Arte
Quelle ultime Ultime cene del Procaccini
Sono passati esattamente dieci anni da quando, in una giornata di metà febbraio, apriva al Museo del Palazzo Reale di Genova, nel Teatro del Falcone ridisegnato nell’occasione come sede espositiva, la mostra dedicata a Valerio Castello, il grande decoratore vissuto solo trentacinque anni, alla cui morte, avvenuta il 17 febbraio 1659, l’ambiente artistico cittadino restò di fatto destabilizzato. Più mi addentro nello studio de “L’ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri” e più mi rafforzo nell’idea che tra questa e quell’iniziativa, distanziate dieci anni, esista un filo invisibile, e che l’una per così dire contenga l’altra.
Il segno più evidente di questo legame, che inverte di fatto il rapporto tra le due mostre, quasi che dalla seconda nasca la prima, può essere ancora rintracciato nel catalogo della monografica dedicata a Castello e alla sua scuola. Tra i precedenti di Valerio si trova infatti la scheda del bozzetto preliminare dell’ “Ultima Cena” ora in “Santa Annunziata del Vastato” di Giulio Cesare Procaccini, bozzetto che è conservato alla Galleria Nazionale di Palazzo Spinola. La mostra di Milano ruota letteralmente attorno alla poderosa tela quasi 5 metri per 9 del “Cenacolo” di Giulio Cesare, ma occorre infatti ricordare che all’interno dell’esposizione il bozzetto occupa a sua volta una posizione di snodo.
Se infatti è possibile che il Procaccini lo abbia eseguito ancora in terra lombarda, prima di entrare in azione a Genova, dove realizzò il monumentale dipinto, sappiamo che l’olio preparatorio (di dimensioni circa un decimo rispetto al telero, 42×102,5 cm) finì nella quadreria di Giovan Carlo Doria, all’interno del vastissimo corpus di opere del maestro, che costituivano da sole poco meno di un settimo della sua collezione, una delle più estese all’epoca nell’Italia del Nord.
Proprio da esempi come quello dell’ “Ultima Cena”, con i suoi vibranti effetti luministici, la straordinaria energia di forme appena abbozzate ma comunque inserite con sapienza in uno spazio individuato con attenzione (e non esattamente conforme alla versione estesa), la conduzione velocissima a punta di pennello, Valerio Castello avrebbe preso l’esempio per quei bozzetti che tratterà sempre più spesso nel quarto decennio come opere autonome, contribuendo a dare vita a una produzione che avrà poi piena dignità di accesso alle collezioni private nel Settecento, e non sarà più solo il pendant, rimasto sepolto nella bottega o ceduto per poco sul mercato, di un intervento decorativo o di una tela di grandi dimensioni, spesso a destinazione pubblica. E non sembra allora un caso che negli inventari Doria, l’ “Ultima Cena”, registrata tra il 1616 e il 1621, e poi ancora dopo il 1625 ed entro il 1641, non compaia classificata tra gli schizzi e i lavori preparatori, come avviene invece per altre opere del Procaccini. Dopo essere passata ad Ansaldo Pallavicino nel 1652, il piccolo dipinto perverrà infatti agli Spinola di San Luca, finendo per essere descritto con grande precisione nelle due edizioni (1766 e 1780) della guida di Genova di Carlo Giuseppe Ratti come “abbozzo della celebre Cena Domini del Procaccini”, a testimonianza da un lato della fama del telero di Sant’Annunziata del Vastato e dall’altro della riconoscibilità del suo bozzetto.
