Arte

Con bolla prefettizia muore la Biennale di Venezia (e l’Islam si adegua)

22 Maggio 2015

La Biennale di Venezia si è chiusa ingloriosamente ancor prima di terminare il suo primo mese di vita. Un record assoluto dalla sua fondazione. Il merito è interamente ascrivibile alla parte più burocratica dell’uomo, in grado di contrastare il corso della storia con norme, codicilli, interpretazioni, che alla fine compongono il pregiudizio nell’espressione più piena della parola. Burocrati associati, tra comune e prefettura, hanno deciso di metter fine a un’esperienza che, come ha scritto Tomaso Montanari, aveva centrato interamente l’obiettivo di un gesto artistico e dell’arte più in generale: obbligare a pensare. Da ieri ha chiuso la moschea del padiglione islandese, ideata dall’artista svizzero Christoph Buchel, allestita all’interno di Santa Maria della Misericordia, chiesa privata dal 1973, e per questo chiamata “Moschea della Misericordia”, immaginandone la crasi virtuosa. Beata illusione.

Le motivazioni ufficiali della chiusura hanno una perfezione linguistica che non ha eguali nella storia e che definisce in modo perfettamente intelleggibile la radice di un dialogo impossibile tra culture diverse. Ascoltate la risposta del Comune di Venezia: «Hanno presentato (i curatori del padiglione islandese) le carte per allestire una mostra, non per un luogo di preghiera: hanno giocato sull’ambiguità». Dobbiamo ringraziare il commissario prefettizio, chiamato qui dopo lo scandalo del Mose, perchè offre dell’idea di scandalo la stessa intepretazione, che si tratti di ladroni tangentari o di intelligenti curatori internazionali. E dobbiamo seriamente ringraziarlo perchè in quelle poche righe, con pulizia lessicale estrema, identifica il punto centrale dell’arte contemporanea: l’ambiguità. Il prestarsi a interpretazioni diverse e soggettive, essere interpretata perfino oltre le sue stesse intenzioni. Insomma, diventare altro da sè nel più felice sdoppiamento della personalità.

Era esattamente questa ambiguità che aveva portato il mondo islamico di Venezia a frequentare quell’opera d’arte, che “solo” per definizione artistica era stata chiamata moschea, ovviamente con tutti gli obblighi del caso, dalla preghiera, al togliersi le scarpe all’ingresso, all’obbligo del velo per le donne. Sette mesi di finzione religiosa, ai quali ognuno avrebbe potuto dare il valore che sentiva, magari anche di puro rifiuto estetico o contenutistico, esempio degli esempi quel visitatore che nei primi giorni di apertura aveva chiamato i carabinieri perchè non desiderava togliersi le scarpe.

Alla fine ha ceduto anche il presidente della comunità islamica, Mohamed Amin Al Ahdab, che a un’intelligente battaglia sui principi (anche dell’arte) ha preferito l’impiegatizia comodità dei benpensanti, prendendo anche lui la plastica e classica distanza da questa terribile “provocazione”.
Ps. È giusto così, comunque. Si chiude un’opera d’arte e si tiene aperta quell’urna cineraria del Padiglione Italia.

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