Arte
Thorvaldsen, campione nordico del classicismo
Come Bernini e Borromini, rivali sotto il cielo di Roma? La storiografia ha spesso spinto all’eccesso la contrapposizione tra Antonio Canova e Bertel Thorvaldsen, i due astri della scultura neoclassica si trovarono sì a condividere prima la stessa piazza e poi un livello di popolarità internazionale che non è paragonabile ad altri artisti del loro tempo – fino al 15 marzo si possono ammirare insieme alle Gallerie d’Italia di Milano. Il confronto diretto ha certo stimolato entrambi ad andare oltre le soluzioni consolidate, approfondendo le ragioni del proprio linguaggio formale. La critica parteggiava per l’uno o per l’altro, spesso in maniera platealmente parziale.
Ma se Bernini di fatto si trovò in più di un’occasione a ottenere quegli incarichi a cui aspirava anche Borromini, perché più introdotto nella società romana e più eclettico, Canova e Thorvaldsen si contesero onori e mercato, finanche clienti, senza però sfidarsi direttamente sul piano delle commissioni. È anzi vero il contrario, che la scelta del primo di affrontare un tema dava l’opportunità al secondo di elaborare poi una propria versione del medesimo soggetto, anche in ragione della sfasatura cronologica con cui si erano affermati a Roma. Canova era giunto in città del 1781, Thorvaldsen nel 1797. Il primo dunque aveva di fatto aperto il terreno al secondo, soprattutto per quanto riguarda il modus operandi. Il danese si avvantaggiò della radicale trasformazione dell’idea stessa di scultura che aveva prodotto il veneto.
Bertel Thorvaldsen (Copenaghen 1770 – 1844)
Sino all’affermazione di Canova a Roma, il costo estremamente elevato di marmo e bronzo faceva di fatto della scultura una forma d’arte vincolata alle commissioni. Solo un’ordinazione consentiva all’artista di far fronte ai costi della materia prima. Attraverso i modelli in argilla e gesso, Canova disponeva nel proprio atelier di un campionario da mostrare ai clienti, per orientarli nelle loro scelte. La divisione del lavoro riservava all’artista esclusivamente la parte creativa, quella che da disegni e schizzi portava all’ideazione del prototipo in argilla, e l’esecuzione finale, con l’intervento di finitura sul marmo ormai sbozzato e definito dagli allievi seguendo i riferimenti del modello in gesso.
Thorvaldsen adottò questa stessa organizzazione del proprio studio. Questa procedura faceva sì che entrambi, l’uno in via delle Colonnette e l’altro a Palazzo Barberini, disponessero di fatto di una sorta di galleria dove erano esposte tutte le loro opere, in gesso o nelle forme del marmo sbozzato. Non a caso l’opera di Canova venne immediatamente museificata dopo la sua morte nella Gypsoteca di Possagno, e a Thorvaldsen fu dedicato il primo museo di un artista ancora in vita, a Copenaghen.
È l’esordio romano dello scultore danese a costituire una sfida diretta a Canova. Se questi infatti con il Perseo Trionfante dei Musei Vaticani si era ispirato all’Apollo del Belvedere, individuando un genere intermedio tra lo “stile severo e robusto” e il genere “delicato” delle statue graziose, Thorvaldsen nel Giasone con il vello d’oro si era inserito con grande forza nel dibattito contemporaneo della scultura eroica, cogliendo l’eredità di Jacob Asmus Carstens, l’artista dano-tedesco che per Goethe era da considerare il padre dell’arte moderna tedesca, rifondata su principi antinaturalistici, legata all’astrazione e al disegno, al bello ideale e al sublime. Le tavole di Carstens dedicate a “Giasone e gli Argonauti” suggestionarono profondamente Thorvaldsen, al pari del gruppo in gesso, poi perduto, di “Giasone e Medea”, realizzato da Domenico Cardelli, meteora della scultura romana.
La poetessa danese Friederike Brun aveva aiutato economicamente il giovane Thorvaldsen a tradurre l’opera nel modello in gesso.L’artista, dopo un periodo di stenti, aveva ormai deciso di ripartire per Copenaghen, allorché il banchiere e collezionista olandese Thomas Hope decise di commissionargli la realizzazione in marmo del Giasone. È in quel momento che Bertel decise di rimanere a Roma. Presto la notizia di questo portentoso marmo, cominciato nel 1803 ma concluso solo nel 1828, dunque destinato a rimanere per venticinque lunghissimi anni nello studio dello scultore, si diffuse nel mondo tedesco. Willhelm Von Humboldt ne scrisse a Goethe, giudicandolo superiore agli esiti canoviani. August Wilhelm Schlegel parlò di “una fiera noncuranza, quella sorta di inconsapevolezza della propria grandezza e perfezione che è tipica delle età eroiche”.
Il Perseo di Canova doveva andare a Milano, destinato a entrare nel Foro Bonaparte. Rimase invece a Roma per ordine di Pio VII, che ne impedì l’esportazione. Chi visitava prima il Vaticano e poi lo studio di Thorvaldsen poteva dunque fare un confronto tra le due opere. E presto nacquero due vere e proprie fazioni di critici. Ai puristi del neoclassico Canova appariva ancora in qualche modo improntato alla lezione barocca, per quella maniera di muovere la figura nello spazio, e per la politura quasi eccessiva della superficie del marmo. Al suo antogonista danese venne invece riconosciuto dai militanti più intransigenti di un ritorno alla classicità greca «quel senso plastico che coglie l’essenza della forma», che, secondo il critico kantiano Fernow, era capace di restituire «l’autentico carattere eroico dell’antichità».
Devi fare login per commentare
Accedi