Arte

L’essenza è assenza di egolatrico tedium vitae

10 Dicembre 2021

“Ogni tanto al vecchio Balotta, e anche al Vincenzino, rinasceva il dubbio che fosse una spia… le rare volte che la incontravano, parlava pochissimo e sempre in francese”

In un mondo in cui apparire è più importante che essere, si cerca di imbellire imperfezioni, usare filtri per modificare ciò che non ci va, la cosmesi adotta il motto “perché io valgo” per convincerci che l’età è un dettaglio, e che la cura del proprio corpo consentirà di sfidare il tempo che passa, lui, il tempo, incurante, inesorabilmente, passa. Lascia segni fuori e dentro di noi, se quei solchi che vediamo sulla pelle servissero a analizzare quelli che abbiamo dentro, cercheremmo di non nasconderli, anzi li guarderemmo da vicino. Prenderemmo uno specchio, quelli che solitamente usiamo per vedere quei peli superflui che sfuggono all’occhio ma che sentiamo al tatto, e ingrandiremo le cicatrici con cui l’odiato nemico si diverte a segnare il nostro corpo.
Assomiglieremmo a Gulliver mostruoso quando i lillipuziani lo guardano gigantesco, scalando il suo corpo. Ogni poro della pelle sarebbe un cratere da cui il magma delle nostre pulsioni, emozioni, desideri, sarebbe indicatore della nostra consapevolezza.

Ciò che distingue la nostra specie è proprio la coscienza di sé, la consapevolezza è un tratto identitario, linea di demarcazione tra quanti conoscono le conseguenze di quanto decidono di fare e quelli che ignari procedono senza porsi questo problema. Gli inconsapevoli sono come tutti gli esseri viventi guidati dal loro istinto, dalle pulsioni, passioni e sentimenti, ma guardano miopemente l’oggi, disancorandolo dal loro passato, e non sono capaci di immaginare il frutto di quanto potrebbe accadere. Gli ignari sono una nave senza nocchiero in gran tempesta.

“Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!»

Verso iniziale di una celebre invettiva presente nel VI canto del Purgatorio della Divina Commedia con cui Dante introduce la sua amara riflessione sulla condizione politica dell’Italia, alla vista dei poeti Virgilio e Sordello che si abbracciano dopo aver saputo di essere due compatrioti mantovani.

Tra ignaro e ignavo c’è non solo un’assonanza ma un rapporto di causa effetto, si è inesperti perchè si è pigri, perché si considera l’essere umano come un monolite, una monade libniziana che è un vicolo cieco, non possiede finestre attraverso cui si può entrare ed uscire. L’io, invece, è sempre diverso, muta nel tempo, è fluido, in perenne trasformazione. Questo è il fascino della consapevolezza.

Mentre le altre specie viventi soddisfano i loro istinti primari e i bisogni ripetitivi che ne derivano, quelli dell’essere umano sono creativi e pregni di senso.

Il 1913 segnò nel linguaggio di de Chirico un cambiamento importante, che gli permise di tradurre in pittura l’enigma di cose considerate in genere insignificanti. Da allora in poi, scelse di rappresentare le sue visioni, in cui si fondavano storia e ricordo, utilizzando oggetti di uso quotidiano dall’aspetto familiare, come biscotti, guanti, scatole, frutti e busti antichi. Accostando questi oggetti in modo illogico e privo di senso e collocandoli in contesti inaspettati, de Chirico costringe lo spettatore a riesaminare “le cose”, il loro contesto, e il rapporto tra di essi. L’ordinario è misteriosamente trasformato in qualcosa di straordinario, strano ed enigmatico: una sensazione di scoperta, sorpresa o rivelazione pervade la scena.

Chiunque abbia fatto l’esperienza di un trasloco, sa che si tratta di evento traumatico, la casa assume l’aspetto del padrone, gli somiglia, è l’ambiente che abbiamo personalizzato secondo i nostri gusti, le nostre preferenze, parla di noi al pari di un capo d’abbigliamento. Osservando i quadri, i libri, il tipo di arredamento, la sistemazione del mobilio, gli oggetti di cui li abbiamo riempita si può tracciare un profilo psicologico del suo abitante, i viaggi compiuti, se tende a aprire le sue porte agli amici. È il luogo dove rifugiarsi quando stanchi del rumore del mondo esterno, cerchiamo accoglienza, calore, in cui sono accaduti fatti rilevanti in compagnia delle persone che abbiamo ricevuto. La casa è guscio tiepido, e anche se non ce la portiamo dietro come una lumaca, la portiamo dentro, lo testimonia il fatto che chi ne ha una propria si reca in un negozio di casalinghi con la stessa frequenza con cui va in un negozio di abbigliamento. La casa è un luogo sentimentale che ha respirato con noi gioia, allegria, tristezza; rappresenta la stabilità che si oppone a l’eterna incertezza, un luogo in cui il temo scorre diversamente, è il nostro tempo, quello interiore, che non ha nulla a che fare con gli orologi, o con le condizioni atmosferiche. La casa è come un quadro di Chagall, vi è scritta e inscritta la propria storia.

Parigi è una città accademia per il pittore, una seconda rinascita. La Senna gli ricorda i tuffi nel Dvna, laggiù scrive in francese. Il mio preferito è quello in cui regge Bella, la moglie, musa ispiratrice e soggetto di tante sue opere, spesso ritratta in volo. In primo piano vi è un vaso di fiori, la sua vita con lei è un rifiorire quotidiano: il rosso, simbolo della passione è il colore che più colpisce, anche se oltre alla purezza del bianco, è il giallo che sembra predominare indicativo della luce, del calore, e della gioia, ma anche della follia. L’ala che Bella ha tra le mani rappresenta un volare al di sopra delle cose terrene, il librarsi al di là delle amarezze quotidiane che consente al suo volto di rimanere giovane, vita che fiorisce in eterno. Idea che riprende nel ritrarle i seni che sono richiamo al seno materno, alla suzione. Atto di travaso della vita.

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