Arte
L’arte pubblica come fatto inclusivo e politico. Intervista al collettivo CHEAP
L’arte non è e non può essere un fatto individuale e soprattutto esclusivo. L’arte deve essere inclusiva, creare ponti, stimolare dibattiti, reazioni, smuovere menti, cuori e insediarsi nelle città. A portare avanti questa visione, da ormai dieci anni, è il collettivo CHEAP, progetto di arte pubblica fondato da sei donne a Bologna nel 2013. CHEAP interviene prevalentemente sul paesaggio urbano, si occupa di linguaggi contemporanei, è impegnato nella ricerca di un equilibrio tra pratica curatoriale e attivismo e lavora con la carta, perché ancora oggi non c’è niente di più effimero. Camminando per le strade di Bologna ci si imbatte spesso nei suoi potenti progetti.
Il collettivo, però, per la prima volta, ha inaugurato un’esposizione in un museo, “SABOTATE con grazia”, all’interno del MAMbo di Bologna, in programma fino al 17 dicembre e ha pubblicato “DISOBBEDITE con generosità” (People Edizioni), libro che racconta il percorso artistico e curatoriale, svelando i dietro le quinte di pratiche radicali, esperienze di strada formative, ricco di pensieri e aneddoti che aprono uno spiraglio sulle diverse anime del progetto.
«Stiamo cercando di decostruire l’idea dell’arte come fatto individuale e quindi esclusivo, per cercare di farne invece un fatto più inclusivo. Non sopporto la retorica che c’è attorno all’arte e all’artista. Vorrei che ci fosse una narrazione che restituisca una dimensione un pochino più terrena a questo lavoro», ci spiega Sara Manfredi, curatrice, project manager, tra le fondatrici di CHEAP.
Come come arriva l’idea del libro?
«Abbiamo già prodotto dei libri ma sono sempre stati impostati e pensati come dei cataloghi. La natura effimera e instabile del nostro lavoro ci ha portate a pensare che ci fosse bisogno di documentarlo, dato che la carta e nel formato del poster, in strada, non è un tipo di supporto stabile, duraturo. Abbiamo cercato di dare continuità ad un archivio video e fotografico e quindi, fino a questo momento, avevamo prodotto tre cataloghi.
Poi, “la Giusi”, come noi internamente ci riferiamo al compagno Civati, ci ha contattate per chiederci se avevamo voglia di scrivere un libro per People. Cadendo nei dieci anni abbiamo deciso che doveva essere un testo non accademico ma che parlasse proprio della nostra storia, delle nostre pratiche artistiche, ma anche politiche. È nato così questo libro strano che intreccia delle riflessioni sulle pratiche artistiche e politiche, all’interno del quale c’è tanto contesto».
“DISOBBEDITE con generosità” non è un testo definibile. Esattamente come “SABOTATE con grazia”, all’interno del MAMbo di Bologna. Non è una mostra, nel senso più tradizionale del termine.
«Il fatto di riuscire a schivare le etichette è uno dei nostri obiettivi. Poi non so questo cosa comporterà per il libro, nel senso che probabilmente Feltrinelli lo metterà vicino ai manuali di decoupage. L’esposizione al MAMbo nasce invece dall’esigenza di rompere con l’idea che ci siano degli spazi espositivi e degli spazi che non sono espositivi. È un’infestazione, per cui noi siamo dentro alla collezione permanente della sala dei funerali di Togliatti ma anche nei cessi del museo. Siamo nei sottoscala, negli spazi con i fasciatoi per i bambini, ci siamo infilati ovunque, con materiali diversi e poster in formati inediti. E abbiamo anche lasciato che questa cosa fosse un gioco. L’hanno vissuta come un gioco le 1500 persone che in maniera del tutto imprevedibile si sono presentate all’inaugurazione. Avevamo preparato cento tutine di CHEAP e le prime cento persone che si sono presentate se le sono infilate. Vedere tutte queste persone che giravano il museo e lo frugavano cercandoci nei sottoscala, in bagno, sulle scale, è stato il realizzarsi di un’infestazione vera e propria. Ero scioccata».