Alessandro Morandotti ha voluto inserire l’opera di Galleria Spinola nella sezione della mostra delle Gallerie d’Italia dedicata alla pittura di tocco. Risale a Roberto Longhi l’idea di vedere nel Procaccini uno dei primi interpreti e dell’abbozzo autonomo, nella scia dell’esempio del Parmigianino. A cui guarda anche Valerio Castello in quella “Madonna delle Ciliegie”, che è un’altra delle opere passata dalla monografica genovese del 2008 a questa. E nella biografia del Castello giovane, ricordiamo che Soprani nelle sue “Vite” del 1674 cita un soggiorno milanese per “copiare le migliori e le più perfette opere” del Procaccini. C’è insomma una direttrice Parma/Milano/Genova, che da un lato riguarda i dipinti di piccole dimensioni e, appunto, la pittura di tocco, ma che poi impatta anche sulla concezione e costruzione della grande decorazione, dove nel brevissimo astro della sua vita consumata freneticamente a dipingere volte col viso rivolto all’insù, Valerio sarà come una stella filante per tutta la pittura europea. Nonostante la messa a punto degli studi che lo riguardano prodotta proprio dalla mostra di dieci anni fa, questo primato è rimasto ancora in qualche modo occultato, e con esso la conoscenza, che ci sembra ancora riservata a un gruppo di studiosi di ampiezza poco più che locale, del suo straordinario intervento nelle sale di Palazzo Balbi Senarega, coadiuvato dal quadraturista bolognese Andrea Seghezzi, che si colloca negli ultimi quattro anni della sua esistenza.
Quest’articolo sembra così dipanarsi, in modo un po’ curioso, tra formati e tecniche che apparentemente sembrano incompatibili: la pittura di tocco, che trova una prima definizione approssimativa a Genova proprio negli inventari di Giovan Carlo Doria, dove ricorrono, in riferimento ad alcuni dipinti di Giulio Cesare Procaccini espressioni come “bozzette”, “macchie”, e, in alcune varianti, “macchiette” e “maccie”, o ancora, con allusione alla rapidità esecutiva, perifrasi come “fatti in tre giorni”, e, di contro, opere di dimensioni ciclopiche. Quest’idea del Procaccini di dipingere quasi come si disegna, passa per una maniera di abbozzare i contorni delle figure con pennellate molto rapide. Non è solo uno studio e lo si capisce dal fatto che la tavolozza ha una luminosità interna, un’iridescenza, che traduce l’immaginazione dell’effetto che dovrà avere la composizione una volta tradotta a parete o su di un grande telero. Non a caso i riferimenti a cui guarda Giulio Cesare sono da un lato il più volte citato Parmigianino ma anche e soprattutto Tintoretto e la sua maniera ultra-veloce. Tra i dipinti di piccole dimensioni esposti alle Gallerie d’Italia c’è per esempio una “Madonna con il bambino e un angelo” che è stata a lungo riferita proprio a Parmigianino, e che solo a partire dalla lettura di De Rinaldis (che è del 1911) è stata riconosciuta essere un dipinto autografo del Procaccini. Nikolaus Pevsner ha poi intuito (1929) che l’olio su tavola è legato al momento della Cappella Acerbi in Sant’Antonio Abate a Milano, dunque nel cuore della nostra indagine, e databile al 1612. Federico Zeri (1955) ha spostato leggermente più avanti la data di realizzazione, fissandola nel periodo 1615/1620. Dunque in perfetta coincidenza con il periodo della realizzazione dell’ “Ultima Cena”.
Longhi definiva questo dipinto un “piccolo capolavoro di silografo pittore”, con riferimento alla tecnica di incisione su legno, che viene evocata dai tratteggi minuziosamente incrociati (il passaggio è dal contributo sugli “abbozzi autonomi” di Giulio Cesare del 1966). Qui però siamo davanti a un’opera che con evidenza non è stata realizzata come preparazione di un dipinto di più ampie dimensioni, ma per vivere per così dire di vita propria: uno di quei quadri devozionali che dovevano figurare in gran numero nella collezione di Giovan Carlo Doria, anche se nel caso specifico sappiamo solo che è inventariato nelle raccolte Farnese ( per la precisione nel 1653), passate poi in blocco a Capodimonte. Mi è parso utile mettere a confronto questa tavola con il bozzetto dell’ “Ultima Cena” per annotare, a fronte della sostanziale coincidenza della datazione, come l’uno sia stato realizzato, pur nella tecnica esecutiva in velocità, con una perizia quasi da orafo, mentre l’altro spinga potentemente sull’acceleratore del gesto, tra guizzi, baluginii, che trascorrono su rossi e blu accessi, preludendo al timbro del telero di Sant’Annunziata del Vastato, per cui Marco Rosci scrisse nel 1993 di splendore cromatico “basato sui rapporti di rosso, giallo e blu di lapislazzulo più di tipo neoveneto tintorettesco che non rubensiano”. Un’osservazione che si può condividere, senza però eludere la fortissima matrice lombarda, improntata ancora sul “Cenacolo vinciano” e sullo studio puntuale della propagazione dell’annuncio del tradimento di Giuda nei moti e nei volti degli apostoli.
