Arte
Natale sull’Isola: l’eterno ritorno di Lost
Il primo episodio di Lost andò in onda il 22 settembre 2004 sulla rete Abc. Da lì in poi, seguirono 114 episodi, 6 stagioni in tutto, per un totale di 121 ore di programmazione. Per vedere la serie senza interruzioni servono circa 5 giorni completi, notti incluse. Ipotizzando le necessarie interruzioni per assecondare le più stringenti funzioni corporali, dovrebbero bastarne 10. Avendo anche un’altra vita – affettiva, lavorativa e sociale – ci si può riuscire in un paio di mesi.
É il tempo che ci ho messo io.
Da grande appassionato della serie, agevolato dalle circostanze e sostenuto da fede incrollabile, qualche mese fa ho deciso di cimentarmi in un binge watching dell’intera serie di Lost.
A sette anni dall’episodio finale, a tredici dal primo, dopo un decennio che ha visto maturare i frutti del precedente fino all’ultimo salto di paradigma guidato da Netflix, Amazon e Hulu, con un pubblico sempre più smaliziato, esigente ma anche abitudinario, quali reazioni può mai provocare la visione di Lost? Qual è l’effetto che fa?
Vorrei raccontare la mia esperienza di spettatore compulsivo di Lost che, a distanza di un decennio, decide di rivedere dall’inizio, in un lasso di tempo sufficientemente breve, una delle serie che ha amato di più. E capire cosa è cambiato.
Qualcuno potrebbe giudicarla un’inutile perdita di tempo. Se tale sospetto vi sfiora, fermatevi qui. Ciò che segue è una lunga analisi di un bel mucchio di tempo sprecato. Se invece siete appassionati di Lost, la pazienza non dovrebbe mancarvi. Il mio consiglio per voi è di proseguire.
Ma andiamo con ordine.
PRIMA STAGIONE: QUARTIERE ISOLA
L’inizio resta memorabile. Un occhio si spalanca. Un uomo ferito si sveglia nella giungla e inizia a correre. I rumori dalla spiaggia sono l’ignoto e anche noi spettatori veniamo subito inghiottiti dalle storie di un esercito di personaggi e dal loro passato. Durerà per sei stagioni. Eppure i primi cento minuti di Lost dicono già tutto. Non sto provocando, segnalo un dato oggettivo: il meccanismo narrativo alla base della serie è messo davanti ai nostri occhi fin dalle prime scene. Prendere o lasciare. Il dibattito infinito sulle domande rimaste senza risposta è la riprova di quanto la rete abbia funzionato. Gli autori non avevano nessuna idea di dove sarebbero andati a parare. In compenso, il “come” è chiarissimo fin dai primi sessanta secondi. L’incipit è sincero. Con il senno di poi, se ne colgono ancora meglio le potenzialità, anche quelle che la serie finirà col tradire.
Il tema della prima stagione è lo sradicamento. Ogni personaggio è costretto a fare i conti con un ambiente ostile. L’Isola è matrigna e i compagni di sventura potenziali minacce. Il loro passato è un’incognita che impariamo a conoscere attraverso i flashback. Ogni puntata è un piccolo sorso che ci lascia più assetati di prima.
Nel 2006 fu una rivoluzione. Adoravo la coralità del racconto. Nessuna serie tv aveva mai osato tanto. Lost era una serie ambiziosa e fuori dagli schemi. Nei suoi momenti migliori, si avvicinava al respiro polifonico di Dostoevskij, con dosi rigorosamente non omeopatiche di cultura pop.
Nella prima stagione il lavoro sui personaggi è ottimo. A distanza di anni, le vicende di Locke, Sayd, Sun, Jin e Sawyer e, ad un livello di poco inferiore, quelle di Jack, Charlie, Michael, Hugo e Kate restano intriganti e molto ben scritte. I misteri vengono disseminati tra le pieghe del racconto ma non sono ancora un’ossessione. Sono come spezie che danno sapore, senza coprire mai gli ingredienti base del piatto.
