Arte

L’arrivo di Rubens in Italia cambia il corso della storia

23 Gennaio 2018

Nelle notti in cui Caravaggio batteva le strade di Roma, tra osterie, schermaglie di strada con la milizia pontificia e le fazione spagnola, serenate sotto le case delle cortigiane e sonetti improvvisati con i suoi compari contro il Baglione, un altro giovane artista, giunto in città negli ultimi mesi del 1601, consumava la sua esuberanza-non a caso Bellori avrebbe evocato parlando della sua opera “la furia del pennello”-alla luce di una torcia, copiando senza sosta dipinti, antiche sculture, opere dei grandi maestri dei secoli precedenti e composizioni dei suoi contemporanei. Una serie di piccoli disegni -fogli che sono poco più grandi di un A4 di oggi- ci raccontano il lavoro di quelle ore notturne: sono riproduzioni di un bassorilievo di Michelangelo, “La battaglia tra i Lapiti e i Centauri”, illuminate con una candela, prima da destra e poi da sinistra.

Peter Paul Rubens da Michelangelo, “La battaglia tra Lapiti e Centauri”, Museo Boymans-Vanm Beuningen, Rotterdam, 1600-1608, gesso nero alternato al bianco su foglio grigio, 24×34,7 cm.

Peter Paul Rubens appare così in Italia: come uno dei tanti giovani artisti nordici scesi nel nostro Paese per completare il proprio apprendistato. Figlio della buona borghesia mercantile di Anversa, era il sesto figlio di Jan Rubens, scabino (carica amministrativa indipendente di primo piano nella vita municipale dell’epoca) della città sulla Schelda, e di Maria Pijpenlicx, proveniente a sua volta da una famiglia di commercianti agiati. Negli anni immediatamente precedenti la nascita del pittore, le Fiandre, dove la religione riformata aveva trovato più che altrove libera espressione, furon oggetto di una violentissima repressione da parte del Duca d’Alba, governatore per conto di Filippo II di Spagna. In quel frangente i coniugi Rubens decisero di lasciare Anversa. Jan si rifugiò a Colonia, per diventare consigliere giuridico e amante di Anna di Sassonia, seconda moglie di Guglielmo il Taciturno, principe di Orange-Nassau, attorno a cui si era organizzata la resistenza anti-spagnola.

Frans Hogenberg, “La piazza del mercato di Anversa durante la furia spagnola del 1576”,  incisione, 28,6×35,6 cm.

Peter Paul nacque dunque  nel 1577 a Siegen, in Westfalia, in una condizione di vero e proprio rifugiato politico, dopo che gli Spagnoli avevano messo a ferro e fuoco la sua terra, massacrando la popolazione inerme di fede calvinista, incendiando le case, sottoponendo a riscatto migliaia di persone e arrivando a chiedere sino a 6mila ducati per non distruggere le abitazioni o non assassinare i famigliari dei protestanti.

Rimasta vedova nel 1578, Maria decise di rientrare ad Anversa: in quanto cattolica non temeva ritorsioni, e avviò il figlio a un percorso di studi tradizionale. Mentre faceva da paggio in casa di Margherita di Ligne, vedova del conte d’Aremberg, il giovane Rubens cominciò però a copiare sistematicamente tutte le stampe e incisioni che gli capitavano sotto mano. La società fiamminga era allora chiusa in gildeche funzionavano come caste chiuse, e l’accesso alle botteghe più importanti era riservato ai figli degli artisti. Nonostante avesse già replicato praticamente tutta la pittura tedesca, da Holbein a Stimmer, Peter Paul dovette invece aspettare i quattordici anni per essere avviato all’apprendistato pittorico, in forte ritardo rispetto ai suoi coetanei.

