Arte
L’antica furia delle religioni contro chi vuole disegnare Dio
“Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra”. É alla trasmissione dei comandamenti a Mosè, contenuta nel libro dell’Esodo e ripetuta del Deuteronomio, che risale la più antica attestazione scritturale (IV/V secolo A.C.) della proibizione di realizzare immagini ispirate al culto della divinità e alla mimesi della creazione. L’avversione per la rappresentazione di dio, che in relazione alle vicende storiche sviluppatesi nell’Impero Bizantino nel secolo VIII e IX Dopo Cristo chiamiamoiconoclastia o iconoclasmo, ha dunque non meno di duemilacinquecento anni di storia ed è profondamente radicata nelle tre religioni abramitiche (che cioè rivendicano l’appartenenza del patriarca Abramo alla loro tradizione): Cristianesimo, Ebraismo, Islam.
Se i recenti fatti di cronaca, unitamente alla violenta intolleranza verso la satira, hanno fatto riemergere prepotentemente il tema dell’iconoclastia che contraddistingue il fondamentalismo islamico, uno sguardo retrospettivo di lungo o lunghissimo periodo può aiutare allora a delineare i rapporti complessi tra religione, politica e il fenomeno della distruzione delle immagini che rappresentano la divinità. Chi ricorda la demolizione dei Buddha di Bamiyan da parte dei Talebani nel marzo 2001 sa che la satira è solo una piccola parte di una questione.
Nei tre monoteismi la distruzione delle immagini è strettamente connessa al problema dell’idolatria. Tanto l’Ebraismo quanto il Cristianesimo e l’Islam si sono affermati in contesti connotati ancora da una fortissima resistenza del politeismo e alla necessità di eradicare le forme considerate “devianti” della religiosità popolare. Quelle cioè che, all’intersezione con la devozione individuale e privata, tanto più sfuggente a un controllo dall’alto, continuavano a alimentare un culto che potremmo definire “oggettuale”, perché riferito a sculture, icone, prodotti di artigianato che alla rappresentazione della divinità assegnavano significati di volta taumaturgici, scaramantici, apotropaici, di mediazione con la divinità o addirittura teurgici (ossia in grado di dare temporaneamente agli uomini i poteri dei dio). “Gli idoli sono come uno spauracchio in un campo di cocomeri, non sanno parlare, bisogna portarli, perché non camminano. Non temeteli, perché non fanno alcun male, come non è loro potere fare il bene”, si legge nel libro di Geremia, che si riferisce a fatti avvenuti in Giudea nel 600 A.C., e che però quanto a redazione definitiva dovrebbe risalire a un’epoca non lontana da Esodo e Deuteronomio.
Se è vero che il Cristianesimo delle origini, così come il Giudaismo da cui deriva, ci hanno lasciato più di un episodio artistico legato alla raffigurazione di episodi neo e veterotestamentari, o all’evocazione di Cristo attraverso simboli (il pesce, il buon pastore, Giona nel ventre della balena, ricorrenti nei dipinti presenti nelle catacombe), la rappresentazione di Dio continua a costituire un tabù. Lo era per San Paolo, che negli Atti degli Apostoli pronuncia nell’Areòpago di Atene un discorso che è a fondamento teologico dell’incongruenza tra la realtà di Dio e le immagini prodotte dall’uomo. “Il Dio che ha fatto il mondo e tutte le cose che sono in esso, essendo Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo; e non è servito dalle mani dell’uomo, come se avesse bisogno di qualcosa; lui, che dà a tutti la vita, il respiro e ogni cosa. […] Difatti, in lui viviamo, ci muoviamo, e siamo, come anche alcuni vostri poeti hanno detto: “Poiché siamo anche sua discendenza”. Essendo dunque discendenza di Dio, non dobbiamo credere che la divinità sia simile a oro, ad argento, o a pietra scolpita dall’arte e dall’immaginazione umana”.
Si tratta di un passo molto importante, perché in Paolo convergono la tradizione giudaica e la lezione della filosofia greca, in particolare platonica, che guarda con sospetto alla possibilità dell’arte di imitare e riprodurre il reale e considera tutto il mondo fisico in definitiva ingannevole, nient’altro che “ombre di ombre”. In secondo luogo, è annotandosi la posizione di Paolo, di cui i riformatori, sulla falsariga di Lutero, furono lettori attentissimi (pur con la “mediazione” di Agostino), che possiamo cogliere i semi dell’iconoclastia sviluppatasi in parte del mondo protestante quindici secoli dopo.
