Arte

La sfida del Morazzone tra Milano e Genova

22 Febbraio 2018

La chiesa di San Raffaele è in assoluto tra le meno conosciute dai Milanesi. Eppure è uno degli edifici religiosi più antichi della città, uno dei pochi punti di riferimento che ancora oggi ci consentono di ricostruire la topografia del centro di Milano prima del Mille. Era infatti una delle sei chiese minori che sorgevano attorno al Duomo, eretta al tempo dell’arcivescovo Angilberto II, nella prima metà del nono secolo. L’unica che è sopravvissuta, insieme a san Gottardo in Corte e ai resti interrati davanti alla cattedrale del battistero di San Giovanni alle Fonti. Le forme attuali dell’edificio sono quelle legate al rinnovamento voluto da Carlo Borromeo nel 1582, e sembra essere legato all’intervento dell’architetto genovese Galeazzo Alessi, lo stesso che costruì Palazzo Marino, con forse un contributo anche di Pellegrino Tibaldi, che a poche centinai di metri aveva diretto la fabbrica di San Fedele. Oggi San Raffaele è incastonata tra la mole della Rinascente e altri palazzi. L’interno è singolarmente disadorno, ma a fianco dell’altare due grandi teleri immersi nell’ombra segnano un momento di confronto serrato tra i pittori che con Giulio Cesare Procaccini guidano il rinnovamento della pittura milanese nel passaggio dal tardo manierismo al barocco: Giovan Battista Crespi, detto il Cerano, e Pier Francesco Mazzucchelli, detto il Morazzone. Questi due “milanesi dell’ovest”, i cui nomi artistici sono entrambi legati ai paesi di provenienza (Cerano è un paese della piana novarese, Morazzone è prossima a Varese), si misurano nell’occasione su due temi biblici rari. Il Cerano sceglie la “Disobbedienza di Giona” (o la rottura del digiuno), dal primo libro di Samuele, in cui si racconta della ribellione del profeta che avrebbe voluto la distruzione di Ninive, in uno stile sontuoso che ricorda i quadroni del Duomo, ed è anzi se possibile ancor più avanzato sul piano della teatralità.

Giovanni Battista Crespi detto il Cerano, “Disobbedienza di Gionata”, Milano, San Raffaele, olio su tela.

Morazzone risponde con un colpo da campione assoluto, raffigurando l’episodio del “Sogno di Elia”, in cui l’angelo, come si narra nel libro dei Re, sveglia il profeta e lo invita a mangiare, per recuperare le forze dopo la fuga nel deserto in seguito alla strage dei seguaci di Baal. Lìuno e l’altro tema  contengono probabilmente un allusione eucaristica. Morazzone, che è dei pittori milanesi dell’epoca quello di più consistente formazione disegnativa, e che è stato profondamente segnato dal momento d’oro dell’alta maniera durante la giovinezza trascorsa a Roma (la sua famiglia vi si trasferì nel 1593), s’innalza qui a un’impaginazione in cui mette in atto la sua formidabile capacità di rendere il movimento nelle scene di storia con inimitabile fluidità gestuale, quasi fosse una danza immobile, ed esibisce la profondità vertiginosa delle sue ombre e una qualità senza pari nella minuziosa attenzione nella resa di capigliature, stoffe, tessuti.

Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, “Elia e l’angelo”, Milano, San Raffaele, olio su tela.

