Arte
Quel libberista di Michelangelo: l’economia del Rinascimento
Ci sono alcuni ambiti della vita che sembrano uscire da una pura logica di mercato: per esempio la bellezza di una poesia o di un’opera d’arte. Qual è il valore del David di Michelangelo, per esempio, o di un quadro di Andy Warhol?
Per quanto riguarda gli artisti del Rinascimento, l’opinione di molti storici dell’arte, almeno fino agli anni più recenti, era che il prezzo di un’opera di Raffaello, piuttosto che di Perugino, non fosse dettato da regole di mercato, quanto piuttosto dal prestigio e dalle finalità del committente e, in generale, da norme e valori sociali estranei a dinamiche facilmente quantificabili.
Nessuno, però, aveva mai provato a testare l’ipotesi con i dati, banalmente perché non è così semplice trovarli, persi nei meandri di archivi impolverati da secoli che conservano però ancora, per l’attento ricercatore, i dettagli di molti contratti di opere commissionate tra il tredicesimo e il sedicesimo secolo.
La costruzione di questo dataset è stata portata a termine, con un lavoro davvero certosino, da Federico Etro, dell’Università Ca’Foscari, che ha raccolto informazioni su trecento opere d’arte relativamente al prezzo effettivo pagato dal committente; alla dimensione del quadro; al numero delle figure rappresentate nell’opera; alla regione del committente e del destinatario; all’anno, infine, di realizzazione.
L’ipotesi allo studio è che, in realtà, anche durante il Rinascimento, committenti e artisti fossero guidati da leggi di mercato, più o meno efficiente e con caratteristiche ben definite.
In particolare, si trattava di un mercato che assumeva la forma di quella che, in letteratura, è nota come concorrenza monopolistica, la tipica situazione in cui i vari agenti competono attraverso prodotti simili ma differenziati.
Per intenderci, l’appalto per la realizzazione dei bassorilievi che decorano la porta nord del battistero di San Giovanni a Firenze vide diversi artisti affrontarsi in un concorso, al termine del quale l’opera fu affidata a Lorenzo Ghiberti, dopo che l’altro finalista, Filippo Brunelleschi, rinunciò alla sfida.
In un mercato così caratterizzato, il valore delle opere d’arte non nasceva soltanto dal prestigio e dai valori sociali, ma anche da caratteristiche oggettive e correlate alla qualità dell’opera, per come essa poteva venire per lo meno percepita all’epoca.
Insomma, una vera struttura degli incentivi che, dice Etro, contribuì insieme ad altri fattori a spiegare l’evoluzione dell’arte nel Rinascimento.
Quali fossero questi fattori, Etro ce lo spiega attraverso un modello econometrico che riesce a dimostrare, in modo robusto, alcune conclusioni importanti: la prima è che il prezzo delle opere d’arte, tra 1300 e 1500, subì un’impennata, che corrispondeva a un’aumentata profittabilità del mestiere d’artista.
E non era soltanto una questione di umanesimo che riporta al centro l’essere umano con la sua sfida concettuale ai limiti: si trattava anche di un meno prosaico, ma altrettanto importante, fattore correlato alle crescenti prospettive di guadagno per chi decideva di diventare pittore. Se a fare l’artista si guadagna di più, è chiaro che sempre più persone si dedicheranno all’arte come mestiere.
Fattura fattura fattura: l’imperativo dello start-upper come del maestro di bottega, insomma.
Questa aumentata profittabilità fa il paio con sempre maggiori innovazioni: l’introduzione della pittura a olio, l’invenzione della prospettiva, le nuove tecniche per affrescare una parete più rapidamente…
Un mercato florido (anche se Etro dice a chiare lettere che non per forza c’è un nesso causale tra le due cose) è associato anche a maggiori stimoli ad innovare, come di fatto avvenne nel corso di tutto il Rinascimento.
Ma quali erano gli elementi oggettivi che impattavano positivamente sul prezzo di un’opera?
Banalmente, due caratteristiche facilmente controllabili anche in sede di stipula del contratto: la dimensione del quadro, da un lato, e il numero di figure rappresentate dall’altro.
Per dipingere un quadro grande, ci vuole un pennello grande, insomma, il che giustifica un maggiore investimento da parte del committente. Inoltre, la presenza di più figure umane garantiva, per esempio in un lavoro svolto dalla bottega, che il proprietario della stessa avesse un ruolo rilevante senza lasciare troppe incombenze agli assistenti. Tipicamente, infatti, era il maestro a occuparsi delle figure umane, mentre i garzoni lavoravano ai dettagli.
Un altro risultato interessante, che conferma tra l’altro l’esistenza di dinamiche di mercato, è la relazione tra l’età del pittore e il prezzo dell’opera d’arte.
C’è una sorta di andamento a U rovesciata, come nel grafico seguente:
Un artista, giovanissimo, entrava in competizione in un mercato che gli garantiva le massime prospettive e i maggiori incentivi a innovare fino all’età di 40 anni. Costruitosi, a quel punto, una buona reputazione come pittore di alta qualità, il pittore poteva spendere la fase finale della sua carriera a replicare opere già fatte, delegando il grosso del lavoro agli apprendisti in bottega.
Perugino e Bernardino Luini, per esempio, fanno proprio al caso in questo senso.
La classifica dei più pagati
Etro studia anche la profittabilità della professione di artista, controllando per il costo della vita dell’epoca (valutato grazie ai salari medi pagati per il lavoro poco qualificato).
L’analisi contiene, come controllo, le speciali valutazioni fatte da Giorgio Vasari (primo storico dell’arte vissuto nel Cinquecento) sui pittori della sua epoca, descritti nel suo celebre Vite de’ più eccellenti pittori. L’evidenza empirica mostra un’interessante e comprensibile distorsione dei giudizi a favore dei pittori fiorentini. In una versione più completa del modello, dove si prendono in considerazione anche le caratteristiche individuali dei vari pittori, si arriva a costruire una speciale classifica del valore di mercato degli artisti che, nella “top 5”, vede non sorprendentemente Raffaello, Tiziano e Michelangelo.
Se uno confronta una crocifissione giovanile di Raffaello (figura 2) con l’ultima opera a lui attribuibile (figura 3), al di là dell’evoluzione effettiva del talento del grande pittore, può acquistare un senso tutto nuovo il ruolo esercitato dal numero di figure rappresentate. Lasciando da parte le esigenze sceniche e di rappresentazione, c’era una bottega intera da mandare avanti che necessitava di sempre più fiorini.
E pensiamo ora, in una luce un po’ nuova, anche all’affresco della cappella Sistina di Michelangelo. Forse toglieremo un po’ di poesia, ma è interessante notare come per la volta, dipinta dall’artista in età giovanile, il colore azzurro sia stato ottenuto con una pasta di bassa qualità, mentre per la parete del Giudizio Universale il pittore si sia servito dei lapislazzuli. Da giovane in rampa di lancio, infatti, i costi dei colori erano a suo carico mentre, da anziano e riconosciuta star, era il papa a pagare i materiali.
Che dire, quindi, del prezzo pattuito per il soffitto, che già all’epoca rappresentò un ingaggio da top player se confrontato con le altre commissioni?
3000 fiorini d’oro.
Oggi un fiorino varrebbe intorno ai 150 euro, ma per dare una dimensione del valore per l’epoca, basti pensare che, con 500 fiorini (la paga del David, riconosciuta a un Michelangelo giovanissimo) ci si poteva comprare una bella casa.
Parete dalle grandi dimensioni, un sacco di figure da dipingere: per Michelangelo, possiamo dire con certezza che l’Apocalisse non fu poi la fine del mondo.
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