Arte

Napoli, Marc’Antonio Doria e gli eredi di Caravaggio

15 Aprile 2018

Il soggiorno napoletano del Caravaggio complessivamente non raggiunge i due anni, perché si situa tra i mesi che vanno dal settembre 1606 al giugno 1707 e ancora, al ritorno da Malta e dalla Sicilia, dall’ottobre 1609 al luglio 1610. Le due opere pubbliche che lasciò sugli altari della città, la “Flagellazione” in San Domenico Maggiore e “Le sette opere di misericordia” al Pio Monte della Misericordia”, con quello stile che il suo biografo napoletano, il De Dominicis (le sue “Vite” sono del 1742) sintetizzò come “terribile modo di ombreggiare, la verità di que’ nudi, il risentito lumeggiare senza molto riflessi”, segnarono però una cesura potentissima nelle vicende della scuola figurativa locale, attardata al tempo della sua epifania su modi ancora tardomanieristi. Napoli era la seconda città per dimensioni d’Europa, la più importante del Mediterraneo, e vi confluiva di fatto la popolazione di tutta l’Italia meridionale. Al Merisi, abituato alle dimensioni ridotte della Roma in cui si era affermato, e alle sue contrapposizioni consolidate, finanche allo schema secondo cui la libertà ostentata dai suoi committenti in privato ridiventava rispetto dell’ortodossia iconografica quando si trattava di commentare le sue opere pubbliche, l’ambito di una città dominata da potentati laici doveva offrire la possibilità di concentarsi sugli aspetti più squisitamente compositivi del suo lavoro, producendo così un avanzamento velocissimo nel sistema di rappresentazione della verità che costituiva il cuore della sua pittura. La mastodontica pala delle “Sette opere di misericordia” è, come spesso si è detto, un vero e proprio tranche de vie, di sconvolgente novità, e di certo in quel momento rappresentava il punto più alto nella storia delle arti visive occidentali, oltre anche gli esiti che a quelle date aveva già raggiunto, con altra intenzione e altro retroterra, Rubens.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, “Le Sette opere di Misericordia, Napoli, Pio Monte della Misericordia, 1607, olio su tela, 390×260 cm.

Dal punto di vista compositivo, quell’imponente telero rappresentava il tipico problema che il Caravaggio della fase romana, quando qualche anno prima si dibatteva nei problemi di impaginazione dei laterali della Cappella Contarelli, avrebbe rimuginato per lunghissimo tempo, senza trovare il bandolo della matassa.

Un istituto benefico nato da pochi anni, eretto dai figli cadetti delle più importanti famiglie della città, voleva la pala d’altare per la propria sede di culto. Il Pio Monte della Misericordia vedeva tra i propri amministratori e finanziatori tutti i mecenati più interessanti della città, e si era saputo guadagnare in breve tempo il sostegno economico dell’autorità ecclesiastica. Fu dunque stabilito un pagamento altissimo per una tela: 400 scudi. A Roma non aveva mai guadagnato tanto. Ma il tema iconografico, le sette opere di misericordia, rappresentavano un vero rompicapo: come rappresentarle tutte in uno stesso dipinto? La pittura di storia imponeva la necessità di dare la sensazione cinematica dell’azione all’immagine. Un soggetto come la Madonna del serpe, rafffigurata nella più discussa delle sue pale romane, quella dipinta per i palafrenieri vaticani in San Pietro, aggiungeva la necessità di cristallizzare la narrazione in un’icona, ineccepibile sia sul piano teologico che su quello formale. Questa volta invece la questione era trovare un legante a sette azioni disgiunte, così da costituire un racconto coerente. A Napoli, l’intento comunicativo della pittura poteva anche essere meno pronunciato: di sicuro i popolani non avrebbero sgomitato, come in Sant’Agostino o in San Luigi, per vedere la sua opera. Il pubblico sarebbe stato, per così dire, più di nicchia. Ma l’insieme doveva comunque essere intelligibile. Bisognava costruire una scena fatta di sette episodi. L’unità d’azione poteva anche essere artificiosa, ma perché tenesse occorreva un solo spazio e la possibilità di abbracciare idealmente con un unico sguardo tutto il dipinto. Caravaggio non era mai stato un grande raccontatore. Lotto o Savoldo, i grandi maestri lombardi che aveva osservato da ragazzo, ti facevano sorridere con il loro gusto per l’aneddotica. Lui invece aveva imparato a sublimare la propria adesione alla realtà con un esercizio di sintesi: al paradigma dell’invenzione aveva sostituito una forma d’empatia con il soggetto che paradossalmente corrispondeva con una capacità di enucleazione, tanto meno concettuale, più arrivava al cuore delle cose.