Se la scuola del Caravaggio aveva prodotto una profonda discontinuità nella tradizione accademica della composizione delle scene di storia, rappresentando l’azione come attraverso un flash fotografico, Morazzone invece insiste su di una tecnica altamente virtuosistica, che trova uno degli episodi più spettacolari nel dipinto della “Lotta tra Giacobbe e l’Angelo” che sta ora ai chiostri di Sant’Eustorgio, nelle raccolte del Museo Diocesano, unitamente al bozzetto del telero per San Raffaele. Questa scena, che parrebbe ricavata dall’osservazione dal vero di due lottatori, ed è invece frutto dell’altissimo magistero del disegno, sembra recuperare le posture ritorte e le anatomie in forte evidenza di pittori legati ancora alla Maniera, ma gravitanti stavolta nel Nord Italia, come il Pordenone. Anche la tavolozza si allontana dalle cromie romane. Morazzone, che aveva per molti versi compiuto al contrario il percorso esistenziale del Caravaggio, dovendosi allontanare da Roma per un litigio avvenuto a causa di una o più donne, in cui aveva ferito un uomo, aveva in precedenza, negli anni decisivi per la sua formazione, gravitato a sua volta nell’ambiente artistico del Cavalier d’Arpino, nella cui bottega-allora la più importante dell’Urbe- era transitato anche il Merisi. La messa a punto di uno stile eclettico, funzionale all’assunzione di impegni che richiedevano grande flessibilità esecutiva, capacità di adattarsi agli orientamenti della committenza e di assecondare con la propria personalità e cifra la tensione del lavoro di team, gli schiusero al ritorno al Nord la possibilità di essere ingaggiato non solo nella squadra di pittori che lavorava ai quadroni del Duomo, ma anche tra coloro che decorarono le cappelle del Sacro Monte di Varallo e Varese. A questi incarichi si aggiunsero quelli, estremamente impegnativi e gratificanti, per il Duomo di Como, la cappella di San Giorgio nel santuario di Rho, sino alla commissione che segnerà il punto massimo del suo astro, quella per la cappella della Buona Morte in San Gaudenzio a Novara, dove produrrà quello che Giovanni Testori nel 1959 definì “uno dei raggiungimenti più sconcertanti, inauditi e propulsori”.

 

Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, “Lotta tra Giacobbe e l’angelo”, Milano, Museo Diocesano, olio su tela.

Attorno a questi stessi anni si colloca l’elaborazione iconografica e la realizzazione di una delle imprese milanesi più significative a cavallo tra il secondo e il terzo decennio, il celebre “quadro delle tre mani” oggi alla Pinacoteca di Brera. La tela (nella foto di copertina di questo pezzo) raffigura il “Martirio delle sante Rufina e Seconda” e venne commissionata dal collezionista Scipione Toso, con lo scopo di mettere direttamente a confronto Procaccini, Morazzone e Cerano, quasi fosse una competizione destinata a chiarire chi prevalesse sugli altri due. Questa formidabile istantanea dell’arte milanese, in un momento storico in cui Cerano era al vertice dell’Accademia Ambrosiana fondata da Federico Borromeo, vede il Mazzucchelli realizzare la parte centrale, quella in cui il carnefice brandisce la spada. Dipinti nello stile della sua maniera sono anche l’angelo che reca la palma e il paggio. Il cavaliere invece è del Cerano, così come la santa Seconda decapitata, il cane in basso a sinistra e l’altro angelo. Procaccini dipinge la santa Rufina che sta sulla destra, e viene confortata dall’angelo. Morazzone esibisce qui le contorsioni e i contrasti luministici tipici del suo revival manierista, Cerano indulge nell’inclinazione macabra e di facile naturalismo del suo modo didascalico e Procaccini sembra piegarsi a una versione pietistica e sentimentale di uno stile che raramente sembra altrettanto appiattito sull’ortodossia controriformista. Se non ci fosse l’intervento del Morazzone, che accende di dinamismo la composizione, il quadro si esaurirebbe in una giustapposizione un po’ inerte che produce un effetto di horror vacui.

Cosa avrebbe potuto essere questo patchwork di stili apparentemente tangenti ma nella sostanza difficilmente comprimibili, lo mostra un altro dipinto del Museo Diocesano, quella “Strage degli Innocenti” che il Morazzone pubblica nel 1620 circa e che stressa all’inverosimile l’azione in una composizione concitata e finanche urlata, condotta attraverso il virtuosismo disegnativo di un intreccio di braccia che diventano le linee-forza e quasi i tiranti della scena. In quegli anni la risposta più originale e convinta alle meditazioni sulla verità dei testi sacri in atto che il Caravaggio aveva messo a punto nelle grandi opere pubbliche romane e nei quadri Mattei è proprio quella, che ancora la storia dell’arte stenta a riconoscere, del Mazzucchelli.

Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, “Strage degli Innocenti”, Milano, Museo Diocesano, 1620 circa, olio su tela.

