Arte
Pavese: “il vizio assurdo” e gli amori sofferti
Tutta la vita di Cesare Pavese è stata dominata da un vizio coltivato fino alla fine: il “vizio assurdo” di suicidarsi, di togliersela. E così avvenne 73 anni fa, il 27 agosto del 1950, quando fu trovato morto nell’albergo “Roma” a Torino, per aver ingerito a dismisura bustine di sonniferi.
Pavese era un tenero malinconico, aveva una rigorosa conoscenza della letteratura classica ed americana, avendo anche svolto lavori di traduzione di romanzi di autori oltre oceano. Tuttavia, la letteratura non gli ha dato la soluzione, la forza di reprimere una volontà distruttiva, di arginare i conati di un vizio orribile e pernicioso: quello del “cupio dissolvi”.
Questa frustrante ostinazione ha abitato la sua mente per tutta la vita.
Secondo Davide Lajolo, suo biografo autorizzato, Pavese ha conosciuto la morte sin da bambino, avendone la percezione già a sei anni. Il padre morì dopo una delicata operazione al cervello, non riuscita per un cancro diagnosticato.
Questo evento influì molto sulla vita di Pavese, i cui rapporti con la madre non erano affatto tersi.
Secondo Lajolo, avrebbe inciso in modo dominante e pervasivo anche lo spettro della solitudine totale ed assolutizzante: Pavese amava il lavoro e basta; aveva pochi amici, con i quali non trascorreva molto tempo e non era amato dalle donne, semmai tradito ed abbandonato, anche per una probabile impotenza sessuale. Anzi, proprio questa mancanza di relazioni con le donne avrebbe vieppiù lacerato la sua periclitante condizione di solitudine, sino a ritenere che la vita fosse un mestiere da compiere.
Da qui un “Diario” tenuto per molti anni, il cui titolo dà la stura del suo tormentato contenuto: “il mestiere di vivere”.
Si paragona ad una vigna, in una conversazione riportata nel libro di Lajolo a lui dedicato, “Vizio assurdo”; dice di sé stesso:
“Sono come una complessa vigna, dove l’impasto concimi-sementi, acqua e sole, dà l’uva migliore…Tuttavia sento ogni giorno marcire in me anche le parti che ritenevo più sane…Il troppo letame moltiplica i vermi e distrugge il raccolto”.
Aveva questa considerazione delle donne, quando ne esprimeva teneramente i suoi pensieri. Così leggiamo in una lettera scritta a Mario Sturani, amico del liceo, il 13 gennaio 1926:
” Mi strugge l’anima perdutamente il desiderio di una donna viva; spirito e carne, da poterla stringere senza ritegno e scuoterla, avvinghiato il mio corpo al suo sussultante; ma poi, in altri giorni più sereni, starle accanto dolcemente, senza più un pensiero carnale, a contemplare il suo volto soave di fanciulla, ignaro, come avvolto in un dolore e ascoltare la sua voce leggera parlarmi, lentamente, come in sogno”.
A Sturani già diceva che la speranza di vivere era scrivere poesie.
“L’ unico appoggio che mi resta al mondo è la speranza che io valga, o varrò, qualcosa alla penna”.
In una lettera scritta il 14 luglio del 1927- ad appena 19 anni- Pavese ha già chiara la sua futura condizione, che è quella di togliersi la vita:
”M’atterrisce il pensiero che io pure dovrò un giorno lasciare questa terra, dove i dolori stessi mi sono cari poiché tento di renderli nell’arte. E più tremo pensando all’agonia, alla lunga terribile agonia che forse andrà dinanzi alla mia morte. Che cosa è mai la vita ai moribondi che ancor comprendono e si sentono lenti, lenti spirare in una stanza tetra soli in sé stessi? Oh, conoscessi un Dio, così vorrei pregarlo: quando il petto mi si gonfia ricolmo di un’ondata di poesia ardente e dalle labbra mi sfuggono rotte parole, che ansioso m’affanno a collegare in forma d’arte, quando più riardo e più deliro, oh, allora mi si schianti una vena accanto al cuore e soffochi così, senza rimpianto”.
È lo stesso vizio assurdo che tormenta già i suoi anni liceali e s’insinua nel suo sangue, come una malattia. È la sua sifilide – come egli scrive – una specie di febbre suicida che, appena espulsa, subito ritorna incurabile. Per vincere questa febbre, vale solo la poesia e la donna. Il resto non esiste. Non esiste attorno la vita, i fatti del mondo, del paese, di Torino.
Il prof. Augusto Monti del liceo D’Azeglio conosceva i suoi migliori ragazzi e, dopo il suicidio di Baraldi, altro suo allievo come Pavese, temeva per quest’ultimo, che già aveva dato segni e presagi di sventura, quando seppe che Baraldi si era tolto la vita.
Volle imitarlo ma non ebbe il coraggio di morire.
Era la “confraternita” degli amici del “D’Azeglio”, nella quale spiccava Pavese.
Era forte l’inquietudine per cui il professor Monti paventava che Pavese potesse finire come Baraldi.
