Arte
Quando amare significa amarsi
“Qui potrebbe concludersi il tema dell’amore per l’altro quando si configura come totale identificazione di due corpi e due anime in un corpo e in un’anima sola”
Quanti pianti si sono fatti per amore, quante lacrime versate, quante poesie scritte, canzoni ispirate.
Quanto costa l’amore? Una crociera richiederebbe un investimento minore. Più è intenso più ti ci butti a capofitto, fitte sono le giornate di cose che riesci a fare. Perché l’amore è motore, slancio, molla, concima ogni zolla che fino a poco prima era stata arida, rende colorate le giornate grigie. Riempie di sfumature la vita, che può anche non essere sempre rosa, ma assumere colori meno smorzati, più brillanti, meno opachi.
L’amore non conosce solo giornate assolate, gioie condivise, non è un mare sempre piatto, sperimenta anche le sue tempeste, giorni burrascosi, l’amore è anche amaro, un gusto che non gli sembra connaturato, sembra, anzi, estraneo a un sentimento che dovrebbe produrre solo sensazioni piacevoli, condivisione, gioia.
L’amore perso ti trasforma, il corpo si allarga o si restringe a seconda che si cerca di colmare il vuoto immettendoci dentro quel tutto che compensa il vuoto, o che, per uniformarsi ad un sentimento, tende a negarsi l’assunzione di vita. Il vuoto nel cuore, il vuoto nello stomaco. Non si sentono più le farfalle, sono tornate nel loro bozzolo, siamo un bruco e quel buco che ci divora, ci mastica, ci deglutisce. Siamo materia informe. Perché l’amore non solo ci mette in forma, ma ci forma, ci plasma, ci apre a quell’altro diverso da sé di cui si assume un po’ le sembianze. Sembriamo, appariamo a noi stessi, quel noi che ci era fino a poco prima estraneo, se non totalmente almeno in parte, si svela; ha una fattezza completa, siamo un organismo geneticamente modificato, sono i nostri geni a mutare.
L’amore perduto ci fa sentire un pesce fuor d’acqua, il posto che ci era congeniale diventa un luogo ostile perché ci assalgono i ricordi, le ferite sono l’intercapedine dove entra il gelo della vita. Vita vuota. E in quel vuoto può entrarci di tutto. Come lo si riempie il vuoto? I voti a scuola calano, sono direttamente proporzionali al nostro grado di felicità, a volte sale il tasso alcolemico. Prendersi una pausa dal dolore è riappacificante. Non c’è dolo nel dolore, capita, come una mazzata tra capo e collo, come un temporale in piena estate. È lo straripare di un fiume che spezza gli argini e trascina con sé tutte le cose a noi più care, le fotografie ritraggono un tempo passato che non conoscerà avvenire, è la trascrizione di una vita che non è più, e allora cerchi il tuo photoshop, tutto ciò che è capace di alterare, di mistificare il presente. Un presente in cui sei assente perché non ti riconosci più. Non siamo. Imperfetti, caduchi, in cerca di appigli, pigli quello che ti è più vicino, la vita ti ha afferrato per il bavaro e ti ha dato un ultimatum, tu devi risponderle in qualche modo.
Ma qual è il modo, e come risponderle? Procedi per prove ed errori, quando procedi, a volte ti senti un gambero, le sabbie mobili dell’esistenza ti tirano in basso e tu ti lasci ingoiare perché non hai la forza di opporti. Niente che ti porti nell’al di qua dove l’esistenza ha una dimensione, un peso, un valore.Ti aggrappi allora a te stessa, essere minuscolo, crepato, perduto tra strade sterrate e senza insegne. È la vita che insegna a prenderti cura di te. Lo fai attraverso la poesia, l’arte, la scrittura, il tuo lavoro.
Ma allora, amare è conveniente? Bisogna lasciarsi andare mettendo in conto che si può essere feriti?. Meglio vivere godendo di quel soffio di vita inalato per caso nelle nostre vite o meglio ritrarsi presagendo le eventuali trappole dell’amore? Interrogativo ambizioso su cui si potrebbe discutere a lungo e pervenire a versioni diverse tra loro.
Somiglia un po’ alla disputa che nacque nell’ l’Europa del XV secolo e che, mai del tutto sopita, esplode in due diverse occasioni nella Firenze di Cosimo I de’ Medici. Fu il filosofo Benedetto Varchi, con le sue Lezioni tenute nel 1546 all’Accademia Fiorentina, una delle quali intitolata proprio “Qual sia più nobile, o la scultura o la pittura”, responsabile di aver dato nuovo corpo cinquecentesco alla disputa per determinare una supremazia.
La conclusione alla quale giunge la riflessione – organizzata da Varchi come una sorta di inchiesta in cui coinvolge per la prima volta anche gli autori più rappresentativi, tra cui Michelangelo, Bronzino, Cellini, Vasari e Pontormo – è salomonica: esse costituiscono un’unica arte e conseguentemente tanto nobile l’una quanto l’altra.
In foTo: Giorgio de Chirico
Il figliuol prodigo
olio su tela
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