Alla luce dei valori emergenti, stupisce dunque che la leadership cittadina fosse in mano saldamente al Cerano, di cui oggi apprezziamo la felicità narrativa con cui si mette a disposizione del disegno di costruzione del culto della personalità di San Carlo da parte del cardinal Federico, ma che d’all’altra parte eccede senza troppa tenuta nel grandguignolesco ante litteram. Si pensi per esempio alle carni putrescenti esibite in alcuni teleri del Duomo, come il “Miracolo di Aurelia degli Angeli” (che recupera il Caravaggio della “Cena in Emmaus”) o al “Miracolo di Beatrice Crespi guarita di un cancro alla mammella”.

Giovanni Battista Crespi detto il Cerano, “Miracolo di Aurelia degli Angeli, Milano, Duomo, 1610, olio su tela.

Difficile immaginare un esito più lontano dalla sensibilità del Morazzone, che nel 1615 aveva licenziato la “Pentecoste” ora nelle raccolte civiche del Castello Sforzesco,  realizzata per la cappella di San Giovanni Battista che esisteva all’interno del Palazzo dei Giureconsulti. Dunque una committenza civile, per il luogo dove si raccoglievano allora gli uffici pubblici. Il telero era posizionato per essere visto da sotto in su, e il Mazzucchelli immaginò una soluzione che mostrava il suo dominio assoluto degli effetti prospettici e scenografici, con le figure di Maria e gli apostoli in scorcio vertiginoso, quasi da quadraturista, per una lettura barocca dei valori spaziali che a Milano era assolutamente nuova. La catena umana che corre tra le figure è una sorta di corna che corre circolarmente intorno ai bordi di uno spazio da cui irradia la luce divina, che viene rappresentata con una soluzione di rigorosa astrazione formale.

Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, “Pentecoste”, Milano, Civiche Raccolte del Castello Sforzesco, 1615, olio su tela.

I tre, Procaccini, Morazzone e Cerano, tornano idealmente a incrociare i pennelli nella collezione genovese di Giovan Carlo Doria, dove figurano una serie di decollazioni del Battista, tema evidentemente congeniale al committente patrizio, oltre che frequentato tanto dai Caravaggisti quanto dalla scuola milanese cresciuta nell’ambito accademico e di committenza che gravitava attorno al cardinal Federico. Negli inventari della famiglia Doria del 1641 sono due i dipinti con questo titolo riferiti al Morazzone, e con tutta probabilità uno è l’olio ora esposto nelle raccolte di Palazzo Bianco. La tela proviene dalla collezioni ospedaliere e solo dopo il passaggio ai Musei di Strada Nuova è stata riconsiderata. Portava infatti una generica attribuzione alla scuola francese e solo nel 1979 è stata riferita al Morazzone da Mara Borzone. Jacopo Stoppa nella sua monografia sul Mazzucchelli, che è del 2003, data il dipinto ai primi anni del secondo decennio, accostandolo alle “Nozze di Cana” dipinte per la chiesa comasca di Sant’Agostino. Non mancano però i richiami allo stesso telero di San Raffaele. Uno dei dati stilistici inconfutabili del dipinto è lo studio luministico, tra ombre molto profonde e lumi interni che trascorrono su vassoi, scudi, corporature. La “Decollazione del Battista” rende in tal senso piena giustizia a Giulio Cesare Gigli, che nel 1615 scrive dello stile del Morazzone: “Vita de l’ombre et anima de’ lumi”.

Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, Decollazione di San Giovanni Battista”, Genova, Musei di Strada Nuova, Palazzo Bianco, 1612-1613, olio su tela, 112×82,5 cm.

Val però la pena di soffermarsi ancora un attimo sulla profondità orizzontale della collezione di Giovan Carlo Doria. Se la redazione del Cerano insiste sui suoi stilemi, quella di Giulio Cesare, che nella mostra “L’ultimo Caravaggio. Eredi e maestri” alle Gallerie d’Italia è messa direttamente a confronto con quella del Morazzone, diventa occasione per l’esibizione di una teatralità trattenuta, una sorta di barocco composto sognato al lume della grazia di Parmigianino, per la definizione di una cifra di successo che diventerà poi il modo dell’artista che meglio comprenderà la lezione del Procaccini, Valerio Castello.

Giulio Cesare Procaccini, “Decollazione del Battista”, Collezione privata, 1608-1610, olio su tela, 244×178 cm.

 

 

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