Dalle ricerche documentarie effettuate a metà degli Anni Sessanta nell’Archivio Storico della Provincia Ligure dei Frati Minori”, è emerso che a commissionare il dipinto fu Gerolamo da Nervi, frate della Santissima Annunziata, per il refettorio del convento, e che solo a partire dal 1686 il telero venne spostato nella controfacciata della chiesa, dopo un riadattamento che implicò un ulteriore allargamento delle dimensioni originarie. Il dipinto, che era già stato restaurato nel 1992, in modo da far riacquisire leggibilità alla pellicola pittorica, nel 2014 è stato affidato, dopo un cedimento del supporto tessile ausiliario, a una complessa revisione da parte del Centro per la Conservazione e il Restauro di Venaria Reale, per essere rifoderato e messo in tensione su di un nuovo telaio, ma anche ripulito e in qualche modo riequilibrato, perché i toni cromatici del Procaccini e quelli delle parti aggiunte avevano finito per differire troppo.
Se la costruzione della scena per gruppi di figure dialoganti contempla lo studio puntuale di Leonardo, che era certamente ancora un testo normativo nella Milano di fine Cinquecento, un importante passo avanti nella comprensione della complessità di influssi e ascendenze che si intrecciano in quest’opera è quello che si registra nella scheda di Morandotti, dove il curatore della mostra alle Gallerie d’Italia segnala : “Credo che l’incredibile mobilità dei volti (si pensi agli apostoli in secondo piano al centro e verso destra) quasi modellati nell’argilla o nella cera, non possa prescindere dalle sue esperienze giovanili di scultore all’interno del cantiere del Duomo, dove i modelli in cera e in terracotta costituivano la guida costante per gli esecutori delle opere finite”. Morandotti riconosce però anche il legame con Rubens e con “certe teste energiche di apostoli o di vecchi che il pittore aveva licenziato nei suoi anni italiani, anche a Genova”, rammentando l’esistenza di una una serie di dipinti di soggetto analogo realizzati da Giulio Cesare per Giovan Carlo Doria. Su queste figure di santi dovremo presto tornare. Ma la presenza irripetibile di questo monumentale marchingegno pittorico a Milano non può non produrre una riflessione: al di là del neo-venetismo e degli echi leonardeschi, molte cose, dalle figure di quinta ai timbri metallici, sino all’enfasi dei gesti, tradiscono un’impostazione già compiutamente barocca, e il nome di Rubens a me pare in tal senso forse ricusabile per la tavolozza, non certo per l’impianto compositivo e la drammaturgia interna del telero. Che ridisegna completamente geometria, geografia e valori della mostra delle Gallerie d’Italia, accentrandola a sé. Non già dunque una mera riflessione sugli esiti post-caravaggeschi della pittura tra Genova e Milano, ma, in maniera più potente, un’idea di pittura che con piena autonomia si dispiega per almeno cent’anni, con conseguenze che sfondano persino il perimetro scelto da quest’esposizione. Forse più che l’ “Ultimo Caravaggio”, viene da dire, poté forse quest’ultima Ultima Cena della nostra storia dell’arte.
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