Con il consolidarsi del Cristianesimo come religione di Stato del Tardo Impero, ebbe ampia diffusione la “Tradizione Apostolica”, un trattato liturgico attribuito ad Ippolito di Roma e risalente al III secolo D.C. Nel testo vengono definiti i precetti per la vita del buon fedele. È in tal senso proibito l’esercizio di alcune professioni, tra cui quelle di pittore e sculture, equiparate alla fabbricazione di idoli. Un’assimilazione particolarmente significativa perché riecheggiata dall’Islam delle origini, in seguito alla sedimentazione della predicazione di Maometto nel Corano (ma con accenni fugaci) e soprattutto negli Ahadith, gli aneddoti in cui compaiono i discorsi ai discepoli e altri episodi della vita del profeta, appartenenti alla Sunna, il complesso degli atti e dei detti che costituiscono letteralmente il codice di comportamento dell’Islam. La priorità del Corano è legata al suo carattere di fonte primaria, mentre gli aneddoti della Summa sono stati tramandati secondo una catena di testimoni che sono di fatto i garanti della loro autenticità, e vengono classificati proprio in ragione alla loro attendibilità. Si tratta dunque di una tradizione che è stata codificata in forma scritta in tempi più recenti, ma ai fini della Sharia, la legge islamica, è altrettanto importante.
I due detti di Maometto che sono a fondamento della proibizione nell’Islam di rappresentare Allah e la realtà suonano così: “Nel giorno del Giudizio agli artisti potrebbe essere chiesto di ricreare le loro opere; e non riuscendoci saranno puniti severamente”; “quelli che saranno puniti più severamente da Dio nel giorno del Giudizio saranno i pittori e gli scultori”. Chi però conosca la Moschea degli Ommayyadi di Damasco, o quella della Roccia di Gerusalemme sa che il mondo arabo ha anche conosciuto una grande stagione figurativa. Poi, progressivamente, l’astrazione e la calligrafia si affermarono in sostituzione dell’immagine della divinità. Più che di una stagione di iconoclastia, come quella che avrebbe di lì a poco segnato l’Impero d’Oriente, dovremmo parlare di irrappresentabilità, ancora nel solco della tradizione del monoteismo abramico e in stretta connessione con la lotta all’idolatria (e infatti non applicata in antico alle arti decorative, ma limitata a quelle opere che erano destinate alla preghiera e ai luoghi di culto).
La cultura iconografica dell’Islam si fonda invece sulla scrittura: il nome di Allah ricorre ovunque: sui manoscritti miniati così come sulle lastre tombali, sui cassoni come sugli oggetti di oreficeria. Ed è alla base del tratto più appariscente dell’arte musulmana, l’horror vacui che spinge a ricoprire letteralmente ogni oggetto: fregi, portali, tappetti, cofanetti, calamai, pannelli lignei, scatole d’avorio, candelieri, bracieri, cenotafi, cristalli di rocca. É possibile che quest’attitudine abbia a che fare con la dimensione psicologica del deserto, l’ambiente in cui si è inizialmente diffuso l’Islam, e dunque con l’idea dell’arte come “oasi”, affollata all’inverosimile. L’artista islamico rinuncia a raffigurare Allah, ma non a rappresentarlo: la stessa insistenza di motivi geometrizzanti allude all’idea di infinito a cui l’artista tende, senza riuscire ad affermarla. É questa, tra la l’altro, la genesi concettuale dell’arabesco. Di contro, anche nell’arte profana, il realismo è sempre mimetizzato, si tratti di tessuti o pagine miniate in cui sono descritte scene di caccia o di mercato, cavalieri o dame.
La rinuncia a una forma analoga alla prospettiva di rappresentazione dello spazio, la bidimensionalità, l’assenza di modellazione dei volumi o altre evidenti alterazioni di quanto si vede garantivano la perfetta compatibilità dell’opera d’arte o del prodotto di artigianato (l’arte araba è sostanzialmente anonima, nel senso che non ci è tramandato il nome di un grande artista) ai dettami dell’ortodossia. Di fronte a critiche e sospetti, l’autore poteva pur sempre dire: “Quale realtà? Qui non c’è nulla di reale”.
Ho voluto dedicare ampio spazio agli sviluppi dell’arte islamica perché proprio lo spostamento dalla raffigurazione alla scrittura del nome di Allah fa comprendere, al di là delle interpretazioni estremiste introdotte dal fondamentalismo, che la questione delle vignette satiriche le tocca entrambi, aggiungendone una terza, quella della blasfemia. Di passaggio, voglio anche ricordare che tra le semplificazioni spesso operate in Occidente c’è quella per cui i Sunniti sono iconoclasti e i Sciiti no, legata all’enfatizzazione dell’importanza di una breve fase figurativa nell’arte seicentesca iraniana. Ancor oggi molti musulmani praticanti, dall’una e dall’altra parte, si troverebbero in difficoltà nel dire se l’arte è “haram”, proibita cioè con la forza di altri divieti, o più semplicemente contraria ai buoni costumi (e il problema, riguardano il reale, tocca anche fotografia, cinema, teatro). Occorre appunto usare come cartina di tornasole l’intento realistico. E in questo spartiacque, ci piaccia o meno, c’è qualcosa che riguarda profondamente anche la tradizione tutta occidentale del pensiero platonico, a fronte del fatto che il neoplatonismo abbia poi fatto dell’arte uno dei propri oggetti “positivi” privilegiati.