Come mai eri scioccata?
Sono dieci anni che prima di qualsiasi evento guardo la mia socia e sorella e compagna di merende Flavia Tommasini di CHEAP e le dico “tanto non verrà nessuno”. Però poi quando vedi queste cose succedere è straordinario. Sono rimasta molto colpita e molto grata. È stata la chiusura del cerchio perfetto, siamo riusciti a portare la città dentro al museo.
Il vostro è un linguaggio che è stato e continua ad essere molto innovativo e potente. Cosa vi ha portate ad intraprendere questa esperienza nel 2013?
Io ho una formazione che con la semiotica c’entra molto. Quando guardo la città vedo un testo con delle strutture di senso e quindi il fatto che CHEAP abbia un linguaggio contemporaneo per me è una delle definizioni più azzeccate che si potessero trovare.
Nessuno di noi è di Bologna, ma ci siamo tutte formate a Bologna. Questo ha comportato per noi attraversare non solo i luoghi della formazione istituzionale, come le accademie, le università ma anche gli spazi indipendenti underground, i luoghi occupati autogestiti, gli spazi dove le pratiche politiche incontravano le pratiche artistiche. Tutto questo universo, che ha il peso specifico dell’oro per quanto mi riguarda, ha formato anche il nostro sguardo sulla città. Credo che il nostro desiderio di utilizzare lo strumento dei linguaggi visivi contemporanei per leggere la città, per andare a pungolare e per cercare di aprire una conversazione, sia stato il motivo per cui abbiamo scelto la strada. E faccio fatica a pensare che non ci fosse uno sguardo anche politico rispetto a questa scelta. Per questo Bologna e la storia di Bologna, di tanti altri progetti e di tanta altra gente è così presente dentro al libro.
C’è tanto contesto perché c è una pratica di contesto e quindi senza Bologna non ci sarebbe stato CHEAP. Anche se oggi, Bologna sta un pò tradendo l’idea di città che avevamo e che portava avanti e questa cosa mi preoccupa moltissimo.
Le città replicano modelli globali, anche dove la visione e l’idea era un’altra…
Il tema è proprio questo, torno a Bologna circa una volta al mese e vedo delle dinamiche che hanno preso piede e che sono spaventosamente simili a molte altre città. Sono dinamiche che mettono innanzitutto a rischio il diritto alla città, a deciderne, a cambiarla, a trasformarla e mettono in crisi anche il diritto all’abitare, e che vanno ad ampliare i divari di classe e genere.
Sono temi che avete affrontato con CHEAP. A quali progetti sei più legata?
Alcuni li riconosco come momenti apicali della nostra storia. Un esempio per me è il progetto con le Guerrilla Girls. Abbiamo lanciato un’affissione aperta e si sono presentate moltissime donne. Questa cosa ha aperto un grande dibattito. Oltre a essere stata un’esperienza molto forte, dal vivo in strada, ci ha permesso di aprirci a molti altri ragionamenti e step.
Un altro progetto a cui io sono molto legata è quello con Miss Me, che è venuta dal Canada, è stata con noi a Bologna, abbiamo progettato questa cosa e abbiamo fatto un intervento molto forte sulla violenza di genere, sulla cultura dello stupro, sulla riappropriazione del proprio corpo in chiave non erotizzato, sul diritto alla rabbia. Abbiamo fatto partecipare più donne, dall’affissione in strada, alla progettazione, alla partnership con la Casa delle donne per non subire violenza. E quello è stato un altro momento importante per noi, per la nostra crescita. Perché poi nel 2020 arriva La lotta è FICA e il primo intervento dopo la pandemia e questa serie di poster che fanno a pezzi l’ordine simbolico dello spazio pubblico.
Cosa dovrebbe essere per te lo spazio pubblico e come l’arte dovrebbe impossessarsene?
