Arte
L’apparizione di Marina Abramovic al teatro Argot
Un tempo, per Pasqua, i teatri chiudevano: ecco perché il viola porta male agli attori, ricorda il mancato guadagno. Fortunatamente non è più così: gli attori guadagnano sempre poco, ma almeno la Chiesa non impone più la chiusura nella settimana pasquale. Dunque il cosiddetto “venerdì santo”, sono andato all’Argot di Roma, stracolmo, per l’ultima replica di Not here, not now, di Andrea Cosentino.
Cosentino è un intellettuale della scena, un cabarettista sui generis, scanzonato, ferocemente autocritico, dada, lucidissimo nell’attraversare parodicamente generi e stili.
Da tempo non vedevo suoi lavori: lo ritrovo ancora più consapevole, allegramente cinico nello “sdrammatizzare” tutto e tutti. Ha, dalla sua, una sincera modestia che svela mettendosi in gioco totalmente pur celandosi dietro “personaggini” che connota di elementi cheap e pop, dalle parrucche agli occhialini di carnevale. Chiama continuamente in causa il suo vissuto, il privato, la presenza ossessiva della madre: evoca la parlata abruzzese d’origine assieme, per questo lavoro, allo slang fumoso e tecnico del critico d’arte o alla enfasi criptico-autoreferenziale del “performer”.
Not here not now parla, infatti, proprio di performance e d’arte contemporanea. E lo fa prendendo spunto dall’omaggio a Marina Abramovic organizzato dal Pac di Milano un paio d’anni fa, durante il quale venne presentato quel che si definisce The Abramovic Method, ovvero una riflessione (che si fa prassi) sul ruolo e la presenza del pubblico nelle performance. Cosentino muove da questa suggestione e la racconta: è andato alla performance milanese della Abramovic, vi ha preso parte. Not here not now, dunque, è occasione succulenta per prendere sanamente e seriamente in giro quel mondo, investigando la dialettica performance/rappresentazione.
Andrea Cosentino fa, nell’arco di un’ora, una travolgente controstoria del contemporaneo, da Duchamp in poi, rendendosi protagonista e spettatore di se stesso: assume addirittura le sembianze di una simil-Abramovic, ed evoca gesti e azioni (anche in divertentissimi video) di questa grande icona dell’arte d’oggi. Nelle lunghe digressioni sull’astratto e il concettuale, degne di Petrolini, gioca sempre volutamente al ribasso, in una destabilizzante presa in giro della retorica complessa del mondo delle arti visive contemporanee. Non si salva nessuno, dei tanti pseudo-performer d’oggi: quelli che lo “fanno strano”, quelli che si sbattono per “sentito dire”, quelli per i quali tutto è performance.
Con arguta irriverenza, Andrea Cosentino teatralizza la confusione e la supponenza diffusa, mette alla berlina usi e (s)costumi dell’Artista con la A maiuscola, parodiando anche se stesso in un serrato dialogo con la “madre” (evocata da un video sull’i-phone, oramai dispositivo abusato dalla scena performativa), la quale, a sua volta, svela la presunta pochezza del teatro fatto dal figlio. Cosentino sa il fatto suo, ovviamente: questo è cabaret per intenditori. Così, sa di incontrare un pubblico consapevole, capace di slittare ogni istante assieme a lui in piani concettuali altri, proprio nel momento in cui l’attore nega il “concetto” nell’arte. La vertigine di questo efficacissimo monologo, dunque, è proprio nella sua paradossale meta-teatralità concettuale: per quanto giochi con il grottesco, con il popolare, con il comico, Cosentino demistifica l’apparato ideologico della performance, assumendone però, nella parodia, i connotati e le strutture. L’esito, si sarà intuito, è divertentissimo, di sublime arguzia, con guizzi di genialità. E chissà, probabilmente divertirebbe anche la stessa Abramovic.
Una nota merita un altro monologo visto, pochi giorni fa, sempre nel piccolo e vivacissimo spazio del Teatro Argot. Sto parlando di Interruzioni Volontarie, scritto diretto e interpretato dalla brava Claudia Salvatore.
È un piccolo lavoro, ancora in divenire, ancora smaccatamente acerbo. Eppure svela il talento della Salvatore: un racconto tra autobiografia e denuncia, che mette assieme testi originali con passi di Sarah Kane o Foster Wallace. Circondata solo da scatoloni, con su scritte emblematiche che sono tracce di vita precaria, la protagonista di questo affondo nell’io evoca continuamente possibilità incompiute di una esistenza disagevole, del viaggio personale (e forse generazionale) di chi gira a vuoto, di chi combatte nella faticosa ricerca di una identità, di un senso, in un eterno ricominciare che è segno innegabile della inconsistenza di questi anni bui. Nulla si radica, sembra dire la Salvatore, nulla cresce. Allora non resta che quella intimità, candida e fragile che è nicchia sentimentale in cui rifugiarsi per scappare alla vita. Il monologo, però, ha qualche magagna drammaturgica e rischia di rimanere troppo sul vago, di non affondare veramente nelle viscere e nei meandri di quell’oscurità pure evoca. E sebbene risenta forse troppo di una estetica e di una struttura alla Ricci/Forte, con cui la giovane attrice ha lavorato e lavora, Interruzioni volontarie fa ben sperare per il futuro. Aspettiamo Claudia Salvatore a nuove, e più complesse, prove.
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