Inutile cercare in queste prime puntate un richiamo preciso alla conclusione della serie. I sostenitori del “era già tutto scritto” non hanno alcuna prova. Il pilot è pieno di ottimi spunti, vaghi abbastanza da lasciare ampio margine a qualunque showrunner con un po’ di mestiere.
La verità è che il pilot di Lost era un meraviglioso canovaccio narrativo da 12 milioni di dollari. Fu solo il suo successo clamoroso a convincere la Abc a produrre un’intera stagione. Le stagioni complete prodotte e rilasciate in blocco ancora non esistevano. Con il creatore J. J. Abrams impegnato in un nuovo film, il timone venne affidato a Damon Lindelof e Carlton Cuse.
Le stagioni successive furono costruite per accumulazione. Per lunghi tratti si navigò a vista, nella speranza di non schiantarsi contro uno scoglio come la Black Rock. Sostenere la teoria degli autori onniscienti è un atto di fede. Personalmente sono sempre stato uno scettico. Un’avventura produttiva pionieristica come quella di Lost è interessante proprio perché, in origine, non poteva essere in alcun modo pianificata. Produttori e autori osarono oltre ciò che all’epoca era umanamente consentito. A volte la imbroccarono, a volte no. Ma l’essenziale è che aprirono una strada ed è proprio dalla loro mole gigantesca di errori che, qualche anno più tardi, diventò più facile per altri correggere la rotta. Se serie come Breaking Bad e Mad Men hanno evitato certi scogli è anche perché Lost aveva già chiarito a tutti, grandi network in primis, cosa succede a viaggiare in mare aperto senza una mappa.
Rivedendo la prima stagione, queste mie antiche convinzioni escono rafforzate. Lost mescola con equilibrio mistery, azione, dramma e commedia. I personaggi sono sfaccettati, le storie coinvolgenti. Dieci anni fa era una serie rivoluzionaria, oggi non lo è più. Eppure la potenza narrativa delle prime puntate è rimasta intatta. Le imperfezioni sono del tutto trascurabili.
Posso tirare un sospiro di sollievo: la prima stagione è quasi come la ricordavo. E, come capita a chi si ascolta parlare dandosi ragione da solo, mi sento finalmente in pace col mondo.
ALL’EPOCA: 9/10
OGGI: 9/10
SECONDA STAGIONE: C’E’ DELL’ALTRO IN DANIMARCA
Fino alla quarta stagione, Lost non ha sbagliato un incipit. Quello della seconda è il migliore in assoluto. L’incontro con Desmond Hume segna un cambio totale di prospettiva. Che i sopravvissuti non fossero soli sull’Isola era chiaro. La prima stagione si era conclusa con l’apertura della botola di John Locke e le aspettative erano alle stelle.
Alla prima vera prova del nove, gli autori scelgono uno spettacolare ribaltamento di prospettiva. Nei suoi momenti migliori, Lost ha saputo spiazzare il pubblico senza fiaccarne la fede. Quando invece ha preteso “leap of faith” più lunghi del salto dello squalo di Fonzie, la situazione è precipitata. Qui, però, si vola ancora altissimo. Le scene che partono con Make your own kind of music di Cass Elliot hanno fatto la storia. Dieci anni dopo, alla trentesima visione, per quanto mi riguarda l’emozione è rimasta la stessa.
Anche gli episodi successivi sono invecchiati piuttosto bene. Nella seconda stagione, gli autori hanno sentito la necessità di rimpolpare il cast (o il minutaggio?). Scopriamo così che anche la sezione di coda del volo Oceanic 815 ha i suoi sopravvissuti. All’inizio siamo portati a pensare che siano loro gli “Altri”, i nativi dell’Isola che minacciano la vita dei nostri eroi. In un secondo momento, grazie al solito gioco di specchi, ogni sicurezza viene ribaltata. La creazione del nemico è solo un punto di vista.
