Arte

Stomer, ultima fiammata nordica del Caravaggismo

8 Aprile 2018

Nel provare a tracciare la fortuna post-caravaggesca dell’iconografia dell’ “Ecce Homo”, sino alla frequenza con cui due pittori genovesi, Gioacchino Assereto e Orazio De Ferrari, tornano su questo tema in maniera quasi ossessiva, abbiamo citato en passant una composizione controversa, documentata in più versioni tutte molto simili e qualitativamente di livello mediocre, in Sicilia ma anche ad Arenzano in Liguria, dov’è presente la redazione in cui alcuni storici dell’arte, tra cui Gianni Papi, continuano a voler vedere un autografo del Caravaggio. Questo quadro, che Ferdinando Bologna legava alle “Quattro storie della Passione” commissionate nel 1609 al Caravaggio dal nobile messinese Nicolò di Giacomo (serie di cui le fonti antiche ricordano però esclusivamente l’esecuzione dell’ “Andata al Calvario”, tuttora perduta) e altri invece riferisce a una serie di dipinti (tra cui un Cavarozzi) che il Conte di Villamediana cercava di far uscire da Siena dopo averli acquisiti attraverso Michelangelo Vanni (figlio di Francesco, pittore e incisore) per portarli a Genova (dove sarebbero confluiti nella collezione di Giovan Carlo Doria), stava sì, per quanto riguarda la sua redazione ligure, nel Santuario del Bambin Gesù di Praga ad Arenzano, ma la sua provenienza antica doveva essere la chiesa cittadina di Sant’Anna, fondata dalla famiglia Doria. È qui che la nostra storia si riannoda, perché in quello stesso luogo si trova anche una pala di Gerrit Van Honthorst, che va collocata intorno al 1615, ed è dunque, a cinque anni di distanza dal “Martirio di Sant’Orsola”, una delle più antiche testimonianza della presenza a Genova di un’attenzione per la corrente caravaggesca. L’elemento d’interesse è che la chiesa di Sant’Anna, prima fondazione carmelitana riformata in Italia, patrocinata da Nicolò Doria, sembra essere stata a tutti gli effetti un centro di diffusione della cultura figurativa realistica di ascendenza romana, grazie alla presenza di opere di Francesco Rustici e del Fiasella. Le famiglie che acquisirono i giuspatronati delle cappelle affidarono le pale a pittori attivi anche in altre filiali dell’ordine e dunque in chiese che dipendevano da San’Anna, come Santa Maria della Scala a Roma. Credo in tal senso che tra i tanti testi rimasti fatalmente fuori dall’inquadratura offerta dalla mostra “L’ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri” alle Gallerie d’Italia, l’attività di Van Honthorst vada comunque documentata, perché spiega in primis che a fianco delle presenze nordiche di Rubens e, più tardi, Van Dyck, ve ne furono anche alcune schiettamente caravaggesche, e in secondo luogo prelude a quella che è di fatto la sezione conclusiva del percorso espositivo, quella dedicata alla fiammata postrema del realismo caravaggesco che coincide con il successo genovese, già nel quarto decennio, del neederlandese Matthias Stomer.

Gerrit Van Honthorst, “Incoronazione di Santa Teresa d’Avila”, Genova, Sant’Anna, 1615, olio su tela.

Noto anche come Gherardo delle Notti, per i suoi dipinti a lume interno, che trovavano proprio a Genova nella produzione di Luca Cambiaso un curioso precedente storico che può in qualche modo essere ascritto agli episodi di sensibilità caravaggesca ante-litteram, Gerrit Van Honthorst è uno dei primissimi artisti nordici che, giunti per il consueti viaggio di formazione in Italia, si avvicinano alla sensibilità e scuola del Caravaggio. Non abbiamo notizie certe del suo arrivo a Roma, che però deve collocarsi intorno al 1610. A quelle date anche Dirk Van Baburen ed Hendrik ter Brugghen stavano compiendo un percorso simile, ma i primi testi pubblici che i caravaggeschi olandesi licenziano pubblicamente sono più tardi di quello che compare a Genova. La “Decollazione del Battista” che  Gerrit Van Honthorts lascia nella già citata chiesa trasteverina di Santa Maria della Scala (dov’era transitata per poco tempo la tela, poi rifiutata dai Carmelitani, della “Morte della Vergine” del Caravaggio”), è del 1618, successiva alle opere prodotte per Vincenzo Giustiniani, suo protettore. Gli stessi dipinti di Van Baburen e David de Haen in San Pietro in Montorio datano al 1617, a dimostrazione che pur maturando nell’ambiente romana, l’inclinazione naturalistica di questi maestri nordici, che si propongono con una maniera completamente diversa da quella praticata da altri artisti arrivati negli anni precedenti dall’Europa Settentrionale, da Rubens al misterioso Adam Elsheimer, notturnista a sua volta, ma in chiave più fiabesca e protoromantica, finisce per trovare nella città del Papa sorprendentemente un ambito di committenza meno reattivo che a Genova.

