Arte
Prima della Scala: il ritorno di Giovanna D’Arco, vero capolavoro?
Non finisce qui. Anche se il sipario sulla Prima della Scala si è chiuso e l’eco dei lunghissimi applausi si è ormai spenta. Sì perché la bravura dei cantanti e del Direttore principale Riccardo Chailly e le doverose ovazioni non fanno la differenza per capire se abbiamo assistito a una rinascita o a una commemorazione.
In altre parole: ha avuto ragione Chailly a rompere un silenzio lungo 150 anni riportando la Giovanna D’Arco di Verdi alla Scala o quest’Opera ricascherà presto nell’oblio avverando la profezia di Massimo Mila secondo cui la durata di queste operazioni «è simile a quella dei cerchi d’acqua prodotti da un sasso gettato in uno stagno»?
Ha ragione il primo a sostenere, come ha fatto alla vigilia dalle colonne de La Stampa, che non si tratta assolutamente di un’Opera minore o il secondo ad affermare senza mezzi termini che «non si serve la causa di Verdi con l’ingenua pretesa che le sue opere siano tutte capolavori»?
In realtà Mila, indimenticato critico e musicologo, è ancora più esplicito nelle sue lezioni del 1963 all’Università di Torino (oggi raccolte in un libretto non a caso intitolato “Le opere brutte di Giuseppe Verdi”). A suo giudizio il tempo in queste faccende non inganna e negli anni ha fatto emergere una naturale e chiara gerarchia tra i lavori del “padre musicale della Nazione”. Dopo la stesura de I due Foscari si sarebbe infatti verificato “un preoccupante avvallamento”, “uno scadimento di livello” di cinque o sei anni che si estende con rare eccezioni fino alle soglie del Rigoletto.
E così ci sono i capolavori (la Trilogia popolare, Ballo in maschera, Forza del Destino, Don Carlo, Aida, Otello e Falstaff), le opere in parte immature (tra cui Nabucco ed Ernani), le diseguali (Luisa Miller, Simon Boccanegra…) e quelle brutte, deboli, frutto della fretta e della smania di primeggiare in quantità sugli altri, anche se magari a tratti segnate dall’“unghia del leone” (Giovanna D’Arco, Alzira, Attila, I Masnadieri, Il Corsaro e La battaglia di Legnano).
E se anche Riccardo Muti, nel suo libro-tributo al “musicista della Vita” (“Verdi, l’Italiano”), non cita mai la Giovanna D’Arco, nemmeno tra le “minori” che avrebbe voluto dirigere, Chailly, allievo di Abbado, ha un’altra visione. Ovvero tutte le opere verdiane sono valide e soltanto insieme sono in grado di mostrare l’evoluzione di una carriera straordinaria. A questo magnifico edificio non si può levare quindi alcun pilastro, tanto è vero che senza Giovanna D’Arco (già da lui diretta a Bologna nel 1989) non ci sarebbe Rigoletto. Non solo, l’Opera che narra le vicende della Pulzella d’Orléans, in un libretto di Solera che invece nessuno è in grado di salvare, sarebbe – ha detto in un’altra intervista – una «delle sue più belle perché contiene una miniera di suggerimenti per le opere future». Ma quali miniere, replicherebbe l’instancabile Mila, «solo un cimitero di procedimenti abbandonati a poco a poco attraverso l’assidua autocritica del genio».
Chi ha ragione dei due? Le tesi di Massimo Mila avranno più di 50 anni, ma sembrano ancora in ottima forma, mentre Riccardo Chailly ha dalla sua bravura, titoli, coraggio e successi, a cui può aggiungere quello di ieri sera.
I critici musicali di oggi magari ci aiuteranno a capire da domattina se la Scala deve festeggiare per il capolavoro ritrovato o se invece è stata solo eseguita magnificamente un’opera brutta. Il tempo poi farà il resto, rimettendo le cose a posto.
P.s. Possono sembrare polemiche astruse da melomani e musicofili, ma le risposte a queste domande segneranno il futuro del Piermarini. E comunque, del vestito della Santanchè si è parlato abbastanza…
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