La confraternita degli amici liceali si allargò con la partecipazione di Leone Ginzburg, di Norberto Bobbio, Argan, Chabod, Giulio Einaudi, Massimo Mila.
Ma, seppure si trattasse di finissime intelligenze, non bastarono a dissuadere Pavese dal suo irriducibile ed incoercibile vizio assurdo del suicidio, mitigato solo dal matto studio per la letteratura americana, per i classici e per la poesia (Franco Vaccaneo, Cesare Pavese, Vita Colline Libri).
Scrisse sulle pagine del “Corriere della Sera” del 24 Agosto 1980 Sergio Pautasso: “la letteratura non ha più assolto il compito di garantire il senso della vita a Cesare Pavese, perdendo la sua funzione catartica. Con il suo suicidio, è stata conculcata in senso assoluto la sua esperienza artistica.”
Pavese esprimeva una tragedia interiore, che, incubata per anni, giunse irrimediabilmente al suicidio. Ma, prima di togliersi la vita, egli aveva compiuto il suo ciclo, il suo percorso con la letteratura e con il mestiere di scrivere. Dopo il romanzo “La Luna e i falò”, finì irriducibilmente la tensione a scrivere (Cesare Pavese, Il mestiere di scrivere, a cura di Fabrizio Parrini).
Ne “Il Mestiere di Vivere”, è chiara questa lucida consapevolezza. In verità, in lui è predominante il rapporto tra arte e vita. Se vivere diventa per lui un mestiere da apprendere con dolore e sgomento, l’arte diviene allora un sostituto di quell’esistenza, l’unico precario equilibrio da cui scaturisca lo scrivere. E lo dimostrerà con un nuovo modo di intendere la poesia. Nasce, infatti, con la poetica pavesiana il metodo della poesia-racconto, la cui emblematica rappresentazione la si desume dalla poesia scritta nel 1930 “I mali del Sud”.
Dunque, la poesia non si svela, ma si fa (Lavorare stanca).
Si tratta di una poesia libera, dalla quale prende l’abbrivio l’arte di Pavese ed inizia il magico andamento circolare che termina con la “Luna e i falò”. Il tema è il ritorno, il nostos alle Langhe, alle amate colline, al fiume Po, alla coscienza libera e anarchica dell’infanzia, al rapporto complesso tra città e campagna, che si ritroverà sviluppato in maniera organica nello stesso testo.
Quando Pavese si accorge di aver completato il ciclo delle sue scritture e che non esiste altra possibilità di dare una valida giustificazione alla sua esistenza, affermerà: “Non ho più parole. Un gesto. Non scriverò più”.
Nella letteratura egli trova un senso compiuto, un mezzo per poter mettere ordine al groviglio dell’esistenza, di distillare dal fango della vita l’oro dell’arte. Ecco allora che l’arte in Pavese è una riscoperta del ricordo. Effettivamente, quando il protagonista de “La Luna e i falò”, Anguilla, si rende conto che il ritrovarsi nei luoghi dell’infanzia non gli dà alcuno stimolo, si compie il cammino della letteratura che nasce come una realtà ripensata e conchiusa, affinché si capisca il recondito delle cose.
“La difficoltà di commettere suicidio sta in questo: è un atto di ambizione, che si può commettere solo quando si sia superata ogni ambizione”
(Il Mestiere di Vivere- 16 Gennaio 1938.)
È la fine della fantasia, la caduta di ogni possibile equilibrio, perché neppure la scrittura funge da antidoto.
Pavese ha avuto un controverso rapporto con le donne e ha amato, ma il suo è sempre stato un amore non corrisposto. Davide Lajolo ci racconta nella sua biografia che egli ebbe una relazione con una donna che lui definí “donna dalla voce rauca”, Tina Pizzardo.
Dal ritorno dal confino da Brancaleone Calabro, egli viene a conoscenza del fatto che la donna dalla voce rauca sta con un altro uomo e intende sposarsi: è una delusione ed un tradimento che Pavese non riesce a digerire e sopportare, cadendo in uno stato di solitudine irrimediabile e fatale. Scrive di lei:
”Ti voglio bene, cara, e ti odio, sei per me letteralmente l’aria che respiro, se mi manchi ti maledico come fa un annegato; mi fa male fisicamente esser lontano da te; non sei per me una donna, sei l’esistenza stessa; dove sei tu è la mia casa, tutto il resto è niente…”
La Pizzardo, a sua volta, scrive un contro diario, dedicato anche all’amore con il ventenne Pavese: “Senza pensarci due volte, l’altro mestiere di vivere”.
Prima del tradimento con questa donna, valeva il mestiere di vivere perché si scopre un Pavese umano, semplice, felice, che non ritroveremo più nella sua vita. Ha rari momenti di felicità. Quando invece si accorgerà del tradimento, siamo alla tragedia, alla consapevolezza di uno squilibrio tra velleità e capacità, che si tradurrà nel disperato gesto del suicidio. In una poesia dal titolo “Incontro” leggiamo:
“Qualche volta la vedo e mi viene dinanzi definita, immutabile come un ricordo… Ogni volta mi sfugge e mi porta lontano… È come il mattino, mi accenna negli occhi tutti i cieli lontani di quei mattini remoti e ha negli occhi un proposito fermo: la luce più netta che abbia avuto mai l’alba su queste colline. L’ho creata dal fondo di tutte le cose che mi sono più care e non riesco a comprenderla”
(Silvia De Paola, Gli amori sofferti di Cesare Pavese).