Tornando alla tradizione cristiana, è grazie all’opera di Gregorio Magno, che, alla fine del V secolo D.C., si inizia a riconsiderare il problema delle immagini sacre, rivalutandole perché in grado di trasmettere il senso delle Scritture agli illetterati. Val la pena di sottolineare che le spinte iconoclaste, contro cui lo scritto di Papa Gregorio intendeva mettere un argine, tornarono a farsi forti in epoca giustinianea, allorché si moltiplicarono le rappresentazioni di Cristo. E guarda caso, l’arte bizantina in quella fase sceglie come stilemi due elementi di forte irrealtà: la bidimensionalità e il fondo oro.
La fase della vera e propria iconoclastia è però di fatto una conseguenza della contesa giudaico-cristiana. A partire dalla fine del VI secolo D.C., nel mondo ebraico si cominciarono a coprire o deturpare le immagini presenti nelle sinagoghe. Pochi decenni dopo, a Costantinopoli, dopo la pubblicazione di tre lettere vergate dal patriarca Germano, si introdusse l’argomento della incircoscrivibilità di Dio (ossia del suo essere senza limiti designabili), e dunque dell’impossibilità di rappresentarlo. Di contro, si diceva che una raffigurazione poteva servire a rendere più comprensibile la completezza dell’umanità di Cristo. Questa prima distinzione è alla base delle dispute teologiche che segnarono i due secoli successivi, dei molteplici sinodi e concili, editti e vere e proprie guerre, così come è germinale di molte delle eresie che si svilupparono a partire da essa, o che ripresero forza alla luce dei nuovi termini di dibattito. Non dimentichiamo che l’Impero d’Oriente era di fatto una teocrazia, nonostante la compresenza di imperatore e patriarca. E quando nel 730 D.C. Leone III abbracciò pubblicamente l’iconoclastiadurante un’adunanza religiosa, a Germano non restò che rassegnare le proprie dimissioni, perché una divergenza tra le due autorità era incompatibile con l’importanza di questi temi. Cominciò allora la fase della vera e propria distruzione delle pitture monumentali e delle icone portatili. Dall’altra parte, è allora che la croce, simbolo non figurativo, finisce per occupare un posto centrale nel culto, anche se forse oggi a nessuno verrebbe in mente che in essa è contenuta una cifra d’astrazione rispetto alla rappresentazione del sacro.
Per rendere conto esaustivamente delle vicende che videro in alcune fasi l’esercito opporsi addirittura all’imperatore e, in Occidente, Carlo Magno proibire a sua volta la venerazione delle immagini, in sintonia con i vescovi francesi e con il sentire di buona parte del pensiero monastico, occorrerebbe uno spazio ancor più ampio di questo. Possiamo limitarci a dire che la fine definitiva della fase iconoclasta arrivò solo nell’843 D.C., con la proibizione della distruzione delle rappresentazioni sacre da parte di Papa Gregorio IV. Sotto il profilo squisitamente culturale la sconfitta dell’iconoclastia segnò anche il definitivo tramonto in Occidente delle dottrine platoniche, e una separazione netta tra i due mondi, l’uno ancorato al dialogo/conflitto tra le religioni abramitiche, l’altro in cui al platonismo andavano sostituendosi la filosofia aristotelica, che avrebbero fornito le basi per lo sviluppo del pensiero cristiano nel Medioevo.