A mente fredda, i nuovi personaggi servono più che altro a coprire i continenti ancora mancanti, come in una partita di Risiko. Il migliore di tutti, sul mio personale cartellino, resta Mr. Eko, il boss della mala in quota Africa e in odor di santità. Nelle intenzioni degli autori avrebbe dovuto rimpolpare il filone aureo del dissidio tra fede e ragione, strappando l’esclusiva al povero John Locke. Purtroppo la decisione di Adewale Akinnuoye-Agbaje di abbandonare la serie costrinse gli autori a tagliare il suo personaggio prima del previsto. Il Mr. Eko della seconda stagione, però, è un personaggio magnetico che ruba la scena ai protagonisti della prima ora.
Una menzione a parte merita il personaggio di Michael. La storia della sua paternità disastrata e il rapporto con suo figlio Walt, al secondo flashback, erano già diventati stucchevoli. Ora però gli autori impongono a Michael il definitivo passaggio al lato oscuro. Il suo tradimento spariglia le carte di tutta la stagione. Da padre antipatico e cocciuto ma dal cuore puro, Michael diventa un villain suo malgrado, in nome dell’amore filiale. L’esito disastroso della sua fuga in barca a vela, al netto dell’umorismo involontario, resta uno dei momenti emotivamente più forti di tutta la serie. Il suo barbarico “Walt” risuona ancora sopra i mari del mondo.
Se il povero Michael viene maltrattato e ridotto a puro ingranaggio, a metà della seconda stagione gli autori pescano per puro caso un autentico jolly. Durante la visione, mentre sapevo che il momento si stava avvicinando, il mio cuore di spettatore accelerava per lui: Benjamin Linus.
Non sapremo mai cosa sarebbe successo se la parte di Henry Gale (la prima delle false identità di Ben Linus) non fosse capitata in sorte a Michael Emerson. La sua straordinaria interpretazione convinse gli autori a trovargli un ruolo stabile nella trama. Il capo degli Altri non s’era ancora visto, in fondo. Perché non cucirlo addosso a lui?
Il personaggio di Ben, per una stagione e mezza, è inappuntabile. Poco importa il debito nei confronti di Saw sia evidente. Fate finta che quella pellicola non sia mai stata girata, evitante di riflettere razionalmente sul primo dei tanti plagi (pardon, citazioni!) di Lindelof e Cuse. Godetevi fino in fondo un personaggio e un’interpretazione memorabili. Ne vale la pena, anche a dieci anni di distanza.
Non a caso, quando finalmente Henry getta la maschera e diventa Ben, la stagione accelera verso il finale. Ancora una volta il cliffhanger dell’ultimo episodio è degno di Twin Peaks. Eppure, dietro i colpi di scena ad orologeria e i grandi temi esistenziali in salsa pop, c’è un discorso non banale sulle dinamiche del gruppo, la paura dell’altro e la costruzione del nemico.
Lost aveva raggiunto il suo zenit? Con l’innocenza di dieci anni fa, pensavo di no. È l’esperienza, purtroppo, ad avermi fatto ricredere.
ALL’EPOCA: 10/10
OGGI: 9/10
TERZA STAGIONE: GLI ALTRI SIAMO NOI
Altro inizio di stagione, nuovo incipit memorabile. Peccato solo sia l’ultimo. L’ennesimo cambio di prospettiva inizia dal forno di Juliet Burke. I biscotti sono per gli ospiti del gruppo di lettura che suonano alla porta, proprio mentre lei tenta di estrarre la teglia ustionandosi una mano.
Il resto è noto. La scoperta del villaggio degli Altri, un piccolo fortino di modernità al centro dell’Isola, riesce di nuovo ad essere spiazzante. Lo schianto del volo 815 viene raccontato da un altro punto di vista, l’ennesimo, senza cali di ritmo o di ispirazione.
Dieci anni dopo, la mia attenzione cade però su un dettaglio che, all’epoca della prima messa in onda, avevo trascurato: il libro scelto da Juliet per il club. Si tratta di Carrie di Stephen King, titolo che Adam, uno degli ospiti, giudica troppo “pop” per essere davvero letteratura.