 

Per riuscire avrebbe dovuto combinare sette Incredulità di Tommaso, sette Maddalena in estasi, inglobandole nel palinsesto di un dipinto di quasi quattro metri per più di due e mezzo. Abituato a una solidissima struttura geometrica, riuscì a dare la sensazione visiva di un andamento casuale, come se davvero in un vicolo napoletano una serie di scene indipendenti si illuminassero in brevissima sequenza, mantenendo la propria autonomia, ma risultando incastrate sintatticamente l’una all’altra da quel sentimento di promiscuità che è quasi una categoria dell’anima consustanziale all’ambiente in cui è collocata la scena. Come sempre, però, stava giocando con lo spettatore, grazie a una padronanza magistrale del dispositivo. Vista dal basso, la lettura procede quasi automaticamente in senso orario, catturata com’è inizialmente dallo specchietto per le allodole della fiaccola del sacerdote: un altro lume interno che illumina poco o niente. Lì a fianco un uomo sta seppellendo un cadavere, mentre una ragazza soccorre un vecchio carcerato, dandogli da succhiare il proprio seno, citando il mito classico di Pero e Cimone. Questa brutale condensazione lascia poi spazio a una sorta di cesura, e la lettura ricomincia con una specie di figura di quinta, quel nudo preso di schiena a cui un signorotto sta per lasciare metà del proprio mantello, suddividendolo con un altro elemosinante che sta nascosto nell’ombra, ed è invisibile oggi nelle condizioni di normale fruizione del dipinto. Il ragazzo sembra quasi giungere sul proscenio insieme a un viandante, riconoscibile per la conchiglia di San Rocco, che sta chiedendo ospitalità a un oste. Alle loro spalle un individuo corpulento ripete il gesto di Sansone, allorché bevve dalla mascella di un asino. Le sette opere di misericordia, accatastate così l’una all’altra, senza alcuna retorica, anzi con l’idea pervasiva che ognuno dei protagonisti viva in una dimensione eticamente impermeabile a quel che gli accade attorno, come se a unirli hic et nunc fosse solo il caso, vengono poi ricucite assieme dall’unico sguardo compassionevole di tutto il dipinto, quello del bambino sorretto dalla Madonna. E se sino a quel momento ci è sembrato di assistere alla recita improvvisata di una serie di automi, come in un canovaccio sperimentale, ecco che adesso d’improvviso tutto torna. La simultaneità di tempo è dunque palesemente una finzione, e in tal senso le letture critiche hanno inutilmente abusato del luogo comune di una sequenza quasi di cinema del reale, colte nel loro farsi durante un’incursione nei quartieri spagnoli. È il tipo di lettura deformante che si applica sempre quando c’è di mezzo Napoli, se è vero che lo stesso Roberto Longhi, che adorava questo quadro, tanto da metterne un particolare in copertina al catalogo della mostra del 1951, parlò di «lenzuola lavate alla ben’ e meglio» e dei due angeli come di lazzaroni che starebbero facendo la «voltatella».