Dirk Van Baburen, “L’incoronazione di spine”, Utrecht, Museum Catharijneconvent, 1623, olio su tela, 106×136 cm.

La dimostrazione più plastica e potente di quanto diciamo è l’altra pala di Van Honthorst che giunge a Genova, l’ “Incoronazione di Spine” registrata nell’inventario della famiglia Fieschi del 1829 tra i beni conservati nel palazzo di famiglia in via del Canneto, ma che probabilmente stava in quella sede ab antiquo. Due indizi non fanno una prova, ma è possibile che Van Honthorst sia stato a Genova, se è vero che nella collezione cittadina più importante-quella da noi più volte sondata di Giovan Carlo Doria-dovevano essere presenti un “San Girolamo” e un “Cristo Morto”, il primo acquisito tra il 1617 e il 1621 e il secondo entro il 1625. Perché immaginare che le opere siano state inviate da Roma o da Utrecht, dove il pittore torna dopo il 1620 (e avrebbe forse risentito maggiormente del confronto con la scena locale, su cui si stagliava in quel momento Van Baburen, con l'”Incoronazione di Spine” documentata dall’immagine qui sopra), e non ipotizzare, più semplicente, un suo soggiorno o passaggio ripetuto per Genova?

Gerrit Van Honthorst, “Incoronazione di spine”, Los Angeles, J. Paul Getty Museum, 1620, olio su tela, 222×173 cm.

L’influenza di Van Honthorst, e in particolare quella del suo momento romano più maturo, coincidente con la già citata commissione per i Carmerlitani di Santa Maria della Scala, non mancherà di segnare profondamente la fantasia degli artisti che al principio del terzo decennio vogliono ancora guardare a Caravaggio, appena prima del passaggio per Roma di Van Dyck, che rimescolerà ancora una volta le carte, riaffermando in città il linguaggio rubensiano. Prendiamo l’esempio forse più evidente, quello di Giovanni Serodine, nordico a sua volta, perché comunque in dialogo continuativo con le terre di origine (la sua famiglia, trapiantata a Rona, era di Ascona), ma volto a un realismo non allineato all’esempio lombardo/piemontese più prossimo, quello di Tanzio da Varallo. Non conosciamo con esattezza il momento in cui comincia a dipingere, che però l’esito di sconcertante dilettantisimo degli affreschi lasciati a Spoletom (datati 1623/24; secondo i documenti ritrovati da monsignor Corradini) tende a spingere molto avanti, sin quasi la metà del secondo decennio, costringengo a raggrumare il suo catalogo in pochissimi anni (muore nel 1630) e inducendo a immaginare un’attività precedente forse dedicata alla decorazione plastica e allo stucco. Quel che però qui ci interessa è segnalare, congiuntamente alle influenze del Caravaggismo meridionale (che spingono a ipotizzare un suo passaggio precoce in Sicilia) e a certe convergenze disegnative con i pittori attivi per i Camaldolesi a Napoli, è un momento preciso, che sembra sottrarre il giovane Serodine all’influenza di Orazio Borgianni (morto nel 1616) e attrarlo proprio verso l’esempio di Van Honthorst. La “Decollazione” trasteverina, così come la “Derisione di Cristo” del Los Angeles County Museum, sembrano ispirare direttamente la redazione che il Serodine lascia di quest’ultimo tema, in una tela legata al collezionismo storico ticinese, replicata in un dipinto-certamente una copia antica-che stava una volta nella parrocchiale di Tenero, e ora è in quella di Gordola. Indicazioni preziose del legame con un territorio che è lo stesso da cui proviene il pittore, in assenza delle quali a chi scrive sembrerebbe tuttora da non escludere a priori un’autografia del Vam Honthorst, tant’è la vicinanza tra i due in questo frangente, senza dimenticare le tangenze con Hendrick ter Bruggenm e in particolare con il “Trio Musicale” dell’Ermitage, a conferma che la folata nordica diventa poi, come da titolo di una mostra (un po’ interlocutoria a dire il vento per gli esiti critici), una “brezza caravaggesca sulla Regione dei Laghi”.