Dopo l’alunnato con maestri locali, prima con Veraecht e Van Noort, poi con il più quotato Van Veen, che era stato in Italia, studiando Correggio e conoscendo il principe dell’accademia tardo-manierista Federico Zuccari, Rubens prese dunque la decisione di venire in Italia. Il fratello maggiore, Philip, aveva seguito le lezioni di Juste Lipse, filologo e latinista, e l’imprinting di questa discesa nell’Europa del Sud, che i pittori nordici, da Rogier van der Weyden a Giusto di Gand sino a Gossaert, avevano fatto talvolta più per opportunità di carriera che per meri motivi di studio, era invece nel caso di Peter Paul esattamente quello di un vero e proprio pellegrinaggio alle fonti della cultura umanista. All’epoca non esistevano ancora istituzioni in grado di supportare gli artisti che compivano il viaggio di formazione (le accademie nacquero solo nella seconda parte del XVII secolo). Rubens, che partì da Anversa il 9 maggio 1600 assieme al collaboratore Déodat Belmont, ebbe però la fortuna di incontrare appena arrivato a Venezia il duca di Mantova Vincenzo Gonzaga, intenzionato a ridare lustro al piccolo stato e alla ricerca di un pittore che potesse cogliere l’eredità dei pittori protetti dai suoi avi, da Mantegna a Giulio Romano. Vincenzo non possedeva grandi mezzi economici e molte delle sue idee dovevano rivelarsi velleitarie, ma per Rubens comunque la possibilità di svolgere una serie di incarichi tutto sommato non particolarmente impegnativi, a contatto con una corte dove si muovevano il figlio di Tintoretto, l’incisore Andreani, il suo conterraneo Frans Porbous il giovane e il compositore Claudio Monteverdi, rappresentava comunque un’occasione importante. In più poteva viaggiare, alimentando la sua sete di conoscenza e ampliando il suo repertorio d’immagini.

Prende così forma l’avventura intellettuale che rifonderà di fatto la pittura europea. La possibilità di stabilirsi a Roma, grazie ai buoni rapporti di Vincenzo Gonzaga col cardinal Montalto, garantirà a Rubens la libertà necessaria per studiare la scultura antica, che conosceva solo attraverso le incisioni, da libri come l’ “Imagines” di Fulvio Orsini. Lo studio dal vivo dei reperti romani non era una novità. Rappresentava un passaggio obbligato per ogni artista che arrivasse dal Nord. Ma Peter Paul lo trasformò in qualcosa di straordinariamente vibrante, che va al di là del pur fenomenale lavoro di copia dall’antico che aveva realizzato dieci anni prima il suo connazionale Hendrick Goltzius.

Peter Paul Rubens dall’antico, “Laocoonte e i suoi figli”, Biblioteca Ambrosiana, Milano, 1601, gesso nero, 47,5×45,7 cm.

Già i suoi primi biografi, da De Piles a Bellori sino a Samuel van Hoogsraeten, se n’erano accorti: Michelangelo, Raffaello, Dürer facevano copie. Nessuno però nella quantità di Rubens, che estendeva questa pratica a ogni epoca e tecnica originale, operando in parte per commissione del Duca di Mantova, in parte per libero esercizio e interesse. L’intento evidente era quello di mettere assieme un campionario di composizioni, posture, soluzioni, ben oltre i limiti temporali del pieno compimento della sua educazione figurativa. L’impresa della costruzione di questo poderoso database iconografico finì per coinvolgere assistenti ed allievi. C’era sì il punto di vista del connoisseur, che apprezza l’arte degli altri e vuole averla sempre sotto mano. Ma il fine era soprattutto l’utilizzo massivo di quel repertorio all’interno del proprio lavoro. Van Hoogsraeten racconta che in molti accusavano Rubens di copiare intere figure dall’arte italiana e come lui rispondesse che i pittori erano liberi di fare altrettanto con i suoi dipinti. Con una differenza: nessuno sapeva far diventare una cosa propria, totalmente coerente al suo linguaggio, l’immagine di un altro. Questa pratica di replica a tappeto  era peraltro orientata a uno stringente pragmatismo. Dove non c’erano disponibili gli originali, Peter Paul copiava dalle incisioni o dalle repliche. E aveva una memoria visiva straordinaria, come dimostra il fatto che a vent’anni di distanza avrebbe rifatto il “Matrimonio Aldobrandini” visto a Firenze o si sarebbe ricordato delle nozze tra Maria de’ Medici ed Enrico IV a cui aveva assistito nel settembre del 1600 accompagnando il Duca di Mantova, riproducendo esattamente la scena nella “Storia di Maria de’ Medici” ora al Louvre.

