Arte
Sgarbi: Michelangelo, quando l’arte diventa metafisica. La ricerca del sublime
Nella sua prefazione al libro di Vittorio Sgarbi – Michelangelo rumore e paura, Editore La nave di Teseo- Rino Fisichella sostiene che Sgarbi, con questo libro, attraverso Michelangelo, è stato capace di narrare la storia della bellezza nel mondo.
“La bellezza non è mai un’idea astratta, ma si incarna nel tempo e nello spazio per offrire la contemplazione da cui scaturiscono serenità, gioia e consolazione. Quando i maestri antichi hanno voluto descrivere la bellezza hanno semplicemente detto: id cuius ipsa apprehensio placet, “la bellezza pone in uno stato di serenità”.
Questo è vero, ma il racconto suggestivo, fascinoso di Vittorio Sgarbi con un periodare lirico in molteplici proposizioni, suggerisce secondo me un’altra ed altrettanto significativa interpretazione: con Michelangelo, per dirla con Hegel, lo Spirito Assoluto viene in mezzo a noi.
Sgarbi cerca di spiegare l’Ineffabile, il Numinoso, si addentra in una dimensione a noi ignota, misteriosa, ma piena di incanto: quella di snocciolare, declinare la metafisica nell’Arte, di descrivere il Sublime con Michelangelo.
Ed è questa probabilmente la verità: l’Arte con Michelangelo raggiunge la massima vetta che si apprende quando lo Spirito coglie, si incarna nella realtà effettuale.
Hegel ci ha insegnato che l’uomo è Spirito, deve essere degno delle cose più elevate e quando capirà la grandezza e potenza del suo Spirito con questa fiducia potrà comprendere l’essenza dell’Universo, godere della sua ricchezza e profondità.
In fondo il fine della storia dell’uomo è proprio quello che lo Spirito si plasmi in una natura, in un mondo che gli sia adeguato. L’uomo quando si affaccia alla sua dimensione spirituale comprende la sua Seconda Natura la coscienza della sua libertà e razionalità soggettiva( da Remo Bodei La civetta e la talpa Sistema ed epoca in Hegel, editore Mulino).
E questo si coglie nel racconto di Sgarbi,del suo Michelangelo: lo scultore fiorentino per esempio ha costruito la Pietà in un modo straordinario ed unico.
Come scrive Sgarbi apprendiamo plasticamente il concetto di “sospensione del tempo”.
La madre, la Madonna, raccoglie il figlio morente, ma con un volto che appare nella scultura più giovane del figlio. Il tempo per Maria non si consuma, non porta alla corrosione: deve essere eterna, immortale nella sua giovinezza.
Sgarbi magnificamente ci ricorda che Michelangelo ha trasposto nella scultura quello che Dante aveva detto di Maria nel XXXIII canto del Paradiso:
“In te misericordia, in te pietate, In te magnificenza,
in te s’aduna quantunque in creatura è di bontate”.
“Tutto quello che nelle creature ci può essere di buono si fa uno, si “aduna”, nella persona di Maria. Questa straordinaria rappresentazione, nel più alto dei cieli, della Vergine, induce Michelangelo, come in una sfida, ad esprimere nel marmo quello che Dante ha espresso con le parole. Così, nella Pietà di Michelangelo emerge la misericordia di cui parla Dante: Maria apre le braccia e tiene il suo bambino, che, seppur adulto, conserva la fragilità del fanciullo che è stato. Il Cristo non è neppure corrotto o violato dalla morte, sembra riposare. Il suo volto è dolce, non reca segno alcuno del male patito[…]. Nelle Pietà della tradizione la Madonna è dolente. In Michelangelo è distaccata, distante. Non solo lei è giovane, figlia di suo figlio, madre del suo bambino, nell’età in cui tutto inizia, ma anche senza tragedia, in una condizione, piuttosto, di meditazione: Maria è serena e medita sul mistero. Ha la certezza, dentro di sé, che Cristo non morirà. È la contrazione del tempo reale, il superamento della pura cronologia, del nesso causa-effetto, del passaggio del tempo; e ci introduce mirabilmente, come mai accaduto prima d’ora, nel mistero centrale del cristianesimo”.
La ricerca del Sublime, Sgarbi la traccia significativamente nella descrizione del David.
Questa maestosa scultura ci introduce nel Rinascimento, ove l’uomo è al centro dell’universo: la misura, l’armonia apollinea del corpo di Davide in uno al suo sguardo- “sguardo pieno di pensiero”, scrive Sgarbi aulicamente.
Ma per delineare la grandezza di Michelangelo -che come ricorda Vasari significa quello che sta sopra– Sgarbi si nutre di un paradosso sontuoso: che Michelangelo conoscesse,senza conoscerli i Bronzi di Riace che raffigurano plasticamente le fattezze del David. “Michelangelo aveva visto i Bronzi senza vederli. Michelangelo evoca fantasmi, deriva un’immagine da un’immagine che non conosceva. Questa è la sua grandezza, la sintesi formidabile del Rinascimento”.
Ove tuttavia il libro diventa avvincente, assume il taglio di un romanzo, adesca il lettore che non si stanca mai di leggere, lo rinveniamo quando Sgarbi descrive Michelangelo che dipinge la Cappella Sistina.
