Arte
Oltre il cinismo: Gianni “Gipi” Pacinotti
Gipi Pacinotti nasce a Pisa nel 1963. Si diploma e a 19 anni diventa un grafico pubblicitario. Nella vita ha insegnato alla scuola di fumetto Comics di Firenze, ha vissuto a Parigi e ha sempre disegnato. Nel 2003 pubblica Esterno Notte, il suo primo libro per Cocconino Press. Nel 2008 esce LVDM – La mia vita disegnata male, un caso editoriale che lo rende celebre.
Questa è un’intervista fiume fatta nel 2013, quasi tre anni fa ormai. Nonostante ciò resta ancora totale nella descrizione di Gipi, una persona vera, una persona che ha affrontato le sue paranoie magari senza sconfiggerle, ma almeno riuscendo a conviverci consapevolmente.
La sera della sua intervista barbarica con Daria Bignardi, Gianni Pacinotti si contorceva continuamente sulla sedia. Rispondeva in pisano, raccoglieva applausi, creava una cappa di silenzio attorno alla sua figura e ai suoi tratti rudi. Il Paese faceva zapping distrattamente, tra una puntata di Porta a Porta e una fiction Rai, senza forse prestare troppa attenzione al tizio sullo schermo. Chi diavolo era quel tipo in televisione? Chi era quel tipo che aveva fatto parlare tutta la stampa di settore italiana di un libro a fumetti, La mia vita disegnata male? Chi era quel tipo che quella stessa sera, tornato in albergo, trovava cinquecento (non è un numero tanto per dire, è la realtà) mail di donne che lo volevano conoscere e cadeva in depressione?
Ma soprattutto, come ti sentivi?
Una volta tornato a casa sono impazzito. Mi prendevano attacchi di disperazione. Avevo letteralmente paura. Sono stato ricoverato a Pisa, dal prof. Cassano, mi hanno fatto il foglino che certifica che sono esaurito. Il casino è che non c’è alcun tipo di legame tra la disperazione e la creatività. I giovani a volte pensano che l’artista deve essere dannato. Col cazzo. Io non scrivevo una parola.
Come dice Lynch, che l’energia positiva è più utile alla creatività?
Esatto. Son contento che si pensa uguale, io e Lynch (ride).
Va tanto di moda il cinismo nell’espressione artistica, ma pensi che ne abbiamo bisogno? Abbiamo bisogno di bellezza. Di luce.
Dopo che è successo?
Ho chiuso una relazione sentimentale che non andava più. Ho lasciato Parigi. Ho ripreso le misure di me. Il problema del micro successo è che per quanto tu ci possa stare attento ti succedono cose strane, ti sopraggiunge una sensazione di smania di potere che è pericolosissima. Ti perdi.
È un po’ come la droga, ti senti bene e vorresti restarci?
Non solo. C’è una cosa in psicologia che si chiama falso-se. Quello che te credi di essere. Come un bambino che di suo è agitato, i genitori lo reprimono, gli fanno capire che quel suo istinto tendente al casino non è la cosa che li rende felici, fieri. A loro rende felici che lui sia bravo. Allora il bambino che vuole essere amato, reprime questo istinto originario, lo spegne e prova a costruire l’aspetto che porta l’amore dei genitori. Questo lo fai per sempre incosciamente, per tutta la vita. E alla fine ti ritrovi che dici io sono quello che sono e invece non lo sei. Sei ancora quel bimbo che voleva altro. Solo che l’hai ammazzato e allora soffri. Non sei te e fai una parte ma nemmeno te lo ricordi.
E te che hai fatto?
Io lavoro nel campo artistico, lì il falso-se è un muro. Io devo dire la verità altrimenti non dico niente. Più ti sembra di avere successo e più sei debole, più ti allontani dal tuo nucleo. Sono cresciuto, ho abbandonato le bugie. Io ero un italiano andato all’estero, mi vestivo bene, parlavo diversamente (ride)…
Eri arrivato!
Beh si, cioè per niente. Io nella vita ho solo la creazione artistica, non posso avere che quella. Piano piano questa mutazione mi allontanava da quelli che sono i motori della creazione mia. Non producevo più niente.