L’analisi dei cambiamenti effettuati in corsa dal pittore, tra la prima redazione e quella definitiva, con lo spostamento di alcune figure, ravvisabile dalle fotografie, ha rafforzato il pregiudizio di una composizione costruita direttamente sulla tela, per abbozzi successivi, come a rimarcare la temperie anarcoide e spontaneista di quest’invenzione. Ma se invece di osservare le figure dal basso verso l’alto, per di più a una distanza inadatta a cogliere la bellezza dei dettagli (le gocce di latte sulla barba del vecchio, l’orecchio che spunta dietro la testa del giovane, a individuare un sedicesimo personaggio, quasi del tutto nascosto, l’accenno a una strana piega del lenzuolo che avvolge il gruppo superiore, quasi a far pensare che la Madonna si sporga da un balcone, sino all’ombra delle due ali proiettata naturalisticamente sul muro, e alla penna dell’angelo che finisce nella grata della prigione), si abbraccia l’insieme da un punto di vista rialzato, come quello del matroneo che fronteggia l’entrata della chiesa, ci si accorgerà della sapiente costruzione prospettica, con la narrazione che di fatto è scalata lungo due diagonali quasi parallele, una individuata dall’elsa della spada del giovane e l’altra dal davanzale della finestra, e con la torcia posizionata molto vicino al centro geometrico del quadro. Sembra Gericault o Guttuso, ma è un marchingegno molto più razionale che alla prima apparenza, conforme a quell’ordine interno che Caravaggio sta sempre attentissimo a non smarrire.

Alla sua apparizione, Le sette opere di misericordia spostò in avanti di mezzo secolo l’orologio della pittura napoletana. E il clamore fu tale che anche il viceré, duca di Benavente, volle immediatamente entrare nel giro dei collezionisti di Michelangelo, ordinandogli una Crocifissione di Sant’Andrea. Con una scelta singolare, derivata da Pietro Cavallini, il martirio dell’apostolo fu realizzato su di una croce tradizionale, e non su quella a X che prende appunto il nome dal fratello di Simon Pietro. Rappresentando il momento in cui Andrea rifiuta di essere risparmiato in extremis, e il carnefice che sta provando a slegarlo viene miracolosamente paralizzato, in modo che possa compiersi il disegno divino, Caravaggio sceglie un punto di vista molto schiacciato. La resa virtuosistica di alcuni dettagli, come le corde che legano i polsi al legno, occulta una fattura veloce e manierata, di cui resta impresso soprattutto il gozzo dell’anziana astante, che Finson ripeterà nella sua replica di Giuditta e Oloferne, esemplata su di una versione realizzata a Napoli dal Merisi, più a tinte forti di quella Barberini.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, “Crocifissione di sant’Andrea”, Cleveland, Museum of Art, 1607, olio su tela, 202×152 cm.

A partire da questa commissione, sembra instaurarsi una riflessione martellante su di uno stesso soggetto: un uomo legato e torturato. Nell’arco della permanenza a Napoli, sono almeno sette i quadri che costituiscono una variante di questa idea. Di alcuni, descritti dai contemporanei come capolavori, ci restano solo in copie molto modeste, come del San Sebastiano. Altri, come l’Incoronazione di spine di Vienna, presentano un’esecuzione approssimativa, e forse vedono il contributo di qualche aiuto. Ci sono poi dei veri e propri moduli, come quello del Cristo alla colonna noto nelle versioni di Macerata, Catania e Cantalupo Sabino, e che presenta un personaggio di spalle che osserva la tortura e forse si accinge a entrare in azione a sua volta. Si tratta di una specie di prova d’artista, pervenutaci solo in copie di scarsa qualità, che doveva costituire una tappa di avvicinamento a una tela di dimensioni più grandi, la monumentale Flagellazione ora a Capodimonte. E che proviene dalla cappella De Franchis di San Domenico Maggiore, una delle sedi più prestigiose in assoluto dell’ordine, ma anche, sino a qualche decennio prima, una curiosa culla dell’eversione, in cui avevano soggiornato tanto Tommaso Campanella quanto Giordano Bruno. De Franchis faceva parte del novero dei nuovo sostenitori di Michelangelo. Suo fratello era uno degli amministratori del Pio Monte della Misericordia. Era il tipico esponente di un’aristocrazia dai mezzi finanziari molto consistenti, senza grandi precedenti di mecenatismo, e che velocemente andava affermando, anche attraverso l’esercizio accorto della filantropia, una forma di controllo sulle classi meno abbienti. La grande differenza tra Napoli e Roma era proprio nella saldatura esistente tra il viceré e la classe baronale. L’eversione, invece, era incarnata dal popolo. La conflittualità sociale era verticale, non esistevano fazioni o fronde, solo una spaccatura insanabile tra la massa dei diseredati, vessata da tasse esorbitanti, e la nobiltà parassitaria. È indubbio che un sentimento inedito di violenza maniacale traspira da queste opere. E l’inserzione di uno sguardo terzo, che passa con la replica in contrapposto dello stesso armigero dalla Crocifissione di Andrea all’ Incoronazione di spine e giunge alla Flagellazione De Franchis, non è solo una trovata compositiva. C’è una domanda in più, un interrogativo nuovo che riguarda il punto di vista dell’artista. Può riuscire a sottrarsi dalla storia, a rimanerne fuori? In che maniera partecipa del suo tempo? Lo scarto etico dell’oggettività della rappresentazione basta a riscattarlo? Sono domande che ci facciamo noi oggi, e non è legittimo metterle sulle labbra al Merisi. La reazione alle sollecitazioni della propria biografia per un artista erano radicalmente diverse da oggi, così come differente era il senso di rielaborazione della colpa. Ma se Caravaggio fosse stato un pittore del tutto impermeabile al feedback degli eventi interiori, in lui non ravviseremmo che un altro dei tanti “professionisti” dell’epoca, definiti solo dalla capacità di adeguare la propria maniera all’evoluzione del gusto e al sentire dell’epoca. Persino Raffaello e Tiziano non erano stati che questo. E Leonardo era geniale nel descrivere la psicologia altrui, senza far trapelare però nulla della propria. Le Sette opere paiono consegnare ai napoletani l’invenzione brillantissima di una portentoso creatore d’immagini, che si è lasciato alle spalle il ripiegamento interiore della Cena di Emmaus e dei San Francesco. Ma non è così, la Crocifissione di Sant’Andrea forse rompe qualcosa. Lo sfondamento dell’autobiografia nell’arte, la lunga marcia che porterà in quattro secoli sino alla preminenza tematica dell’io, ha nel lento riemergere della coscienza di sé attraverso l’avvicinamento alla Flagellazione una sconcertante epifania.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, “Flagellazione di Cristo”, Napoli, Reggia di Capodimonte, in deposito dalla chiesa di San Domenico Maggiore, 1607-1608, olio su tela, 286×213 cm.