Perché comprendiamo il valore e l’essenza della scultura rispetto alla pittura: la scultura e pittura concorrono allo stesso obiettivo, realizzare l’ispirazione, e, avendo lo stesso fine, non possono essere in competizione. Quello che conta è lo spirito.
La scultura si fa essenzialmente “per forza di levare” dal blocco di marmo, levare l’inutile perché emerga la figura, come se essa vi abitasse dentro; la scultura non fa che svelare ciò che è nascosto nel blocco informe della materia. Invece la pittura nasce “per via di porre”, aggiungendo, essa, il colore al disegno.
Ed allora Michelangelo compie il capolavoro. Scrive Sgarbi: “Nessun pittore è arrivato così in alto come Michelangelo nella Cappella Sistina, così come nessun artista è riuscito a realizzare, attraverso la pittura, un paradiso o comunque una dimensione in grado di rappresentare la grandezza di Dio e la sua superiorità sull’uomo. Nella cappella, che prende il nome da Sisto IV – il papa che in parte l’aveva fatta decorare dai grandi predecessori di Michelangelo, dal Botticelli al Ghirlandaio –, avviene qualcosa che trasforma la vita di Michelangelo, già noto architetto e grande scultore (la Pietà è di pochi anni precedente, come abbiamo visto). Egli non si sente ancora pittore, e comunque non tale da affrontare la volta della Cappella Sistina e da gareggiare con tanti illustri maestri. Eppure qui, in questa volta, non solo lo diventa, ma realizza altresì l’opera che lo consegnerà alla storia”.
“Michelangelo dipinge la volta della Cappella Sistina a cervice riversa, da sotto in su, per quattro anni. Un’impresa titanica”.
Vasari commentò ammirato che “Michelagnolo fece al Papa nella Cappella quel rumore, e paura”.
Quasi tre secoli dopo, Goethe nel suo Viaggio in Italia scrisse: “Senza aver visto la Cappella Sistina non è possibile formare un’idea apprezzabile di cosa un uomo solo sia in grado di ottenere.” La frase di Goethe è l’eco di quanto annota in un altro passo sempre Vasari: “E così [Michelangelo] del tutto condusse alla fine perfettamente in venti mesi da sé solo quell’opera senza aiuto pure di chi gli macinassi i colori.” Michelangelo, infatti, dopo una sola prova, decise di non avvalersi di alcun aiuto, di fare tutto da solo, persino macinare i colori.
E si ebbero “sculture dipinte”.
Nella “Creazione d’Adamo” Sgarbi, con inclita prosa, delinea quello che a noi piace di più di questo libro: “la metafisica” di Michelangelo: “È una vera e propria scossa elettrica, un tocco impercettibile, non fisico ma metafisico, perché la forza di questa memorabile immagine è nella distanza fra il dito del Padre Eterno e il dito di Adamo, una distanza minima ma netta e incolmabile. Le due dita non si toccheranno mai perché ciò che si comunica è qualcosa di immateriale. Quella distanza è come l’infinito, è un teorema matematico, è il paradosso zenoniano di Achille e la tartaruga: per quanto Achille sia veloce non raggiungerà mai la tartaruga, perché lo spazio è infinito, la distanza è incolmabile. Ecco, questa idea d’infinito passa dall’energia assoluta all’inerzia, e quell’immagine è il simbolo di una forza di cui il Rinascimento è titolare. Un’immagine epocale”.
Il libro ripercorre tutte le opere del grande scultore per esempio il Mose’ e l’Atlante.
Ma Sgarbi diventa mistico, si cala a descrivere lo Spirito di Michelangelo e lascia nel lettore una commozione al contempo intensa e sottile, quando discetta della “Pietà Rondanini”, l’ultima opera dello scultore fiorentino.
Siamo al cospetto del Michelangelo del “non finito”.
Nella “Pietà Rondanini” non abbiamo un Cristo eroico, o quello finitissimo, forbitissimo, della prima Pietà, è un Cristo debole, le cui gambe non hanno la forza di reggersi, sono compiute ma cadono. Il suo corpo non è definito. Maria sta dietro Gesù come per sostenerlo, pare offrire al figlio l’ultima forza, le ultime energie. Michelangelo mostra di essere assolutamente contemporaneo nel non finito dei due volti, dei quali non riusciamo a leggere i lineamenti, sembra che egli non scolpisca corpi ma anime, non Gesù e Maria ma ognuno di noi di fronte al mistero della morte e dell’essere madri e figli.
“La Pietà Rondanini rappresenta ciò che è spirito, ciò che ci lega a Dio. Alla luce di quest’opera si rende chiara la volontà, sin dalla prima Pietà, di rappresentare ciò che è ineffabile, ciò che è irrappresentabile, ciò che è dentro di noi”.
Sgarbi in definitiva ha descritto un Michelangelo metafisico, perché il grande scultore fiorentino ha reso nel mondo della storia che l’Arte sia -come scrisse Benedetto Croce della filosofia hegeliana sull’Arte- la “perfectio sensitiva”.
Perché con l’Arte di Michelangelo si ha la rappresentazione sensibile dell’ Idea, dello Spirito.
Il libro è bellissimo.
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