Arte
A 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni: Lucia, amor mio
Era in quel cantuccio nella gelida stanza, accovacciata a terra, rintanata in un angolo, con le mani si copriva il volto. Buttata lì, come un “sacco di cenci”. Non volle vedere il suo persecutore, né si era resa conto dove si trovasse e perché era stata rapita, secondo l’attuazione di quel maligno disegno ordito da Don Rodrigo che a tutti costi intendeva insidiarla.
Piangeva ed invocava, in cuor suo, la protezione della Vergine, che non era arrivata ancora per prestarle soccorso ed esaudire le sue preghiere. Si doveva compiere il miracolo, con una lenta lentissima resipiscenza per aborrire la forza del Male.
È Lucia, l’umile Lucia, al cospetto dell’Innominato nel suo castello che Manzoni definisce “il nido dell’Aquila insanguinata”.
Il Nibbio, che l’aveva rapita, ebbe un sentimento sconvolgente e per lui ignoto: la compassione.
E l’Innominato voleva vederla: nella sua coscienza incominciava lentamente ma inesorabilmente, come un fiume che sta per prendere la piena ed esondare irrimediabilmente, a far ingresso la forza del Dio, che provoca l’ineluttabile pentimento.
Manzoni, come dice Attilio Momigliano, descrive il tragico e drammatico conflitto tra il Male ed il Bene proprio nella figura dell’Innominato che non conosceva nessuno a lui superiore: “non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto”, solitudine superba, come quella del suo spirito.
Ma Dio penetra e annichilisce l’anima dell’Innominato.
“Quel Dio di cui aveva sentito parlare, ma che, da gran tempo, non si curava di negare né di riconoscere, occupato soltanto a vivere come se non ci fosse, ora, in certi momenti d’abbattimento senza motivo, di terrore senza pericolo, gli pareva sentirlo gridar dentro di sé: Io sono però”.
L’Innominato sente in sé una grandezza infinita, che gli fa rinnegare tutto il suo passato: un’altra anima penetra nell’intimo del suo corpo e dissolve quella che c’era prima. “Io sono però”, è l’affermazione dell’impero e della forza illimitata del divino, tutta l’augusta maestà che rattrappisce e doma la superbia dell’Innominato, anima ora fragile, ora inquieta, confusa, che abbassa le vele della cupa ferocia al cospetto dell’Assoluto.
“Alzatevi, –disse l’Innominato a Lucia, andandole vicino… Non voglio farvi del male”. Ma Lucia era spaventata; raggomitolata nel cantuccio, col viso nascosto tra le mani, tremava tutta.
Sono di fronte la potenza del Male e l’umiltà della preghiera. “Alzatevi”, ripeté l’Innominato. Lucia prende coraggio e, dice Manzoni, si mette in ginocchio e giunge le sue mani come avrebbe fatto davanti ad un’immagine votiva.
Avverte Lucia nella sua profondità che l’Innominato è scosso e, con voce mitigata dalla forza superiore della Fede, esclama:
” Sono una povera creatura che cosa le ho fatto?”. Perché lei mi fa patire? Mi faccia condurre in una chiesa. Pregherò per lei, tutta la mia vita. Cosa le costa dire una parola? Oh ecco! vedo che si move a compassione: dica una parola, la dica. Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!”
Da questo momento le parti sono mutate, quella più debole non è già Lucia, ma l’Innominato. Lucia parla in modo alato, l’Innominato è sottomesso.
La corrosione del pentimento, sgorgante dalle parole di Lucia, è disarmante, provoca un’inquietudine insopprimibile; la coscienza dell’Innominato subisce un tormento lancinante, come frecce acuminanti che penetrano nella tenera pelle.
È la passività apparente dell’umiltà, di chi ha una forza interiore, una di quelle forze che si crede di irridere e soverchiare, ma che non si riesce mai a conculcare: l’umiltà di Lucia è potenza sicura e dirompente, che sgretola e frantuma la dura corteccia dell’Innominato, che sta lentamente capitolando.
L’Innominato è scosso dalle parole di Lucia: “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia”.