L’altro aspetto inedito della grafica di Rubens è la continua rielaborazione delle immagini che riprendeva. Spesso attraverso una serie di studi in successione, la composizione finisce per diventare una lontana eco dell’originale. Copiando i nudi della Sistina,  dopo aver riprodotto filologicamente gli affreschi di Michelangelo, comincia per esempio a cambiare alcuni dettagli, e questa rielaborazione man mano diventa sempre più potente, plastica e ricca di dettagli cromatici e chiaroscurali, sino a somigliare più a un sogno vigoroso che reinventa e ribalta letteralmente in qualche caso le figure del Buonarroti. Allo stesso modo, oggi conosciamo la perduta pittura a encausto de “La battaglia di Anghiari” di Leonardo grazie al disegno che ne fece Rubens, ma di certo il livello complesso di rielaborazione di quell’immagine ne fa certamente una derivazione-non sappiamo in realtà quanto fedele all’originale- più che una mera copia.

Peter Paul Rubens da Leonardo, “Battaglia di Anghiari”, Museo del Louvre di Parigi, 1600-1608, gesso nero, penna, inchiostro, acquarello marrone sovrapposto a bianco e grigio, 45,2×63,7 cm. 

Un’altra abitudine spiazzante di Rubens è quella di rilavorare direttamente disegni non suoi. Molti dei fogli che gli sono attribuiti sono in realtà grafiche di artisti spesso oscuri, che lui corregge incessantemente, sino a farne una cosa propria. Il senso di quest’apprendistato infinito, svolto inglobando letteralmente nel proprio segno tutta l’arte che lo aveva preceduto, lo si comprende quando finalmente arrivano le prime importanti commissioni pubbliche, che è in grado di affrontare dominando tutte le fonti iconografiche e compendiandole in maniera straordinariamente brillante, in uno stile potente, teatrale, di grande eloquenza, che possiede la forza plastica di Michelangelo, la maestosità di Tiziano, la tavolozza dei veneti, la capacità disegnativa degli emiliani, il senso della realtà dei nordici, l’azione di Caravaggio (di cui copia la “Deposizione” e acquista per il Gonzaga la “Morte della Vergine” poco dopo la rimozione da Santa Maria della Scala) e le forme classiche di Annibale Carracci. Tutta la pittura del passato, insomma, ma al servizio di un’assertività nuova.

Spesso non è facile nemmeno capire come Rubens riesca precocemente ad arrivare a risultati così alti, come nel caso del nuovo altare per Santa Maria in Vallicella, la chiesa degli Oratoriani, l’ordine fondato da San Filippo Neri nel 1564. Davanti a un arco monumentale che allude probabilmente alle rovine del Palatino, piazza San Gregorio, con tre altri santi-Mauro, Papiano e Domitilla-che lo circondano. Parte probabilmente da un piccolo schizzo, poi sviluppa le figure dei santi in disegni separati e poi li ricombina, sistemandoli più di profilo, nella composizione finale, in cui stressa cento e più anni di storia delle sacre conversazioni all’interno del formato della pala d’altare, in una tela che è quasi cinque metri per tre e che manda in soffitta qualsiasi cosa sia stata dipinta a Roma dopo Raffaello, salvo però essere presto sostituita da una versione su supporto in ardesia, realizzata dallo stesso Rubens.

 

Peter Paul Rubens, “San Gregorio Magno circondato da San Mauro, Santa Domitilla e San Papiano”, Musee des Beaux Arts, Grenoble, 1606, olio su tela, 477×288 cm. 

Questa consumata abilità gli è d’aiuto in quegli anni non solo in altri incarichi pubblici di prestigio, come quello per Santa Croce di Gerusalemme a Roma e per la Trinità dei Gesuiti a Mantova, ma anche in altre circostanze. Nel 1603 viene inviato da Vincenzo Gonzaga in Spagna, con l’incarico di accompagnare i doni inviati a Filippo III e al suo potentissimo primo ministro, il Duca di Lerma. S’imbarca a Pisa, dopo che gli è stato impedito di farlo a Genova, e quando arriva a Madrid scopre che la corte si è spostata a Valladolid. Senza esitare, cambia il piano di viaggio, ma si trova ad affrontare venti giorni di pioggia incessante e vento fortissimo. Dopo mille difficoltà giunge finalmente a Valladolid, senza più un soldo, e con gli uomini stremati. E lì gli comunicano che il re sì è mosso di nuovo, ed ora è a Burgos. Nel frattempo i doni sono andati quasi completamente distrutti. Salva il salvabile, e si mette all’opera per sostituire i dipinti che il Gonzaga aveva inviato, tra i quali, scrive con un certo disappunto, non ce n’era nemmeno uno suo. Ne fa altri, completamente nuovo, seduta stante, che hanno grande successo. Nasce così l’opportunità di realizzare un ritratto a cavallo dell’uomo che comanda davvero la Spagna in quel momento, il primo ministro. Realizza il dipinto sulla memoria iconografica di un “San Martino” di El Greco. La soluzione è potentissima, e di fatto va a innovare radicalmente l’ambito della ritrattistica ufficiale, che  in Spagna era ferma al Carlo V di Tiziano.