Dopo il tradimento della donna dalla voce rauca, il ricordo non lo sente più suo, perché non è più il sorgere di un mattino chiaro, ma di una nube, anche se ancora dolcissima, anche se vive altrove e riflette nel viso di Pavese lo sfondo antico. “Il suo solido corpo, il suo sguardo raccolto, la sua voce sommessa è un po’ rauca… Nessuna stanchezza la tocca.”
Dolore, delusione, tradimenti hanno ormai ferito l’uomo ed il poeta, ma, se c’è qualcosa in cui può sperare, solo quella donna lo può ridestare perché lei è ancora la vita fino all’ultimo istante.
La donna dalla voce rauca è l’unica che Pavese abbia effettivamente amato; le altre, che subentreranno nella sua vita, non compresero la profondità del suo animo. Si ricordi Bianca Garufi, con la quale scrive un romanzo a quattro mani, pubblicato post mortem, “Fuoco grande”. A lei sono dedicati i “Dialoghi con Leucò”.
Sarà invece l’ultima donna, venuta dall’America, a dovergli dare un po’ di felicità: Constance Dowling, alla quale dedicherà la raccolta di poesie “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, scritta dall’11 Marzo al 10 Aprile 1950.
“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.Cosí li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.”
Lalla Romano, in un significativo articolo del 12 Agosto del 2000, pubblicato su “Il Corriere della Sera”, ha sottolineato che Pavese era un perfetto letterato, che ha immesso lo studio della letteratura americana sul tronco della nostra tradizione neoclassica. Ma Pavese è stato soprattutto un cultore del mito classico e lo ha dimostrato con la sua opera meno famosa, ma alla quale teneva moltissimo: “I dialoghi con Leucò”. Qui la visione fantastica e metastorica del mito raggiunge il suo apice e, come diceva Schiller, l’arte diventa un gioco, perché assurge alla bellezza disinteressata. Ma l’artista, sostiene Lalla Romano, lavora sulle parole: “la parola è tutto, è la liberazione per un poeta. Pavese si è ucciso perché ha completato la sua fatica con la letteratura, ma anche perché non ha avuto un amore corrisposto. La paura di non avere altra stagione creativa e di non essere amato lo ha accompagnato nella sua delusione vitale”.
Il critico letterario Cesare Segre ritiene che, come Majkovskij, Pavese tratteggi e già scriva prima del fatale evento, la dinamica, l’azione del suicidio. Come Majkovskij che scrisse “se muoio non incolpate nessuno e niente pettegolezzi”, allo stesso modo Cesare Pavese il 27 agosto 1950 scrive nella pagina bianca dell’opera cui ha tenuto di più questa frase:
“Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.”
Si sottolinei che, appena il 24 Giugno 1950, Cesare Pavese aveva conseguito il premio Strega con “La bella estate” ed era in corso la relazione con la ballerina americana Dowling. Allo stesso modo Majakoslij era innamorato di un’attrice, Veronica Polonskaia.
Cesare Segre ci ricorda che Pavese aveva esaurito il suo ruolo per sua stessa ammissione, e proprio ne “Il mestiere di vivere” ricorda che “verrà il giorno in cui avremo portato alla luce tutti il nostro mistero ed allora non sapremo più scrivere”.
Ferdinanda Pivano, sua allieva, ritiene che Pavese sia stato l’ultimo grande umanista del 900. Burbero, ma pieno di ironia e tenerezza, si rammarica di non aver risposto, come le altre, alle inutili telefonate che Cesare Pavese, nella notte del 27 agosto 1950, aveva effettuato nel tentativo di poter sentite la voce di qualche amica che avrebbe potuto dissuaderlo dal compiere nell’albergo “Roma” di Torino il gesto suicida che bruciò la sua vita.
Forse il più bel ritratto di Cesare Pavese l’ha scritto Natalia Ginzburg:
“Era qualche volta molto triste… La sua era una tristezza come quella di un ragazzo, malinconia voluttuosa che non toccò la terra e si muoveva nel mondo arido e solitario dei sogni. Qualche volta la sera ci veniva a trovare: e non pronunciava una sola parola… Aveva un modo schivo di trarre il tabacco dalla borsa e riempirsi la pipa… Non ebbe mai una moglie, né dei figli, né una casa sua… Aveva modi ruvidi e si comportava come un ragazzo o come un forestiero… Negli ultimi anni un viso scavato, devastato, travagliato da pensieri, ma sempre con la gentilezza di un adolescente… E quella notte d’estate, non c’era nessuno di noi, in una stanza d’albergo nella città che gli apparteneva. Poserà un’ombra scarna sul volto supino, i ricordi suoi saranno dei grumi d’ombra come una vampa che ancora ieri mordeva negli occhi spenti”.
(Natalia Ginzburg- Ritratto di Cesare Pavese).
Ma la sua poesia è nell’eternità della vita.
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