Arte

La traccia panellenica di Cursaro nella suggestione del segno ultramoderno

7 Giugno 2023

L’arte contemporanea, spesso, anche nei casi descritti come eclatanti originalità, si presenta ripetitiva e rimanda al “già visto”, in linea con il “già detto” o  con il “già scritto” dei curatori, che hanno la pretesa di proporre percorsi pittorici “innovativi”, termine che personalmente detesto, non fosse altro per il fatto che ritengo l’opera d’arte una testimonianza significativa e tangibile dell’intera storia dell’umanità, dai primordi fino al momento in cui viene concepita l’opera stessa. Ecco perché la ricerca che parte dalla tradizione culturale, storica e popolare, come quella complessa e avvincente di Enzo Cursaro – un pittore di cui conosco per forza di cose il percorso artistico e di vita, avendo avuto l’opportunità di osservarne l’opera e la possibilità di scambiare con lui confidenze e pareri inerenti ai processi creativi – mi risulta particolarmente densa di contenuti, avvolta com’è in un segno estetico di rara grazia e profondità. La dimensione partecipativa dell’ultimo segmento esplorativo di questo artista ha del sensazionale: in esso scorre l’armonia quotidiana e l’impronta architettonica di un’antichità di cui l’autore si rende pienamente edotto, fino a raffigurarla in una straordinaria sintesi, concepita da una sorta di segno omerico su cui soffia delicatamente la macchia impressionista, a rappresentare la geometria esistenziale del luogo da cui egli proviene: Paestum!

Il luogo della Grecia tirrenica che gli ha dato le origini viene, così, a riassumersi all’interno di uno spazio mentale, tracciato da un’elaborazione segnica mai banale, ricercata e finissima, dove la compiutezza del monumento, o del reperto, assume i suoi contorni risolutivi nell’immaginazione di chi guarda l’opera. E voilà, ci si trova in men che un attimo di fronte a un’arte che non pone fraintendimenti, tanto è chiara ed esaustiva nel suo concetto di giusta misura, che non si prolunga oltre il necessario, come se la tela fosse la propaggine di un santuario dorico, dove osservare un rituale artistico non è diverso dall’osservarne uno religioso, in quanto la creazione diventa devozione, oltre che mera esigenza dell’animo. In Cursaro l’arte non è mai emanazione della società, non ne ricalca il rumore, o le forme di presunzione, e non aderisce idealmente al continuo e ossessivo divenire che ne detta le mode e i capricci. La sua ricerca è un prospetto di condivisione, attraverso il quale si accede alla riflessione sulla bellezza che va ben al di là dall’essere considerata semplice forma decorativa.
In connessione con il tentativo del recupero dell’elemento connaturato da un fattore storico e in contrasto con i manierismi di un modernismo alla ricerca forzata del sensazionale, l’astrattismo lirico di Cursaro passa attraverso un’incantata rilettura del passato, per assumere una conformazione sperimentale ben definita, risultando il prodotto di una concezione eminentemente contemporanea dell’arte immaginaria e incorporea.

Nella sua produzione di “anfore”, infine, l’artista dà luogo a un’originale estetica della citazione: il richiamo ad Assteas, importante ceramografo poseidoniate, e Python, suo allievo, vissuti nel IV sec. a. C., è dato da linee ondeggianti e flessuose che si intersecano in sequenza, tra cui si snoda il racconto pittorico di un oggetto quotidiano del mondo greco, che, oltre all’uso comune, assurgeva, nella sua versione decorata, a un ruolo che oltrepassava la funzione di manufatto, diventando materia su cui venivano divulgate scene mitiche, tratte dalle commedie classiche. Il flusso veloce del segno arcaico evidenzia l’immediatezza con la quale l’artista coglie il senso del tempo che lega il presente alla memoria, dove la natura profonda dell’oggetto stesso diventa reliquia. E qui sembra che il luogo antico si riveli al pittore nel suo aspetto intimistico, mostrando l’umore, i segreti che l’avvolgono e finanche la percezione delle presenze, nello spazio della pura suggestione.

 

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