Arte

“Pensavo di mandarle il quadro di sant’Orzola questa settimana”

18 Dicembre 2017

Dopo aver concepito il “David e Golia” come dono da inviare a Scipione Borghese al fine di ottenere un salvacondotto che gli consentisse di tornare a Roma, il Caravaggio mette mano a un altro dipinto che entrerà nelle collezioni del cardinale. Il quadro accompagnerà il pittore nel suo ultimi viaggio. Scipione lo conservava originariamente nel Palazzo di Città di via Ripetta, e non nella Villa di Porta Pinciana dove tuttora si trova la sua collezione. Accordato sui bruni, il “San Giovanni Battista” Borghese è poco più di una diagonale, uno studio anatomico e uno sguardo: una specie di cronaca di un’occasione mancata, di un’assenza. La noia del modello viene virata abilmente in un sentimento malinconico, gli occhi si perdono nel vuoto, persino l’ariete si gira dall’altra parte. C’è tutto il tempo per perdersi nella texture della sua lana, o per registrare il filo d’ombra che scorre sul mento imberbe di questo modello languido e svogliato.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, “San Giovanni Battista”, Roma, Galleria Borghese, 1610, olio su tela, cm. 159×124.

San Giovanni Battista o Gesù Buon Pastore?

Nell’estate del 2010, in occasione del quarto centenario della morte del pittore, il dipinto venne esposto nella chiesa di Sant’Erasmo a Porto Ercole. Proprio nella località dell’Argentario il pittore avrebbe infatti trovato la morte il 18 luglio. In quell’occasione lo studioso Mauro Di Vito riesaminò l’iconografia del dipinto, stabilendo che non si tratta di un “San Giovanni Battista”. Chi conosce uno dei lavori capitali della storia dell’arte del XX secolo, “La pecora di Giotto” di Luciano Bellosi, sa che neppure gli ovini vanno sottovalutati quando si studia un quadro. E infatti, in occasione della mostra curata da Valeria Merlini nella cittadina toscana, uno studioso di zoologia, Marco Masseti, stabilì che l’ariete del “San Giovanni Battista” era in realtà una pecora, molto simile alla specie Garfagnina. Un particolare non da poco, perché l’iconografia tradizionale del San Giovanni Battista nel deserto prevede che all’asceta sia accostato proprio un ariete, simbolo di Cristo, di cui il Battista porta l’annuncio profetico. Nello stesso tempo veniva confutata l’ipotesi di quegli studiosi che avevano identificato nell’ovino il montone di Frisso, dando così del soggetto una lettura che dalle sacre scritture si spostava al mito. Invece questo giovane, così diverso dalle raffigurazioni precedenti che ne aveva dato il Merisi, è affiancato da una pecora che bruca un tralcio di vite, allusione a Gesù. Caravaggio nel viaggio via mare verso Roma lo porterà con sé espressamente per chiedere una grazia. Si identifica dunque con la pecorella smarrita che tornando nella città del Papa può ritrovare la vite eucaristica, simbolo di Cristo, ma anche del suo vicario in terra, Paolo V, presso cui Scipione Borghese era chiamato a intercedere in suo favore. Di Vito ha così proposto di identificare il soggetto con un “Gesù buon pastore”, dandogli così un significato nuovo, allusivo alla vicenda personale del pittore. Il manto rosso sarebbe in tal senso del colore della porpora cardinalizia di Scipione. La scoperta, come spesso capita quando si compie un ribaltamento della tradizione, è rimasta poi chiusa dentro le pagine del catalogo. Il dipinto alla Galleria Borghese è ancora indicato come “San Giovanni Battista”. Peccato, perché si tratta di un addendo significativo alla comprensione di quegli ultimi mesi di produzione, confermativa degli obbiettivi perseguiti con l’invio a Roma del “Davide e Golia”.
Sotto il profilo squisitamente stilistico, il “Gesù buon pastore” (almeno noi chiamiamolo con il suo titolo corretto) è un documento altrettanto prezioso, perché dimostra che la crescente velocità esecutiva che registriamo tra il soggiorno in Sicilia e il ritorno a Napoli è anzitutto una questione di tempo, la necessità di consegnare in poche settimane dipinti impegnativi per dimensioni e composizione. Caravaggio sa ancora dipingere in un altra maniera, più classica, viene da dire “in sicurezza”, e potrebbe continuare a farlo per molti anni ancora, accantonando magari l’espediente ormai risaputo del brutale trapasso del chiaroscuro, e approfondendo il carattere tonale, tizianesco, del quadro Borghese.