“Questa opera  esposta al pubblico trasse a sé tutti gli occhi de’ riguardanti, e benché la figura del Cristo sia presa da un naturale ignobile, e non gentil, com’era necessario, per rappresentare la figura di un Dio per noi fatto uomo. Ad ogni modo la nuova maniera di quel terribile modo d’ombreggiare, la verità di que’ nudi, il risentito lumeggiare senza molti riflessi, fece rimanere sorpresi non solo i dilettanti, ma i professori medesimi in buona parte”. Bernardo de’ Dominici, nelle “Vite de’ pittori, scultori e architetti napoletani”, opera del 1744, testimonia ancora del clamore che il dipinto aveva suscitato. A Roma, Caravaggio era dimenticato da quasi cent’anni, ma a Napoli aveva cambiato il corso delle cose. La Flagellazione avrebbe trovato una collocazione definitiva nella cappella De Franchis solo nel 1652; intanto però contribuì a formare una generazione di artisti, che garantirono la sopravvivenza di questo stile realista e tenebroso più a lungo che in ogni altro luogo. Non a caso De’ Dominici è l’unico storico dell’arte settecentesco a trattare i caravaggisti nel dettaglio, e non nelle note relative al maestro. Alla base del successo della scuola partenopea vi fu indubbiamente la capacità tecnica dei vari Ribera, Battistello Caracciolo, Artemisia Gentileschi, e degli epigoni come Andrea Vaccaro, Massimo Stanzione, Bernardo Cavallino, Paolo Finoglio, l’Anonimo dell’Adorazione dei Pastori. Non si trattava di imitatori pedissequi come i romani Angelo Caroselli, Mao Salini, Spadarino, né tanto meno di “trasformisti” come Baglione. Trovarono davvero consonanti alla loro sensibilità quei bruschi passaggi chiaroscurali, quei brani di verità, la possibilità di cogliere scene e personaggi dalla strada. Non diedero luogo, come nel caso di Bartolomeo Manfredi, a un metodo che dissezionava in tante scene di genere i soggetti frequentati da Michelangelo. Si rifacevano alla più intima e inattingibile cifra del Merisi: la tela De Franchis e la pala del Pio Monte non facevano sconti, prevedevano un percorso iniziatico duro, senza appigli. La lunga decantazione di pose e atteggiamenti che finalmente si concretizzavano nella Flagellazione partiva da molto lontano, ma ormai Caravaggio era capace di una sorta di memoria sincretica, che riadattava lacerti di immagini a una nuova idea formale. Lo strano passo di danza o da boxer del Cristo derivava dal riadattamento di un’antica idea del Peterzano, adattata all’impressionante scontro di masse che va in scena attorno alla colonna. È il piede del carnefice di destra che spinge violentemente sul polpaccio del condannato. L’inerzia del Cristo è un’inerzia possente, adeguata al robusto modellato del tronco. I torturatori devono farci i conti. Provano a tenerlo fermo, per colpirlo con accanimento. Gli esecutori impassibili della Crocifissione di Pietro lasciano il posto a veri aguzzini, professionisti del dolore, che studiano attentamente la situazione prima di colpire. La tappa intermedia della redazione documentata dal Cristo alla colonna di Catania e Macerata serve per prendere le distanze dall’impostazione che aveva dato al medesimo soggetto Sebastiano Del Piombo in San Pietro in Montorio e nel quadro ora conservato a Viterbo. Con un intelligentissimo rewind, la scena si affranca dalla necessità di mostrare l’istante della fustigazione. E la brutalità colpisce ancor di più perché incombente: impossibilitati a fare del cinema pittorico, gli artisti di solito rappresentavano i carnefici nell’atto di scaricare il colpo, come a far vedere il fulmine al posto del tuono. Indugiando invece sulla perizia con cui il Cristo viene assicurato alla colonna, affinché non si possa divincolare, e collocando sul piano dello sguardo il particolare delle corde, che diventerà il fulcro di un’altra Flagellazione dipinta a Napoli e ora conservata a Rouen, così come del celebre San Sebastiano perduto, Michelangelo, avvinghiato a un senso ineluttabile di perdita di libertà sta, forse inconsapevolmente, cedendo il passo a un’ossessione iconografica per le costrizioni del movimento.