Giovanni Serodine, “Derisione di Cristo”, Rancate, Pinacoteca Zuest, 1625, olio su tela, 115×155 cm.

Chiamato tradizionalmente “Cristo Arborio”, dal cognome del’avvocato che lo valorizzà all’interno della raccolta Grecchi Luvini di Lugano, negandone la cessione  all’antiquario Ugo Donati nell’agosto 1945, il “Cristo Deriso” era stato battezzato proprio per un rifacimento di un quadro non conosciuto di Gerrit, anche in virtù del fatto che Roberto Longhi recensendo la mostra alle Isole di Brissago del 1950 confermò che non si trattava di un autografo del Serodine. La recente rivalutazione e la donazione alla Pinacoteca di Rancate, che conserva il nucleo più cospicuo di opere dell’Asconese, unitamente alla parrocchiale della sua città d’origine, non cancellano l’impressione di una profonda suggestione per il modello di pittura di lume praticata dall’olandese.

Esiste dunque, più di quanto la sistemazione critica attuale sembra suggerire, un filo rosso che unisce i primi caravaggisti nordici e l’epigono Matthias Stomer, che improvvisamente sembra nel quarto decennio rianimare una formula stilistica ormai sorpassata, ma lo fa, è bene dichiararlo, cedendo spesso a uno stile smaccatamente illustrativa e compendiario, che implica la necessità di separare i lavori più qualitativi, come la sequenza formidabile di tele portate in mostra a Milano, da esiti compromessi da una conduzione corsiva riconducibile alla sua bottega o comunque a una produzione che  fatta per il mercato.

Nel 1971, in un brano di letteratura critica di sorprendente preveggenza, parlando di Gioacchino Assereto, Gian Vittorio Castelnovi, all’interno del suo “La Pittura a Genova nella prima metà del Seicento dall’Ansaldo a Orazio De Ferrari”, parla di “una sempre maggior attenzione al Ribera, all’Honthorst e allo Stomer, delle cui notti parrebbe traccia in quadri come la Morte di Catone di Palazzo Bianco”.  In quel momento storico, la tela appena citata, acquistata nel 1924 dal Comune di Genova presso l’antiquario Geri di Milano, esposta prima a Palazzo Tursi e poi, a partire dal 1929, nella Galleria di Palazzo Bianco, portava il riferimento proprio a Van Honthorst, a cui si voleva riferito anche il suo pendant, il “Saul fa evocare Samuele dalla pitonessa di Esdor”, ora in collezione privata. In quel momento per la “Morte di Catone” si cominciò a proporre l’attribuzione all’Assereto, che qui fornisce a sua volta un saggio formidabile di notturnismo, nel rappresentare la scena del suicidio di Marco Porcio Catone l’Uticense dopo la sconfitta di Pompeo. Il tribuno prova a gettarsi sulla propria spada. Ferito gravemente, viene soccorso, ma nella notte si strappa le bende, dandosi così la morte. La scena è rischiarata da due fonti di luce artificale, una candela e una torcia, l’una a destra e l’altra a sinistra, con una soluzione che supera di slancio le soluzioni a lume accentrato predominanti nei rari frequentatori del genere nel Cinquecento (pensiamo anche al cremonese Antonio Campi oltre che al Cambiaso) e nello stesso Van Honthorst . Proprio lo scritto del Castelnovi, che aggiorno la voce di suo puno relativa all’Assereto nel “Dizionario Biografico degli Italiani” del 1962, elimina l’equivoco di un’influenza del Cambiaso sulla pittura a lume notturno genovese praticata a quelle date. Troppo più avanzate sono le soluzioni luministiche per immaginare che Assereto guardasse ancora a quello che Roberto Longhi, con un filo di perfidia, aveva definito un “Michelangelo unico”, relegato in un’età non comunicante con la scena artistica genovese alle soglie del quarto decennio del Seicento.