La scoperta per me è stata che dentro non c’era niente. Come dice Shakespeare “ci sono più cose tra cielo e Terra di quante ne possa immaginare la tua filosofia”. Io c’ho costruito una carriera su questo. Fuori di me c’è il creato e quando l’ho visto ho capito tutto.
“E con l’abitudine ti han spento già, dando alla violenza una profondità” mi viene in mente il pezzo degli Afterours. Ti eri inaridito. Ti eri rinsecchito. Come hai fatto a riprenderti?
Mi son chiesto quale era la mia voce vera. Son ritornato vi! Che per me vuol dire proprio vi in pisano, ho ricominciato a parlare in dialetto, ho ritrovato i miei amici quelli che se ne fottono della letteratura e dei fumetti. Ho detto mi garba sonà, perché non lo faccio più? Perché ho smesso? Faccio schifo? Ecchisenefrega voglio suonare.
Beh comunque, diciamola tutta: l’altro se, quello che voleva fare contenti i genitori, ha dato una bella mano al bambino casinista. Altrimenti non saresti qui.
No no no. Ma non è del tutto negativo quel “se” lì. Il fatto che mia madre si entusiasmasse solo quando primeggiavo ha fatto sì che io imparassi un botto di cose. È stato molto importante. Io sono bravo. Il problema è che forse non volevo esserlo.
Aspetta come sarebbe a dire?
Beh non per nulla io ho trovato la pace artistica solo quando ho passato lo scoglio di riuscire a disegnare male. Quando ho abbandonato, almeno in quel campo lì, l’apparenza. Ed è stata la mia fortuna professionale, quello adesso è riconosciuto come il mio linguaggio. Ma anche quella è una battaglia. I miei amici dicevano “che cazzo è sto coso” vedendosi ritratti mentre prima tutti a farmi i complimenti per un’anatomia perfetta. Io non ho figli, non ne avrò. La mia vita è la creazione artistica. E io ho sempre paura di sputtanarmela, di perderla. Per quello mi faccio tante menate. Se avessi i figli la mia vita sarebbe spostata in un’altra direzione.
Oh mamma ora che mi ci fai pensare anche mio padre voleva che facessi carriera nell’esercito. E io non so come mai ma vorrei tatuarmi un gendarme. Me ne sono ricordato solo ora parlando con te.
(Ride di gusto)
Ho letto una frase tua in cui dici che a Parigi disegnavi solo i campi della Maremma toscana. Niente boulevardes, niente parigine, fighe e baguettes. Ma come mai ci sei andato?
Deh. Andai là per un festival poi si liberò la casa di un mio amico e mi ci insediai. Erano 12 anni che ero qui. Volevo scappare, quindi ho detto si. Vado a sciogliermi nella metropoli, a svanire. E così ho fatto. Poi mi son messo con una ragazza e mi son legato a lei. Avevo amici disegnatori, era anche bellino. Ma non era casa mia. Io qui provo cose diverse. Per me ritrovare il qui è ritrovare il nocciolo della questione.
Questa Toscana che è una croce e delizia, fatta di case del popolo e genuinità, ma anche di noia. O ti rimane dentro, o ti fa incazzare. È da lei che sei scappato?
Io ce l’ho con la vanità. È lei che ti porta via.
Sei severissimo con te stesso.
Ho visto che quando lo sono quantomeno sto bene. Sì sono severo, non con me stesso, ma per me stesso.
Che ruolo ha avuto la famiglia nella tua vita?
Grosso. Io vengo da una famiglia che mi ha sempre permesso di poter trovare dei buchi dove mettermi. Io ho cominciato a lavorare sin da giovane. Inizialmente la rifiutavo ma non mi sono mai trovato con il culo per terra. Mio padre aveva un negozio in centro di ottica e cineprese e dovevo prenderlo io. Insomma sarei stato parato ma volevo lavorare coi disegni. Ho iniziato a diciannove anni. Facevo conigli per le agenzie degli uova di Pasqua, facevo pubblicità. Tra l’altro il primo lavoro che ho fatto, dopo che ero stato in galera dieci giorni, era…
In che senso in galera?
Nel senso in galera. Mi avevano trovato dentro un campo di marijuana.
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