Non deve dunque stupire che quelle opere di novità sconvolgente abbiano costretto gli artisti napoletani ad aggiornarsi rapidissimamente su questo nuovo linguaggio. Il primo seguace del Caravaggio a Napoli è stato Battistello Caracciolo, per molti versi il pittore che in assoluto gli è stato più vicino in vita, l’unico che possiamo pensare abbia messo mano ad alcuni suoi dipinti senza che si possa leggere lo scarto tra la sua mano e quella del maestro. Molto vicino ai modi di Battistello, che aveva una solidissima formazione disegnativa mutuata dal maestro Belisario Corenzio, è un dipinto che la critica assegna interamente al Caravaggio, la “Salomè con testa del Battista” che sta nelle raccolte dell’Alcazar a Madrid, e che è inventariata sin dal 1666 tra i beni dei Reali di Spagna, a cui potrebbe essere stata portata da secondo conte di Castrillo, viceré di Napoli dal 1653 al 1659. Roberto Longhi lo pubblicò come autografo nel 1927, ritenendola del periodo maltese. Proprio la datazione dovrebbe però far accendere un campanello d’allarme. Non può essere un’opera del periodo finale, perché troppo ben delineata nel modellato, estremamente solido, diverso per esempio dalla sintesi del “Martirio di Sant’Orsola”. Per la tavolozza verrebbe quadi da riferirla all’ultimo periodo romano, i primi mesi del 1606, ma i rapporti con l’altra redazione di questo soggetto, che sta alla National Gallery, impongono una collocazione napoletana. Sembra evocare qualcosa della “Cena in Emmaus” di Brera. In realtà la sperimentazione così avanzata sul piano della rarefazione delle parti dipinte indica un momento prossimo alle grandi tele siciliane, cui rimanda anche l’immagine del carnefice, che riprende uno dei pastori dell'”Adorazione” di Messina. Ma l’immersione della scena nell’oscurità pressoché totale rimanda alla maniera di Battistello, che potrebbe aver lavorato su di un dipinto cominciato dal maestro, e poi abbandonato, forse in vista della partenza per Malta.