Leggere è sempre un ottimo metodo per mettere ogni cosa nella giusta prospettiva. Nel mio caso, tra le letture degli ultimi dieci anni, ci sono stati vari libri di King tra cui l’intero ciclo della Torre Nera e soprattutto L’ombra dello scorpione. Ciò mi ha permesso di inquadrare meglio l’omaggio che Lindelof e Cuse riservano al Re, prima di procedere in tutta la terza stagione ad un saccheggio sistematico delle sue opere migliori. Le occasioni in cui gli autori pescano a piene mani tra le invenzioni del loro maestro si sprecano. La quarantena, la figura di Jacob, i sogni premonitori sono solo alcuni dei rimandi diretti a L’ombra dello scorpione. L’Isola come ponte tra mondi, invece, ha molto in comune con la Torre Nera, così come l’importanza dell’elettromagnetismo, le maternità impossibili, i rapimenti dei bambini usati come cavie. Omaggio affettuoso o appropriazione indebita? A distanza di anni, recuperato il corpus kinghiano, il confine appare davvero labile.
Le perplessità crescono quando si va oltre il primo episodio. Quelli immediatamente successivi girano a vuoto. Gli scenari angusti della stazione Hydra hanno corto respiro ma gli autori si incaponiscono nell’ambientarvi sei lunghissime puntate. Il triangolo tra Jack, Kate e Sawyer degenera subito in soap opera e l’impressione è che i protagonisti in gabbia siano una metafora degli autori: tanta voglia di fuggire via, senza sapere dove.
All’epoca – oggi finalmente l’abbiamo saputo – era in atto un braccio di ferro con la Abc che, dopo lunghe trattative, decise di rinnovare lo show fino alla sesta stagione, indicando una data certa per il finale. Galvanizzati dalla notizia, gli autori escono dal cul-de-sac dei primi sei episodi e premono sull’acceleratore. La terza stagione riprende finalmente quota.
Il tema del destino diventa dominante. Ognuno ne è fabbro? O forse è l’Isola a forgiarne uno per ciascuno di noi? Il personaggio chiave è Desmond Hume. Gli episodi che lo vedono protagonista sono tra i più complessi, coinvolgenti e melodrammatici. Lost è diventato ormai una sorta di menù degustazione, adatto a quasi tutti i palati. Eppure, nonostante l’incredibile quantità di carne al fuoco e il caos che attanaglia le cucine, le portate migliori continuano a stupire.
Menzione a parte merita l’episodio 3×09 “Stranger in a Strange Land”, in cui Jack, alla perenne ricerca di se stesso, pensa bene di rifugiarsi nell’isola di Phuket a riempirsi di tatuaggi. Alla fine verrà riempito di botte e davvero, a distanza di anni, non si capisce bene a cosa siano servite.
Ancora una volta, il colpo di genio arriva con il finale. L’inversione tra flashback e flashforward, svelata nell’ultima inquadratura, è il delitto perfetto. L’urlo di Jack in versione Robinson Crusoe è un momento altissimo. “We have to go back!” diventa subito il mantra del lostiano medio in crisi d’astinenza. Dieci anni dopo, l’effetto sorpresa non c’è più. Il piacere è più cerebrale. E resta l’ammirazione per una macchina che, nonostante tutto, continua a tenere la corda.
ALL’EPOCA: 9/10
OGGI: 8/10
QUARTA STAGIONE: SCENEGGIATORI ARROTATI
Sì, stavo seduto a rivedermi Lost, a bermi il caffè e ripassare le prime quattro stagioni nella mia mente, quando ho avuto quello che gli alcolisti definiscono il “momento di lucidità”: la quarta stagione è una boiata pazzesca.
Ammetterlo non è stato facile ma, a distanza di dieci anni, è diventato un dovere morale. Dopo due prime stagioni quasi perfette e una terza caotica ma piena di picchi, con la quarta a Lost tocca in sorte lo stesso destino dell’Isola: perdersi in un bicchier d’acqua.
