Arte
Los Angeles 1970: la vera storia di Elton John, Bob Dylan ed Harrison Ford
Nel film sulla vita di Elton John, voluto e prodotto da Reggie stesso, c’è solo una cosa che mi innervosisce davvero – anche se trovo il film meraviglioso: la cronologia musicale non viene rispettata, e questo rende un’ingiustizia al miracolo del successo di quei due ragazzetti di borgata inglese, Reginald K. Dwight e Bernie Taupin, perché dà al pubblico (che non sa nulla) l’impressione che, nella notte in cui, nell’agosto del 1970, Elton John fece impazzire il Troubadour di Los Angeles, tutte le sue più grandi hits fossero già lì, pronte a divenire immortali. Io trovo molto più strepitoso il modo in cui le cose sono accadute veramente…
Nell’aprile del 1970 la DJM aveva pubblicato il secondo disco, chiamato “Elton John”, ed i due singoli scelti, la noiosa “Border Song” e l’iconica “Your song”, avevano scalato le classifiche inglesi. Reggie e Bernie abitavano a casa della mamma di Reggie, il che creava enormi problemi. Ma la DJM, attraverso Caleb Quaye, che aveva suonato la chitarra nei Bluesology (la band di Elton John che suonava cover nei pub inglesi), aveva trovato tre date libere al Troubadour a percentuale (un suicidio, per dei musicisti sconosciuti) ed Elton e Bernie, con una band abborracciata ed improvvisata, erano volati a Los Angeles.
Mentre, nel pomeriggio, la band faceva il sound-check, in sala c’erano i ragazzi del Laurel Canyon, con un po’ di amici inglesi, che bevevano una birra: Glenn Frey degli Eagles, Steve Winwood (con Elton suonavano il suo batterista Nigel Olsson ed il suo bassista Dee Murray), Eric Clapton, Neil Young e la corista Nicolette Larson. Vennero folgorati dal sound-check e, quella sera, tutta la Los Angeles dei musicisti era in sala: i Grateful Dead, i Byrds, i Jefferson Airplane, i Beach Boys, e persino Bob Dylan. Erano tempi così, queste cose erano normali. Ma Elton aveva solo otto canzoni. Finite quelle ne fece due dal disco del 1969, “Empty sky”, che nessuno al mondo aveva mai comprato, e poi un paio di cover. La seconda sera, sapendo che avrebbero dovuto suonare più a lungo, Elton in pochi minuti mise una musica travolgente su un altro testo di Bernie, “Burn down the mission”, e questo brano, condito con un esplosivo assolo di piano, durava quasi dieci minuti, era costellato di citazioni di Jerry Lee Lewis e di mille altre cose, chiudeva i concerti.
È stato questo il primo grande vero successo di Elton John, tant’è che, per il mercato americano (la band rimase in America per oltre sei mesi), la DJM mise in vendita un disco di un concerto dal vivo, registrato a New York in novembre, con quella canzone sopra. Nel frattempo, Elton e Bernie vennero invitati a casa di Mama Cass Elliott (Mamas & Papas) a Laurel Canyon. Bernie si sentiva finalmente a casa, non se sarebbe mai venuto via. Elton, invece, pieno di complessi e di paure, si era rintanato in un angolino e, a parte Bob Dylan (che Elton nemmeno aveva riconosciuto) e due ragazzi sconosciuti, un tal George Lucas ed un suo amico, lo sconosciuto Harrison Ford, che campava facendo la comparsa nei film western, ed aveva avuto un ruolo di una decina di secondi nel capolavoro psichedelico “Zabriskie Point” di Michelangelo Antonioni, non aveva parlato con nessuno. Harrison e George avevano ammonito Elton: la California è tutta luci, amore e mare, ma è una trappola infernale, che distrugge chi non ce la fa. Elton gli aveva risposto: “A me sembra solo che qui tu debba essere facilmente riconoscibile, e prima o poi si ricordano che tu sei sempre stato qua in giro”. Harrison aveva già il cappello da Indiana Jones in testa – quello con cui George Lucas lo portò per la prima volta ad avere una particina che si potesse ricordare: il proprietario dell’auto nera che, dopo aver caricato la fidanzata di Ron Howard (che allora era il divo di “Happy Days”) sfidava il grande campione locale (con in testa il cappello da Indiana Jones) e si capovolgeva sulla strada statale. Il film era “American Graffiti”.
Elton voleva smettere e tornare a casa. Due giorni dopo, due ore prima di salire sul palco, Nigel aveva avuto bisogno di un asciugacapelli, e l’hotel aveva mandato loro Maxine, la sarta e sciampista dell’albergo. Bernie e Maxine si sono guardati negli occhi, ed è stata subito tombola. Dopo tre giorni si erano promessi l’amore eterno, e Bernie aveva scritto uno dei suoi testi più belli, “Tiny dancer” (piccola ballerina). Un testo lunghissimo. Elton lo ha letto e , come faceva lui a quei tempi, si è seduto al piano ed ha scritto la musica. In dieci minuti ha scritto una suite di sei minuti e mezzo, tant’è che Dylan, che lo guardava ammirato, gli aveva chiesto: “ma il ritornello lo avevi già in mente o ti è venuto lì per lì?”
A febbraio, tornati a Londra, Maxine e Bernie erano sposati, ed a quel punto i tre sono andati a vivere in un proprio appartamento. E lì le cose hanno iniziato ad andare male. Maxine ha lasciato Bernie nel 1976 perché non sopportava Elton John (Bernie scrisse una canzone su questo, “The bitch is back” – La stronza è tornata – che era la frase con cui Maxine salutava Elton, strafatto e di pessimo umore, che rientrava a casa e trattava tutti male) e, durante la registrazione di “Rock of the Westies”, lei era scappata con il nuovo bassista di Elton John, Kenny Passarelli. Nel film non lo si dice, ma Bernie ci ha messo più di vent’anni per perdonare Elton, dopo questo disastro.
Ma intanto “Tiny Dancer” era divenuta la canzone di Elton John più amata dai californiani. Le radio non la trasmettevano, perché in una strofa si dice “le strade sono piene di fricchettoni amanti di Gesù”, eppure se ne vendevano decine di migliaia di copie. Il brano è stato registrato nell’album più bello, “Madman across the water”, con Rick Wakeman, Lesley Duncan e tanti altri musicisti meravigliosi. Quando, l’anno dopo, nel 1972, uscì “Honky Château” e la band diventò numero uno in tutto il mondo grazie a “Rocket man” (un’idea copiata da David Bowie) e “Honky Cat”, Elton John era già alla fine, gli anni più belli erano oramai passati. Certo, prima che si arrivasse all’implosione ci sono state decine di milioni di dischi venduti per “Crocodile Rock”, “Daniel”, “Goodbye Yellow Brick Road” e “Candle in the Wind”, ma oramai Elton era schiavo della dipendenza, della depressione, della solitudine, della rabbia. Questo il film lo dice e non lo dice. Ve lo ricordo io, e vi invito ad ascoltare non solo la stupenda “Tiny Dancer”, ma tutto quell’indimenticabile album del 1971.
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