Ambito napoletano del Caravaggio, “Salomè con la testa del Battista”, Madrid, Palazzo Reale, Patrimonio Nacional, 1607 circa, olio su tela, 116×140 cm.

La scomparsa del Caravaggio peraltro determinò un’opportunità per i primi seguaci napoletani di andare a sostituirsi al maestro, soddisfando una domanda legata ai collezionisti locali e non solo, come nel caso di Marc’Antonio Doria, fratello di Giovan Carlo, che dopo aver ordinato al Merisi il “Martirio di Sant’Orsola” finì per legare il suo destino in maniera sempre più stretta al vicereame, acquisendo il titolo di principe di Angri. Dopo essersi fatto ritrarre a Genova dal Paggi, nel 1621 da Simon Vouet e nella seconda metà degli Anni Trenta da Luciano Borzone, e ancora a Napoli da Fabrizio Santafede, dall’Azzolino e dallo stesso Battistello, il Doria nel 1649, a sessantasette anni, volle affidare la registrazione della propria immagine anche Justus Suttermans, che operava a Firenze alla corte dei Medici. L’opera, realizzata a Genova durante la presenza del Suttermans in città al seguito del cardinal Giovan Carlo de’ Medici, venne trasferita a Genova a metà Ottocento, e fu venduta assieme alle raccolte Doria d’Angri nel 1940, entrando nella collezione privata dov’è ancora conservato. Marco Antonio compare qui due anni prima della morte: si tratta di un vero e proprio testamento spirituale, come lascia intuire all’attestazione di fede resa famosa da Alfonso Maria de’ Liguori che compare nel cartiglio e quelle dall’Ecclesiaste e da un testo del gesuita tedesco Jeremias Drexel che compaiono sul plinto della colonna. La frase tratta dal libro sapienziale che ha come tema il ripudio della vanità delle cose ricorre anche nell’assenza di qualsiasi riferimento al titolo principesco che il Doria aveva acquistato da Filippo IV di Spagna nel 1536. Il dipinto è stato portato alla mostra “L’ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri” alle Gallerie d’Italia, a fare un po’ da perno postremo per la ricognizione nelle scelte collezionistiche di uno dei più attenti acquirenti di quadri caravaggeschi non solo sulla piazza di Genova, ma anche su quella di Napoli.

Justus Suttermans, “Ritratto di Marco Antonio Doria”, Collezione privata, 1649, olio su tela, 121×98 cm.

Tra i dipinti di Battistello più segnati dalla memoria del passaggio napoletano di Caravaggio, sino ad apparire alla stregua di una vera e propria desunzione, c’è la “Crocifissione” di Battistello Caracciolo, in deposito a Capodimonte dal Museo di Castel Nuovo. Non citato dalle fonti, proviene dalla Real Casa Santa dell’Annunziata. Dopo lo scioglimento dell’ente assistenziale, nel 1980 è entrato nelle collezioni del Comune di Napoli. Un’infiltrazione d’acqua lo ha gravemente danneggiato mentre era esposto nelle raccolte civiche. Restaurato a Capodimonte, è entrato a fare parte stabilmente del percorso di visita della Reggia. A individuare l’autore di questa tela in Battistello è stato un profondo conoscitore del Seicento napoletano quale Vincenzo Pacelli, che in un suo contributo del 1978 ha chiamato in causa i riferimenti, peraltro evidenti, alla già citata “Crocifissione di Sant’Andrea” . Ma l’altro modello iconografico ritornante in questa “Crocifissione” è la “Flagellazione”, con il capo chinato del Cristo è è una ripresa estremamente puntuale. Del quadro di Cleveland Battistello riprende invece l’impaginazione, con gli astanti a mezza figura e il punto di vista ribassato, ma rende la scena ancor più cupa e disadorna, quasi pauperista.

Giovanni Battista Caracciolo, detto Battistello, “Crocifissione di Cristo”, Napoli, Museo di Capodimonte (in deposito dal Museo Civico di Castel Nuovo), 1610 circa, olio su tela, 151×102 cm.