All’epoca anch’io mi ero lasciato sopraffare all’assuefazione ai colpi di scena. Dopo una sessantina di puntate, finisci per desiderarli a prescindere. Non ti importa la qualità, la coerenza interna è un dettaglio e l’incredulità è sospesa di default.
Le puntate sono solo tredici, complice uno sciopero degli sceneggiatori che costrinse a rivedere l’intero piano produttivo. Il risultato è una stagione asciutta, senza riempitivi, che sviluppa una trama molto più lineare del solito. Il ritmo è altissimo e i colpi di scena si susseguono a ritmo vertiginoso. Si avvertono, però, i primi segni di stanchezza.
I nuovi personaggi introdotti a inizio stagione sono meno interessanti del solito. Forse lo sciopero degli sceneggiatori ha costretto gli autori a sacrificarne lo sviluppo. Il risultato è che anche il migliore del lotto, lo scienziato nerd Daniel Faraday, rimane poco più di un abbozzo.
Gli stessi flashforward utilizzati al posto dei tradizionali flashback, al netto dell’effetto sorpresa, perdono in fretta mordente. Lo sfoggio di tecnica che mascherava bene la qualità non più impeccabile delle materie prime, rivisto con lo sguardo di oggi, stanca più in fretta.
E infine c’è lei, la ruota.
All’epoca la mia adorazione per il personaggio di Ben mi rendeva capace di qualsiasi impresa, anche non riconoscere un iceberg gigantesco a distanza di pochi metri. La stessa cosa mi era capitata anni prima con Fonzie che provava a saltare lo squalo in boxer chiari e giubbetto di pelle. Quando ti accecano, gli abbagli si somigliano tutti.
Per la prima volta nella storia di Lost, il cliffhanger di fine stagione è più pacchiano che folle. La domanda non è più dove ci stiano portando gli autori, ma se davvero valga la pena seguirli. Dieci anni fa, ero disposto a tutto pur di “andare a vedere”. Ora che conosco le carte che Lindelof e Cuse avevano in mano, distinguo meglio gli errori. Il più grande è aver imbastito un’intera stagione su una linea narrativa del tutto scollegata dalla mitologia della serie. Lo scontro tra Ben e Widmore è solo una lunga deviazione, piena di capriole fini a se stesse, che dilata i tempi narrativi senza aggiungere nulla di essenziale in vista del finale.
L’episodio 4×05 intitolato “The constant”, uno dei vertici dell’intera serie, da solo non può bastare. La quarta stagione è quasi un corpo estraneo. Volendo, sarebbe possibile cancellarla senza che il season finale ne risenta. E purtroppo lo stesso discorso vale anche per la quinta.
ALL’EPOCA: 8/10
OGGI: 6/10
QUINTA STAGIONE: SUPERDHARMA PREMATURATA CON SCAPPELLAMENTO ALLA MCFLY
La Dharma è uno dei pilastri di Lost. Si tratta forse del contenuto originale più rilevante apportato da Lindelof e Cuse al progetto di partenza di J. J. Abrams. Dalla comparsa della botola a metà della prima stagione, la Dharma diventa uno degli elementi fondativi della mitologia della serie.
Dopo quattro stagioni, tutti volevano saperne di più. Il flashback sull’infanzia di Ben e le stazioni abbandonate in vari punti dell’Isola non potevano bastare. Come l’offerta nella Legge di Say, è il fandom a creare la domanda.
Ma Lindelof e Cuse non si limitano a plasmare un’intera stagione sui desiderata dei fan. Hanno un loro immaginario da nerd e non hanno paura di usarlo. È così che la Dharma incrociò Ritorno al Futuro.
Con i viaggi nel tempo, Lost deraglia definitivamente verso l’altro da sé. Il tentativo di far combaciare tutti i possibili incastri tra la linea del presente e quella del passato è lodevole, ma restano i dubbi su un’operazione che non ha nulla di sensato, se non rievocare i favolosi anni ’70 e dare nuova linfa al merchandising a marchio Dharma Initiative.