Gioacchino Assereto, “La morte di Catone”, Genova, Musei di Strada Nuova, Palazzo Bianco, 1640, olio su tela, 203×279 cm.

A determinare invece l’attenzione dell’Assereto per una pittura in cui prevalgono gli effetti di luce artificiale è l’arrivo in città da Palermo, città in cui i Genovesi avevano tradizionalmente interessi economici consistenti, di un trittico di dipinti di Matthias Stomer, tra il 1639 e 1641. Nella guida di Genova di Carlo Giuseppe Ratti del 1780 viene ricordato, tra gli arredi del palazzo di Benedetto Spinola in Strada Nuova viene ricordato un gruppo di tre quadri, “uno con la presa di Cristo nell’orto, l’altro con flagellazione e il terzo dimostrante la Pitonessa che fa comparire innanzi Saulle l’ombra del profeta Samuele (…) tutti dipinti a lume notturno e somiglianti in tutto allo stile di Gherardo delle Notti”. La proprietà dagli Spinola passò poi al marchese Giovanni Maria Cambiaso alla fine del XVIII secolo, nella cui raccolta si trovava anche il già citato dipinto di Assereto, con riferimento come detto anche qui all’Honthorst.

Matthias Stomer, “Saul fa evocare Samuele dalla pitonessa di Endor”, collezione privata. Courtesy Robilant+Voena 1639-1641. olio su tela, 170 x 250 cm. 

A queste tre opere va aggiunto almeno un quarto dipinto dello Stomer (o Stom, dizione altrettanto frequente con cui viene identificato). Si tratta del “Sansone catturato dai filistei” che il marchese Gavotti vendette nel 1837  alla Regia Pinacoteca di Torino come opera-ancora una volta-di Gherardo delle Notti. La restituzione della tela a Stomer, e in particolare alla sua produzione siciliana, in cui è ricorrente la monumentalità delle composizioni così come la frequentazione di temi derivanti dall’antichità classica, venne compiuta già da Hermann Voss, che nel 1908 fu il primo a ricostruire la personalità del pittore olandese, allievo a Utrecht dello stesso Hornthorst e di Hendrick ter Brugghen, transitato al suo arrivo in Italia prima per Roma e Napoli, e stabilitosi poi, a partire dal 1639, in Sicilia, dove rimase per circa un decennio. L’origine siciliana del dipinto è confermata dalla presenza di due copie nell’Isola, una a Catania (una volta nella collezione dei Benedettini, ora al Museo Civico, l’altra a Palermo in una raccolta privata). Il quadro è peraltro registrato sin dal 1673  a Roma nella raccolta di Michele Imperiale, nipote di Nicolò III Gavotti, che lo portò poi a Savona. Quest’elemento ha fatto pensare che potesse essere legato alla prima produzione italiana dello Stomer, intorno al 1633, nel momento in cui si trovava nella città dei Papi. Ma va tenuto conto che l’influenza di questa tela si riscontra in diverse opere coeve realizzate a Genova, dal “Focione che rifiuta i doni ad Alessandro Magno” dell’Assereto al “Sansone” o al “Giona” di Giovanni Battista Langetti. Il “Sansone catturato dai filistei” va ad aggiungersi al trittico di Palazzo Spinola nel sancire la fortuna dello Stomer nell’ambiente ligure, dove l’epifania dei suoi dipinti produsse un momentaneo, folgorante ritorno al naturalismo. Esaurito il quale, il Caravaggismo, con i suoi derivati ed epigoni, più o meno brillanti, sarebbe stato per sempre consegnato alla storia.

Matthias Stomer, “Sansone catturato dai Filistei”, Torino, Musei Reali, Galleria Sabauda, 1639-1641, olio su tela, 212×272 cm.

 

 

 

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