Ma i primi mesi del 1610 rimettono sulla sua strada l’annoso problema della pittura di storia. Su cavalletti contigui si trova così a confrontarsi con la “Negazione di Pietro” e il “Martirio di Sant’Orsola”. Nel primo (riprodotto nell’immagine di apertura dell’articolo), che dal 1977 appartiene alle collezioni del Metropolitan Museum di New York, Caravaggio torna a misurarsi dopo anni con un quadro d’azione a tema evangelico nel formato delle mezze figure, qui sfruttato con grande senso di profondità, grazie anche alla trovata di sistemare sullo sfondo la fiamma di un camino, consonante al tono dell’imprimitura, a dar l’idea che la scena si svolga davanti a un focolare. Il centro della tela è occupato dalle cinque mani dei tre protagonisti, tutte convergenti verso la figura di Pietro. A questo movimento corrisponde invece una triangolazione di sguardi che ha negli occhi del soldato il suo centro. La donna indica l’apostolo come uno di coloro che stavano con Cristo, il soldato chiede conferma dell’accusa al diretto interessato, Pietro nega con quel gesto delle nocche congiunte e dei pollici divergenti, ma tradisce un tentennamento, o forse un accenno di pentimento. La stesura incorpora parti della preparazione, persino nelle gote del santo e in quelle della donna, e bianche pennellate si depositano sulle maniche delle vesti, a segnare il colpo di luce che transita anche sulla corazza del soldato, e anticipa quelli straordinari del dipinto contiguo. A fronte dell’ostentazione di una conduzione pittorica compiaciuta della propria libertà, la “Negazione di Pietro” è certamente il più aulico dei lavori realizzati dopo il 1606: lo stile è radicalmente differente, ma l’impalcatura retorica fa pensare che, esattamente come il San Giovanni Battista, sia stato concepito già originariamente per un committente romano, in grado di apprezzare questa gestualità misurata, compassata, lontana dalle movenze da vicolo napoletano delle “Sette opere di misericordia”. Anche la scelta della modella femminile (forse la stessa che aveva posato per l’ “Annunciazione” ora a Nancy), una sorta di Margherita Buy arruolata per una fiction sulla Passione di Cristo, fa pensare alla volontà di realizzare un prodotto formalmente ineccepibile, classicista e teatrale, quasi un Guercino ante litteram.

Il “Martirio di Sant’Orsola” è commissionato invece da Marcantonio Doria, che aveva conosciuto il pittore a Genova, durante il suo breve soggiorno in città. Nella fortuna collezionistica del Merisi i banchieri e prestatori di denaro legati alla città ligure avevano giocato un ruolo decisivo sin dalla sua affermazione romana. Pensiamo ai Giustiniani, che possedevano il gruppo più cospicuo di suoi dipinti, o a Orazio Costa, che aveva capolavori come la “Giuditta e Oloferne” e il “San Giovanni Battista” ora a Kansas City. Ma era la prima volta che un suo lavoro veniva espressamente commissionato per una raccolta esistente in una delle città più evolute ed “europee” per gusto artistico, dove Pieter Paul Rubens a quelle date aveva giù rivoluzionato in chiave scenografica e antirealistica la cultura figurativa locale.

Marcantonio era quasi certamente il secondogenito del doge Agostino. Aveva sposato Isabella Grimaldi della Tolfa, vedova di Agostino Grimaldi, principe di Salerno e duca di Eboli. Una strategia dinastica che puntava a rafforzare gli interessi nel vicereame di Napoli. Nel 1612 il Doria avrebbe acquistato il feudo di Angri, ottenendo poi nel 1636 il riconoscimento del titolo principesco. La sua discendenza assunse così il nome di Doria D’Angri. Ed è proprio dal fondo Doria D’Angri esistente all’archivio di Stato di Napoli che nel 1980 Vincenzo Pacelli, storico dell’arte specialista della pittura napoletana dei Seicento, rinvenne una lettera datata 11 maggio 1610, in cui Lanfranco Massa, intermediario dei Doria a Napoli, scrive: “Pensavo di mandarle il quadro di sant’Orzola questa settimana però per assicurarmi di mandarlo ben asciutato, lo posi ieri al sole, che più presto ha fatto rinvenire la vernice che asciugatolo per darcela il Caravaggio assai grossa. Voglio di nuovo esser da detto Caravaggio per pigliar parere come si ha da fare perché non si guasti: il signor Damiano l’ha visto, et ha stupito, come tutti quelli che l’hanno visto”.

Questo suggestivo tranche de vie ci fa immaginare la tela su di una terrazza napoletana, messa ad asciugare come un lenzuolo, e il procuratore che torna dal pittore per domandare consiglio, con la confidenza con cui oggi si andrebbe dal falegname o dal ferramenta. Damiano Pallavicino è un amico di Marcantonio, e ne sarà il suo esecutore testamentario. Il dipinto prenderà poi la via di Genova di lì a qualche settimana, il 27 maggio, per arrivare in città il 18 giugno, e dieci anni dopo viene indicata, con precisione, in un inventario Doria con la titolazione “San’Orsola confitta dal tiranno”. Rimarrà a Genova sino al 1832, quando le vicende ereditarie dei Doria D’Angri la riporteranno in Campania.