Nell’allegra comunità hippie del 1977, con l’aggiunta di Juliet, il triangolo tra Jack, Kate e James diventa un quadrilatero. Rivista oggi, la gestione del poligono è tra le cose più goffe di tutta la serie. L’impressione è che gli autori dovessero regalarci una nuova storia d’amore romantico e, fatto un veloce inventario, James e Juliet fossero gli unici candidati.
Del viaggio sulla DeLorean di Lindelof e Cuse, si salva la linea comica e autoironica incarnata da Hugo. Le sue battute, in particolare quelle su Star Wars, sono gli unici momenti memorabili recitati in tuta Dharma.
Lunga nota a margine. Con la quinta stagione, si completa la distruzione di Benjamin Linus. Uno dei personaggi migliori dell’intera serie viene smontato pezzo per pezzo e gettato nella spazzatura. Il leader lucido e luciferino delle stagioni precedenti viene definitivamente ridotto a burattino invidioso. Un uomo incapace di essere coerente, schiavo dei suoi fantasmi, con gli occhi a palla a prescindere.
Mai come ora si capisce che Ben Linus non era previsto. Purtroppo, arrivati ad un certo punto della storia, gli autori sono stati costretti a disfarsene. Ben non serviva più a nulla, ma andava comunque tenuto in vita. Se la quarta stagione è stata il canto del cigno, la quinta è quella in cui il povero Ben diventa un dispensatore sano di colpi di scena. Ogni volta che arriva uno nodo narrativo da sciogliere, basta chiamare Ben e lui informa, mente, svia, spara, distrugge, uccide. E subito l’intreccio si disincaglia e la trama prosegue.
Così la ragione vera del suo tormento, l’ossessione per la perdita della madre, viene quasi dimenticata. Il fatto che abbia costretto tutta la sua gente a “perdere tempo prezioso” (cit. Richard Alpert) nel tentativo di capire perché sull’Isola le donne incinte morissero prima di partorire passa in secondo piano. Tutto si riduce al sacrificio di Alex, funzionale – guarda caso – alla diatriba con Charles Widmore che, nel sistema di matrioske, tanto caro agli autori era la bambolina del momento. Solo la bravura di Michael Emerson ha compensato in parte la bravata degli autori.
A risollevare una stagione piena di falle, ci pensa un finale che punta tutto sulla spettacolarità. Oltre al solito ritmo indiavolato e al racconto corale, le puntate finali ci regalano alcuni momenti di grande melodramma. Il distacco tra Juliet e James (“I got you!) è commovente, mentre la testardaggine di Jack nel voler redimere se stesso fa quasi tenerezza da quanto è ottusa.
La luce finale è quella in fondo al tunnel? Lost è definitivamente morto o sta per rinascere? La domanda, per il me di dieci anni fa, aveva una sola risposta: la seconda. Oggi so che erano entrambe sbagliate.
ALL’EPOCA: 8/10
OGGI: 5/10
SESTA STAGIONE: DIO ESISTE, BASTA NON CHIAMARLO PER NOME
Nella sesta stagione, Lost non vive e non muore. Si reincarna in se stesso.
Se è vero che il saggio è colui che sa completare il pensiero con la giusta dose di distacco e partecipazione, allora Lost può essere visto come un lungo viaggio sapienziale. La prima stagione è quella della scoperta. La seconda espande l’orizzonte e le domande esistenziali. La terza le tradisce e poi le rilancia. La quarta è una digressione dalla via maestra che mette alla prova lo scettico. La quinta è un calvario che getta nel dubbio anche la fede più solida. La sesta è l’approdo ad una consapevolezza nuova: la perfezione non esiste, è solo la meta che dà senso ad un viaggio che, di suo, non ne ha nessuno.