Allo stesso modo, se il “Cristo porta la croce” (vedi l’immagine di apertura del pezzo) acquistato nel 1952 dall’Università di Torino, che lo conserva nel Rettorato (sino al 1952 stava in collezione Martinotti a Casal Monferrato), che rappresenta uno dei nove dipinti di Battistello che stava nelle raccolte di Marco Antonio Doria-l’unico a oggi a essere stato identificato con certezza-mostra quell’adesione ai modelli del Merisi che porterà di lì a pochi mesi-siamo nel 1614-Battistello a dipingere quel “San Pietro liberato dal carcere” che cita un brano de “Le sette opere di misericordia”, anche il “Battesimo di Cristo” proveniente dalla Quadreria dei Gerolamini si rifà esplicitamente a un prototipo del Caravaggio, anche se in una maniera più sfuggente e subliminale: è stato infatti un altro grande specialista di pittura napoletana a individuarne correttamente il modello nella crepuscolare “Negazione di Pietro” del Metropolitan di New York, e nella tela realizzata sul cavalletto contiguo, che è naturalmente il “Martirio di Sant’Orsola”.

Giovanni Battista Caracciolo detto Battistello, “Battesimo di Cristo”, Napoli, Monumento Nazionale dei Girolamini, Quadreria, 1610 circa, olio su tela, 116×145 cm.

Già nel 1682 il canonico Carlo Celano ricorda questo quadro nella sacrestia degli Oratoriani, attribuendolo a “Giovan Battista Caracciolo”. Dai documenti dell’Archivio Storico di Napoli si desume che l’opera doveva far parte del nucleo donato nel 1622 ai padri filippini dal sarto Domenico Lercaro, col vincolo di esporle dove sono puntualmente ricordate.

Dallo stesso luogo proviene una coppia di dipinti di Jusepe de Ribera, che facevano parte del medesimo legato. Il “Cristo legato alla colonna” qualche volta è stato identificato con un “Ecce Homo” e altre ancora come un “Cristo flagellato”, ma rappresenta in realtà il momento in cui il Redentore viene preparato per la flagellazione, mentre i carnefici lo assicurano alla colonna bassa ben nota in virtù della conoscenza della reliquia che sta a Roma in Santa Prassede. Il trattamento luministico del torso e del perizoma sono vicini al “Calvario”che Ribera realizzò nel 1618 per la chiesa di Osuna. Unitamente al ciclo dei “Dodici apostoli” è una delle prime realizzazioni partenopee dello Spagnoletto, di cui rimangono oggi quattro tele. Del “Cristo alla colonna” esiste anche una seconda versione autografa alla Galleria Sabauda di Torino, ad attestare il successo avuto dalla composizione.

Jusepe de Ribera, “Cristo legato alla colonna”, Napoli, Monumento Nazionale dei Girolamini, Quadreria, olio su tela, 140×118 cm.

Il “Sant’Andrea” invece era stato declassato al rango di copia a inizio del secolo scorso. Grazie a Ferdinando Bologna, che riteneva fosse riferibile al momento in cui Ribera abbandona Roma nel 1616, è stata riassegnata stabilmente allo Spagnoletto, che in quel momento si concentra sullo studio delle epidermidi, sino a renderle in maniera straordinariamente verisimili, quasi  l’occhio dello spettatore fosse chiamato a compiere un’esperienza tattile. Causa diceva che il braccio del santo andava considerato “una della grandi nature morte del secolo”. E in effetti è difficile non rimarcare lo scarto tra quest’opera e gli apostoli praticamente coevi che hanno lasciato a Genova in quegli anni Giulio Cesare Procaccini e Bernardo Strozzi, in parte certamente per compiacere il gusto di Giovan Carlo Doria, mecenate tratello di Marc’Antonio, di lui tanto diverso per gusto.

In questa distanza, nello scarto tra pittura della realtà e della mimesi da un lato, e pittura degli affetti dall’altro, si compie il senso della mostra delle Gallerie d’Italia, che abbiamo accompagnato in questi mesi, partendo da Caravaggio e ritornando a Caravaggio, raccontando il gusto e la sensibilità di un’epoca che non si può comprimere in formule e titoli.

Jusepe de Ribera, “Sant’Andrea”, Napoli, Monumento Nazionale dei Girolamini, Quadreria, 1616-1618, olio su tela, 136×112 cm.

 

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