Come se cadesse una quercia secolare, come un uragano che spazza via tutto: la tabula è rasa.
L’Innominato non dimentica il valore di quelle poche parole che creano uno sconvolgimento radicale nella sua provata coscienza; non ne dimentica il suono, al cospetto della sua vita di ieri, costellata di delitti, soprusi, angherie perpetrate per abitudine.
Si sente echeggiare dentro un’altra voce che parla attraverso Lucia; forse capisce che è la voce dell’Altissimo, che si serve di un’umile contadina. In questo punto la figura di Lucia, dice il Momigliano, tocca la sua maggiore altezza lirica: il mistero penetra solenne per bocca di una contadina, levata da quella frase ad un’altezza sovraumana. La forza dell’umiltà supera la violenza.
Lucia, dunque, è solo un pretesto in quella lunga e dolorosa notte, che sta per cedere il passo ad un’alba tormentata che annuncia la festa di Dio.
L’Innominato non discorre più con lei, ma con Dio.
La vita dell’Innominato ora è nuda davanti a Dio, si è fatta deserto, impallidisce, si svaluta. Il criterio con il quale si giudicavano i beni è caduto, l’anima è senza colore, aderisce al fango, al grigio, allo smarrimento del tempo, all’irriducibile condizione dell’assenza di ogni alternativa: il pentimento diventa incoercibile.
Passano inesorabili e desolanti davanti ai suoi occhi le immagini delle scelleratezze che ha cagionato e sale l’orrore del desiderio di morire o di sparire in una città lontana. Ma anche la morte gli appare inutile.
Lucia prende coraggio e tramortisce l’Innominato con un’altra nobile e pregna affermazione, che nell’anima del suo interlocutore diventa drammatica, facendo cadere la rocca dell’iniquità: “non torna conto ad uno che un giorno deve morire, di far patire tanto una povera creatura”.
Il perdono di Dio e la morte sono le spine, dice Luigi Russo, che penetrano nella coscienza dell’Innominato.
Lucia, in quella notte dove Dio sta per apparire all’Innominato e mutare una vita votata alle scelleratezze, si ricorda della preghiera. Dice Manzoni che
“prese di nuovo la sua corona e ricominciò a dire il rosario e di mano in mano che la preghiera usciva dal suo labbro tremante, il cuore sentiva crescere una fiducia indeterminata. Tutto ad un tratto le passò per la mente che la sua orazione sarebbe stata più accetta e più certamente esaudita, quando nella sua desolazione facesse qualche offerta”.
Si compie il voto: intende rimaner vergine, rinunzia al poveretto Renzo e si dà alla Vergine. Così le sue pene diventano dolci e si riconcilia con il sonno: “i sensi affaticati si assopirono a poco a poco in quell’acquietamento di pensieri e finalmente già vicino a giorno, con nome della sua protettrice tronco tra le labbra, Lucia si addormentò’ di un sonno perfetto e continuo”.
L’Innominato è preso dalla cupa disperazione: anche la morte non gli appare un’adeguata soluzione, neanche gettarsi in un fiume e sparire.
“Lasciò cader l’arme, e stava con le mani ne’ capelli, battendo i denti, tremando. Tutt’a un tratto, gli tornarono in mente parole che aveva sentite e risentite, poche ore prima: «Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!» E non gli tornavan già con quell’accento d’umile preghiera, con cui erano state proferite, ma con un suono pieno d’autorità, e che insieme induceva una lontana speranza. Fu quello un momento di sollievo: levò le mani dalle tempie, e, in un’attitudine più composta, fissò gli occhi della mente in colei da cui aveva sentite quelle parole; e la vedeva, non come la sua prigioniera, non come una supplichevole, ma in atto di chi dispensa grazie e consolazioni”.
Lucia rappresenta l’incanto della fede, grazie alla sua preghiera si placano gli occhi inquieti dei violenti, dirà un grande scrittore lombardo, Carlo Emilio Gadda, perché la sua religio è fatta di esempi e di azioni semplici che straziano i cuori. Anche quello dell’Innominato.
Lucia, amor mio.
Biagio Riccio
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