Da un punto di vista strettamente narrativo, gli autori hanno alzato troppo la posta. Il gioco è sfuggito loro di mano. Forse la fiducia nella loro abilità è stata mal riposta. A differenza di Stephen King che è capace di spendere seicento pagine per scavare i personaggi e le vicende fino all’esasperazione senza perdere mai brio, quando Lindelof e Cuse devono finalmente svelare qualcosa di più su Jacob e l’Uomo Nero, relegano tutto ad un episodio evocativo ma gioco forza limitato, che nelle loro intenzioni doveva anestetizzare i dubbi e preparare ad un finale di serie concentrato sui protagonisti veri ma che, nella realtà, ha ottenuto l’effetto contrario. La mitologia dell’Isola non s’è rivelata all’altezza delle aspettative.
Anche le novità seguono questa china discendente. Le puntate dedicate al Tempio sono tra le peggiori in assoluto. Difficile immaginare una maniera meno efficace di rendere su schermo il lato “spirituale” dell’Isola. Oggi come allora, rivedere le ambientazioni di cartapesta fare da sfondo a dialoghi improbabili recitati da personaggi abbozzati a colpi di katana è stata davvero dura.
In compenso restano loro, i personaggi principali. Anche dopo dieci anni, trovo corretta l’idea degli autori di puntare tutto sui veri protagonisti. Ricollegare ciascun episodio della sesta stagione a quelli della prima è un segnale evidente: si torna alle basi. A far digerire i cosiddetti flash sideways, però, è solo la gratitudine per quanto fatto in passato. Alla lunga le puntate di questa stagione fanno solo rimpiangere la magia degli esordi.
Discorso a parte merita il finale. Si tratta probabilmente del season finale più discusso e criticato di sempre, insieme a quello dei Soprano. Dal mio punto di vista, siamo di fronte a due capolavori opposti.
Quello dei Soprano è un finale programmato per sfidare lo spettatore e non piacere a nessuno. Gli sono riuscite entrambe le cose e, a distanza di anni, la scena finale resta un tocco di pura maestria che dimostra quanto il silenzio sia molto di più che semplice assenza di parole.
Quello di Lost è un finale programmato per piacere a più persone possibili. Credo che la missione sia miseramente fallita. Sebbene abbia scontentato quasi tutti, a mio parere le critiche sono state ingenerose.
Il finale riprede i tutti i punti di forza dello show: coralità del racconto, personaggi intensi e sfaccettati, colpi di scena, ritmo ed epica. Se durante la stagione i flash sideways erano risultati piuttosto fiacchi, nel finale sono funzionali al “risveglio” dei personaggi. La loro funzione è finalmente efficace e perfettamente collegata al climax finale. Come nei suoi momenti migliori, con la ricomposizione dei due piani narrativi e con i personaggi che finalmente escono dal limbo e prendono coscienza di quello che sta per accadere, Lost ritorna ad emozionare come un tempo, grazie anche alla colonna sonora di Michael Giacchino che rielabora i temi delle prime stagioni.
È un finale che si presta ad un’interpretazione religiosa, ma non solo. C’è spazio anche per una visione più laica, in cui ogni vita trova il suo senso ultimo nella relazione con l’altro. Gli incontri e i legami, alla fine di tutto, saranno l’unica chiave per ritrovarci. E andare oltre. Qualunque sia la luce e da qualsiasi origine provenga, fosse solo da dentro di noi.
Dieci anni dopo, il finale di Lost mi riporta alle stesse riflessioni di allora, solo un po’ più affinate dall’età o forse condizionate da una degenerazione cellulare che mi auguro sia nella norma. Per ora mi accontento.
ALL’EPOCA: 9/10
OGGI: 7/10
E ora? Cosa resta da fare ora? Dopo tutte queste riflessioni più o meno confuse, dopo dieci anni in cui il mondo delle serie tv, con i dovuti aggiustamenti del caso, un po’ come le nostre vite è andato avanti, resta il consiglio finale di Christian Shephard, l’ultimo prima di trovare finalmente la luce.
“Not leaving, no. Moving on!”
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