Peter Paul Rubens, “Ritratto a cavallo del Duca di Lerma”, Museo del Prado, Madrid, 1603, olio su tela, 209×205 cm. 

Nell’estate del 1606 ancora Vincenzo Gonzaga lo porta con sé a Genova, che lo impressiona tantissimo, al punto di decidere di dedicare un volume di incisioni ai suoi palazzi. Nessun altro luogo gli sembra altrettanto congeniale come quinta scenica per i suoi teleri di questa città che ha la forma stessa di un teatro, disposto tra le montagne davanti al mare, e che Galeazzo Alessi ha rinnovato architettonicamente pochi decenni prima, dando a facciate, materiali e strutture una bellezza che agli occhi di Rubens appare austera all’esterno, a contrasto con la ricchezza delle decorazione degli interni, e dei giardini popolati di alberi esotici e dalle colonie di uccelli portati dalle Americhe. Genova è una repubblica, formalmente indipendente, anche se legata a doppio nodo alle sorti della Spagna, per gli interessi finanziari che vincolano la Corona ai suoi banchieri. L’antica potenza marinara ha lasciato il posto alla solidità finanziaria. Scriverà Peter Paul anni dopo: “Sono stato a Genova molte volte e sono rimasto in rapporti intimi con molti dei personaggi più eminenti di quella repubblica”. Giovanni Baglione riferisce nella biografia dedicata al fiammingo nelle sue “Vite” che Rubens ha dipinto una serie di nobili genovesi a cavallo, e che in quel genere non aveva rivali. Di questi ritratti ci resta però solo quello di Giovanni Carlo, coetaneo del pittore e fratello del Marcantonio, mecenate di artisti e collezionista dal gusto sensibilmente diverso da quello del committente della “Sant’Orsola”. Se questi è infatti orientato verso il realismo e l’acquisto degli artisti napoletani, da Battistello a Ribera, Giovan Carlo apprezza uno stile più eclettico, e guarda con grande interesse agli sviluppi della pittura emiliana e milanese, a Giulio Cesare Procaccini e Bernardo Strozzi.

Peter Paul Rubens, “Giovan Carlo Doria a cavallo”, Galleria Nazionale di Palazzo Spinola, Genova, olio su tela, 265×188 cm. 

Rubens lo ritrae mentre indossa un’armatura nera. decorata con la croce rossa dell’Ordine di Santiago di Compostela, con una fluente sciarpa scarlatta attaccata al braccio, a indicare il grado di ufficiale comandante, a memoria del servizio svolto nella marina spagnola. Porta un vistoso copricapo e tiene facilmente le redini nella mano destra, guardando lo spettatore, mentre ai piedi del baio corre uno spaniel, che richiama quello di un’incisione di Dürer, mentre l’aquila che s’intravede sull’albero è un’allusione al simbolo dei Doria. Il tono complessivo del dipinto è più caricato e scenograficamente barocco del ritratto del Lerma, anche in virtù della posa mutuata da un’incisione di Enrico IV di Francia realizzata da Antonio Tempesta. Esattamente la stessa è invece la cavalcatura. Cavallo che vince non si cambia, e non a caso Rubens con questa raffigurazione del rampollo “flemmatico e assorto” di uno dei rami più potenti della famiglia Doria, irrompe nelle vicende della pittura genovese, mutandole radicalmente. “Una soluzione genialissima e fondamentale per tutto lo svolgimento del Barocco”, la definirà Roberto Longhi. E pensando alla mostra “L’ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri” alle Gallerie d’Italia, di cui la tela rappresenta uno dei prestiti più importanti, mi viene da dire che uno dei tanti percorsi possibili che si sovrappongono alla partitura in sei sezioni principia proprio da questa formidabile coppia di cavallo e cavaliere. Dietro cui sembra muovere una storia nuova che va adesso a iniziare.

 

 

 

 

 

 

 

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