Gli spazi pubblici sono moltissimi. Quello in cui noi interveniamo è quello della città, della strada. Le città non sono dei luoghi neutri ma sono luoghi in cui il privilegio e l’esclusione vengono strutturati anche sulla base della classe, della razza, del genere, oltre che dell’abilismo. Il tema è cercare di andare a cortocircuitare questi meccanismi di esclusione e privilegio anche quando funzionano rispetto all’ordine del simbolico che è accettato o meno dallo spazio pubblico. Faccio spesso questo esempio perché secondo me è paradigmatico. Se pensiamo all’arte pubblica in Italia e parlo della provincia perché è quella l’Italia, la prima cosa a cui pensiamo, ed è la prima cosa che è probabile che tu veda, è una statua di un uomo bianco cisgender a cavallo, con dei titoli nobiliari, che sta tornando da un genocidio per cui noi lo celebreremo in patria. Questo è il paradigma dell’arte pubblica in Italia. Non c’è da meravigliarsi se poi il nostro sentimento è di volerle fare a pezzi quelle statue, perché l’ordine simbolico tiene fuori una serie di soggetti, di comunità e di esperienze dallo spazio pubblico e dalla rappresentazione nello spazio pubblico. Cioè le donne, le persone nere, i corpi non conformi la comunità LGBTQIA+ , i migranti, la povertà. Il tema è cortocircuitare quest’ordine del simbolico e produrre immettere nuovi segni e nuovi significati. Vogliamo innescare una conversazione, dopodiché dare rappresentazione a chi non ne ha.
Sarebbe bello poter replicare queste esperienze nei piccoli paesi di provincia…
Anche secondo me per questo tipo di pratica c’è posto ovunque ci sia una comunità, ovunque ci sia uno spazio pubblico, tanto è vero che noi siamo anche uscita da Bologna, siamo andate a Modena ma anche in un contesto completamente diverso, quello di Belmonte Calabro, in provincia di Cosenza. Ci siamo stati con Crossing, festival organizzato dalla Rivoluzione delle seppie e abbiamo provato, insieme a una serie di studenti erasmus italiani e stranieri, a progettare un intervento che aprisse un dialogo con la popolazione locale, con la comunità che che vive quel luogo in maniera residenziale.
L’arte oggi in questo paese quale obiettivo dovrebbe darsi?
Non so cosa dovrebbe fare l’arte. So che quando mi trovo davanti all’arte riconosco due movimenti opposti e contrastanti. C’è un’arte, una pratica artistica che mette in discussione lo stato delle cose e che cerca di attivare delle pratiche trasformative dell’esistente. E poi c’è l’arte che non lo fa. A me fa più paura dell’arte come prodotto, l’arte come fatto innocuo.
Quale sarà il vostro prossimo intervento?
A gennaio ci sarà una il lancio dell’annuale Call for Artist. Sarà una cosa molto politica, molto netta e probabilmente anche divisiva. Poi abbiamo un progetto d’arte pubblica femminista molto corale che arriverà verso maggio, giugno. Inoltre, abbiamo in programma un progetto per me importantissimo che ha a che fare con il razzismo in Italia e la cultura coloniale da cui questo paese non si è mai emancipato. Lo stiamo facendo con un altro artista che cerca di intersecare pezzi di di comunità e di attivare una riappropriazione dello spazio bianco non bianco all’interno della conversazione urbana. Poi, verranno a trovarci un po’ di artiste dall’estero. Stiamo cercando di attivare un paio di residenze. Infine, andremo in giro a presentare il libro. Lo presenteremo pochissimo in libreria e moltissimo in altre situazioni. Lo abbiamo già presentato in un museo, in un locale, in un bar, lo presenteremo in un centro antiviolenza e in un centro sociale. È la scusa per per aprire delle conversazioni in luoghi che forse sono atipici per l’idea di lettura che che abbiamo.
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Foto di copertina di Rebecca Momoli
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