorci mozzafiato, si è imbattuta in William, John e Diego, toccati in modi e momenti diversi dalla guerra civile che ha coinvolto cartelli narcotrafficanti, gruppi paramilitari, esercito, guerriglieri, forze politiche e servizi segreti. Da questi incontri casuali sono scaturiti i tre video in mostra a Roma che testimoniano il dramma intriso di violenze e crudeltà di cui sono stati protagonisti. A fare da sfondo, la foresta amazzonica e la città, con le sue favelas e la sua povertà.

Una serie di tele, invece, riproducono con una tecnica pittorica mista a base di caffè e sangue, la mappa delle città coinvolte nel conflitto per il controllo del narcotraffico, ciascuna rappresentata come una foglia di cocaina, le cui venature rievocano l’intreccio delle strade e delle vie di comunicazione.

Torna, nell’esposizione capitolina, un tema caro all’artista: la scala, simbolo importante di molte credenze popolari ungheresi, che mette in contatto le tre sfere in cui è diviso il mondo, e la finestra, al tempo stesso via di fuga e porta di accesso.

«Sono cresciuta in un paese che negava ogni tipo di religione. Unico credo concesso era il comunismo. A 15 anni ho iniziato a sentire un vuoto: avevo bisogno di credere a qualcosa che non fosse quell’utopia che ci aveva obbligato tutti all’interno di una condizione poco più che modesta, senza una libera informazione. Così ho letto la Bibbia, ma non ho trovato nessun appiglio credibile. Ho provato col Buddismo, senza migliore fortuna. Alla fine, nella religione sciamanica comune tra i primi popoli turchi, uralici e mongoli, ho scoperto punti di contatto con la mia sensibilità: nella forze della natura c’è quello di cui sento il bisogno».

Storie di nomadismo e di panteismo culminate nel Cammino di Santiago: «Fare 900 chilometri a piedi, in balia delle condizioni atmosferiche, della fame, della stanchezza, sola in mezzo alla natura, mi ha fatto sentire piccola, ma mi ha rimesso in connessione con le storie che sentivo da bambina, sulla potenza del sogno e la capacità degli sciamani di cadere in trance: in Ungheria è pieno di questi racconti. Per questo in tante performance che faccio provo a rapire gli spettatori, a portarli via da questa realtà e a condurli in un altro mondo, lontano dai problemi di tutti i giorni».

Pietra miliare, nella sua carriera artistica, “Per Aspera ad Astra”, una performance del settembre 2017 all’Hamburger Bahnhof – Museum di  Arte Contemporaneo di Berlino, durante la quale la Oravecz ha ritagliato i simboli astrali presenti nelle bandiere di tutti i paesi e li ha fatti volare verso il cielo, a cui appartengono, tramite palloncini gonfiati a elio: un tentativo di concretizzare quella armonia e pace universale che gli sciamani moderni credono di poter realizzare rimettendo l’umanità in contatto con la natura, la terra e le stelle, liberandoli dalla funzione iconica a cui le nazioni li hanno costretti.

Un’utopia consolatoria? «Vengo da un paese ex comunista che ora è succube della propaganda di destra di Orbán. In Ungheria l’informazione è una stampa di regime a tutti gli effetti. Il messaggio è costante e molto chiaro: i migranti ci vengono a togliere quello che abbiamo conquistato. Oggi come cittadina comunitaria posso muovermi liberamente come fino a solo qualche anno fa era inimmaginabile, eppure l’Europa non è stata quello che pensavamo sarebbe stata. E non lo è neanche per i tanti rifugiati e migranti che arrivano dall’altra parte del Mediterraneo. Pensano di trovare un paradiso, una volta sbarcati. Non è così. Il muro di filo spinato costruito dal mio paese non è stato isolato: al flusso migratorio l’Europa intera ha risposto con la chiusura».

Europa, figlia di Agenore, re di Tiro, dea e regina libanese, è chiamata a rispondere all’umanità che preme contro le sue frontiere; sta all’artista, oggi, il compito di mostrare a tutti noi come poter ribaltare le nostre vite, come un altro mondo, in fondo, sia possibile, malgrado il paradiso, finora, sia stato perduto.

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