Sarà proprio nel cuore dell’Occidente cristiano che l’iconoclastia riesploderà, non già con le eresie medioevali (anche se l’Hussitismo ha per breve tratto calvalcato la causa delle distruzione delle opere d’arte) e con il Luteranesimo (Lutero apprezzava anzi la pittura, fece del pittore Cranach il proprio comunicatore e fondò sulla riproduzione a stampa-dunque su di un’innovazione tecnologica fortemente legata alle immagini-la propria rivoluzione) ma con l’azione di Calvino, Carlostadio e Zwingli, che convertirono alla Riforma Svizzera, parte della Francia, Paesi Bassi, alcuni principati tedeschi, Scozia e Ungheria. Basandosi ancora una volta sui passi veterotestamentari di Esodo e Deuteronomio, i riformatori avviarono la rimozione e distruzione su larga scala di dipinti, statue, reliquie, ancor prima che venisse fissata la proibizione della rappresentazione artistica di Cristo. Gli edifici religiosi di Zurigo (dove predicava Zwingli), Ginevra (territorio dell’azione originaria di Calvino), Copenaghen, Augusta, ma anche di città francesi come Rouen e La Rochelle, vennero saccheggiati. Intere chiese e complessi monastici furono distrutti, assieme alle loro decorazioni, tra il terzo e il sesto decennio del sedicesimo secolo. Particolarmente cruenta fu la cosiddetta “Beeldenstorm”, la campagna iconoclasta avviata nelle Fiandre dal predicatoreSebastiaan Matte, a partire dal 1566.
Il furore iconoclasta nel Nord Europa produsse, come contrappeso, un irrigidimento della libertà figurativa anche nei territori rimasti cattolici. Con il Concilio di Trentofurono introdotte limitazioni molto forti nella rappresentazioni religiose, con raccomandazioni sempre più stringenti di evitare l’eccessivo naturalismo e l’eccesso di particolari descrittivi. Queste prescrizioni furono codificate da un’ampia trattatistica, che ha forse il suo testo più rappresentativo nel “Discorso intorno alle imagini sacre”(1582) di Gabriele Paleotti, cardinale e arcivescovo di Bologna. La Chiesa di Roma è insomma attraversata da una forma di iconoclastia più sottile e sofisticata rispetto a quella del mondo protestante, ma altrettanto pervasiva: è il terrore delle forme nuove, l’idea che l’arte religiosa debba intraprendere un lungo, doloroso percorso che porti a cancellare l’aspetto creativo, facendo diventare la pittura non più un fatto di libera creazione, intuitivo e dunque in qualche maniera anche spirituale, ma una rappresentazione puramente meccanico-materiale. L’aspetto di novità delle spinte controriformistiche è che le misure restrittive che riguardavano la figurazione non toccavano tanto gli “idoli”, ossia gli oggetti di devozione privata, quanto la pittura di storia, ossia i grandi cicli di affreschi che costituivano la “bibbia visiva” a portata della capacità di lettura dei fedeli: è quello il linguaggio che si intendeva rigidamente codificare. Caravaggio, che per primo proverà a violare quel sistema chiuso, riportando la pittura dalla parte del naturalismo, e inventandosi una modalità inedita di rappresentazione del fatto sacro, pagherà la sua imprudenza con il rifiuto di buona parte delle sue opere pubbliche.
Se la distruzione delle immagini ha accompagnato la storia d’Europa sino alle soglie dell’età contemporanea (non dimentichiamo i numerosi episodi che hanno in tal senso caratterizzato le guerre di religione nel corso del XVII secolo) una trattazione organica della questione dell’iconoclastia non può non dedicare un’appendice ai fenomeni didamnatio memoriae, ossia la rimozione di elementi simbolici e figurativi distintivi del periodo di dominio di un determinato individuo o regime. Il motivo è semplice: la compenetrazione tra potere politico e religioso è tale che sino alla Rivoluzione Francese le due cose sono inestricabili, e anzi l’iconoclastia “politica” è per certi versi più antica di quella religiosa, se è vero che le effigi di faraoni egizi venivano distrutte già prima di Cristo, soprattutto se il regnante moriva in odore di blasfemia o eresia (pensiamo ai casi di imperatori come Eliogabalo o Domiziano). Con la Rivoluzione Francese, a essere distrutti furono i simboli dell’ancién regime, che, pur nel quadro delle libertà gallicane e dell’autonomia dello Corona francese dalla Chiesa di Roma, manteneva comunque una legittimazione religiosa. Così è stato in fondo anche all’epoca dell’abbattimento dei monumenti di epoca zarista durante la Rivoluzione d’Ottobre. Per un episodio di iconoclastia completamente scorporato dall’elemento religioso dobbiamo arrivare probabilmente al 1989, quando i simboli del Regime Sovietico vennero distrutti in buona parte dell’Est Europa. A principio del terzo millennio però, con la distruzione dei Buddha di Bamiyan, elemento religioso e politico tornano a confondersi.
Che dire infine della statua di Saddam Hussein abbattuta nel 2003 dopo l’invasione dell’Iraq da parte degli Americani? Segnava sì la fine del regime, ma anche dell’egemonia del Partito Ba’th, e dunque di una dittatura laica. Possiamo dire dunque con sicurezza che in quel gesto non sopravviva qualcosa dell’antica ostilità verso gli idoli? E che cos’è in fondo una dittatura se non una l’imposizione di una rappresentazione del reale?
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