Arte
Thorvaldsen e la Danimarca
Bertel Thorvaldsen, celebrato come l’inventore della scultura moderna assieme ad Antonio Canova nella mostra in corso alle Gallerie d’Italia (sino al 15 marzo), è a tutti gli effetti l’artista nazionale danese. Nel centro medioevale di Copenaghen, sull’isola dove una volta aveva sede il castello del re, e ancora oggi è situato il Christiansborg Slot, sede del parlamento danese, venne creato il Thorvaldsen Museum, in un ostentato isolamento, enfatizzato dalle linee dell’edificio progettato da Michael Gottlieb Bindesbøll, e costruito dal 1839 al 1848. L’opera fu dunque avviata quando lo scultore era ancora in vita. Dopo il lunghissimo soggiorno romano, incominciato nel 1796, ed interrotto solo episodicamente, Thorvaldsen tornò in patria il 17 settembre 1838. Nella memoria collettiva della sua nazione questa data è inscritta con tanta importanza che fu esattamente dieci anni dopo che il Museo aprì i battenti, alla stessa ora -le tre del pomeriggio- dello sbarco dell’artista. Un fregio pittorico, realizzati da Jorgen Sonne, decora il Museo su tre lati, rappresentando la fregata reale Rota che riportò Thorvaldsen in patria e il trasporto delle sue opere e collezioni nella nuova sede. Sul lato settentrionale si vedono i cittadini di Copenaghen che s’imbarcano su piccoli vascelli, per andare incontro alla nave dello scultore. Sono i rappresentanti della nuova élite borghese, rappresentati in veri e propri ritratti che dovevano essere riconoscibili dai contemporanei.Non tutti erano effettivamente presenti al momento del ritorno di Thorvaldsen, ma vollero essere raffigurati, a dimostrazione che il Museo per Copenaghen e la Danimarca rappresentava qualcosa di più e di diverso da un luogo dove celebrare magnificamente un artista nazionale (com’è la stessa Gypsoteca di Possagno). L’edificio (che si vede nel dipinto do Costantin Hansen del 1858 che illustra quest’articolo) incarna in tal senso il passaggio dalla monarchia assolutista a quella parlamentare, e il Museo al momento della costruzione fronteggiava il castello, allora ancora abitazione del re.
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Il Museo avrebbe dovuto ospitare i modelli originali in gesso di oltre 450 sculture, busti e rilievi che Thorvaldsen aveva realizzato a Roma e inviato in tutta Europa nella forma finale in marmo o bronzo. Ma il lascito era molto più ampio, e comprendeva 600 schizzi, i plastici per le sculture, i bozzetti, e la collezione di antichità egizie, etrusche, greche e romane messe assieme dall’artista. C’era poi una quadreria di artisti contemporanei, con dipinti, disegni e opere grafiche. E una raccolta di gioielli, monete antiche e medaglie. Ancora, oltre 20.000 oggetti personali, tra onorificenze, libri, occhiali, vestiti, tabacchiere. Dopo la morte dello scultore a questo patrimonio si aggiunse l’archivio personale, che constava della corrispondenza recuperata nella cantina della casa romana, e le lettere successive, sino a un numero di circa 10.000 documenti personali. Lo stesso Thorvaldsen negli ultimi anni della sua permanenza romana si era reso conto che l’appartamento di Casa Buti in via Sistina 46 non era più in grado di ospitare le sue collezioni. Aveva dunque pensato di acquistare Palazzo Giraud, che oggi si affaccia su via della Conciliazione, e che allora invece guardava piazza Scossacavalli, nel Borgo, a poche centinaia di metri da San Pietro, dove era posta la sua opera più importante, il monumento funebre a Pio VII. Nel 1820 Thorvaldsen carezzava l’idea di far decorare gli ambienti di Palazzo Giraud con repliche in scala gigante di Asmus Jacob Carstens, suo maestro, artista ribelle che era stato espulso dall’Accademia reale di Belle Arti di Copenaghen. Thorvaldsen era venuto in Italia con una sovvenzione statale, e come tutti gli artisti danesi doveva considerarsi al servizio della Corona. Ma si era emancipato da questo ruolo creando un mercato internazionale per le proprie opere, e si considerava ormai apolide, come rivendicato da una lettera di Cartens al curatore dell’Accademia d’Arte di Berlino, che teneva a proprio modello. Nel 1828 lo scultore espresse per la prima volta la volontà di raccogliere tutto il suo lavoro a Copenaghen, e nel 1830 facendo testamento donò tutte le sue collezioni alla città, “per il progresso delle arti e delle scienze in Danimarca”.
La marcata tendenza nazionalista che attraversò tanti Paesi europei dopo le guerre napoleoniche ebbe tra le proprie ricadute in Danimarca anche la maturazione dell’idea di dedicare un museo all’artista più importante della nazione. Ricordiamo che nel 1807 gli inglesi aveva cannoneggiato Copenaghen e che nel 1813 lo Stato danese era finito in bancarotta. Il sentimento collettivo domandava dunque una rinascita, nel segno del proprio artista più importante. C’era però un ostacolo: lo scultore non voleva donare i gessi, perché essi garantivano il funzionamento di ben cinque studi, in cui operavano assistenti e operai. E i modelli erano la principale testimonianza della sua carriera, essendo marmi e bronzi dispersi per l’Europa intera. Forse Thorvaldsen non era ancora riuscito a mettere bene a fuoco quale sarebbe stato il pubblico destinato a frequentare il Museo. E temeva di rimanere, lui e la sua immagine postuma, intrappolato in un ambiente di relativa apertura a quello che accadeva nel resto nel mondo. In qualche misura aveva ragione. Nella seconda parte del XIX secolo la sua figura fu oggetto di una vera e propria “danesisazzione”, dalla quale venne riscattato solo nel XX secolo.
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