La “Sant’Orsola” si è fermata a Eboli

Il “Martirio di Sant’Orsola” – in mostra fino all’8 aprile alle Gallerie d’Italia di Milano – venne individuato a Eboli nel 1955, durante un viaggio dello storico dell’arte aquilano Ferdinando Bologna con Venturino Panebianco, direttore del Museo Provinciale di Salerno. Una di quelle perlustrazioni lenticolari del territorio che in quegli anni lontani potevano ancora portare a scoperte clamorose. Nella villa Romano Avezzano di Eboli, che era appartenuta ai Doria D’Angri, venne rinvenuto questo dipinto, che apparve allora di difficile decifrazione non solo in merito all’autore ma anche per il riconoscimento della scena rappresentata. Bologna lo fece fotografare, incuriosito dalle caratteristiche caravaggesche, e portò l’immagine a Roberto Longhi. “Gliela mostrai interrogandolo sull’eventualità che potesse trattarsi di Caravaggio di epoca napoletana, e ricordo di aver insistito. Ma Longhi si mise sul diniego; disse che me lo togliessi dalla testa. Tutt’al più poteva trattarsi di Bartolomeo Manfredi. Solo ora mi avvedo che il nome del Manfredi, Longhi lo spendeva facilmente in quegli anni. Aveva fatto lo stesso nel 1952 a proposito della “Negazione di San Pietro”, che era degli Imperato Caracciolo, a Napoli, ed è oggi al Metropolitan di New York come autografo del Caravaggio”, scriveva nel 2004 lo studioso abruzzese nella scheda relativa al dipinto prodotta per la mostra “Caravaggio-L’ultimo tempo 1606-1610”. Forse però Longhi aveva indovinato quello che oggi ci è chiaro, che i due dipinti sono stati realizzati l’uno a stretta distanza dall’altro, che il primo prepara in qualche modo il secondo, pur differenziandosene per linguaggio, retorica, stile.

Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, “Martirio di Sant’Orsola”, Napoli, Collezione Intesa Sanpaolo Napoli, Gallerie d’Italia-Palazzo Zevallos di Stigliano, 1610, olio su tela, cm. 143×180.

Il dipinto fu giudicato da Raffaello Causa nel 1962, all’epoca della mostra a Capodimonte su Caravaggio e i Caravaggeschi, come un esito giovanile di Mattia Preti, il pittore calabrese che in effetti dovette essere profondamente suggestionato dalle soluzioni luministiche di quest’opera. Quando nel 1974 Mina Gregori per prima lo attribuì esplicitamente al Caravaggio, incassò lo scetticismo di Giovanni Testori e, secondo Mia Cinotti, dello stesso Causa, che nel 1978, “parve ancora orientato sul Preti”. Eppure, nel quadro compariva un autoritratto del Merisi che ricorda da vicino quello inserito nella “Presa di Cristo nell’Orto” dipinta a Roma per i Mattei, e qui aggiornato naturalmente alla progressione tecnica che intercorre dal 1602 al 1610. Ma ancora negli Anni Ottanta, alla vigilia della mostra che Banca Intesa realizzò per presentare il restauro di questa sua acquisizione, Maurizio Marini, di solito generosissimo nell’allargare il perimetro dei dipinti da attribuire al Merisi, fece il nome del messinese Alonzo Rodriguez.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, “Presa di Cristo nell’orto”, Dublino, National Gallery of Ireland, 1602, olio su tela, cm.133,5×169.5.

Quel viso di Attila che sembra un Bacon

L’idea di accostare l’opera di Caravaggio a quella di Francis Bacon, oggetto di una discussa mostra alla Galleria Borghese nel 2009, avrebbe indubbiamente trovato nel “Martirio di Sant’Orsola” un suggestivo punto di confronto con la ritrattistica dell’artista irlandese. In Bacon il volto, attraverso il gesto che lo deforma fino a cavarne quell’espressione che non riguarda né la psicologia né la bellezza, ma solo la vita, come impulso animale che trascende la carne, è al centro di quel lavoro di destrutturazione che corrode e riformula l’organicità dell’immagine. Caravaggio arriva sorprendentemente a un risultato formalmente simile nel viso del re Unno, che non è un ritratto ma nemmeno una maschera o un tipo. Quei colpi di luce, quei flash che attraversano il dipinto, sono forse, quando trascorrono sulle stoffe e sui metalli, solo dei formidabili pezzi di bravura, come la banda bianca che incessantemente sparisce e poi riappare nelle pieghe della manica destra dell’assassino. Ma quando cadono sui volti, alterano la percezione dell’incarnato, trasformano la forma in forza. È una pittura in cui il gesto e la sua velocità sono diventati un valore costruttivo, e la pennellata ha acquisito progressivamente sempre più visibilità nella stesura. Provate ad accostare l’immagine del “Martirio di Sant’Orsola” alla “Salomè” di Londra o alle sapienti scale di grigio dei migliori esiti di un Mattia Preti, con cui pure era stato confuso: i pesi compositivi sono molto simili, identica l’idea di definire i rapporti tra le figure col vuoto. La differenza sta tutta nella luce, mobile, accecante, algida, argentata, capace di dilatare l’eco di un dramma antiretorico, sintetizzato in una brevissima diagonale.

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