
Arte
La fragilità preziosa di Vittorio Sgarbi
Non pensavo di scrivere queste righe per il mio carissimo Vittorio Sgarbi, amico cui sono devoto per un’intesa intellettuale che in questi anni si è dispiegata in colloqui e scritti pubblicati tra l’altro sulla sua pagina Facebook, con mia soddisfazione ed onore.
Vittorio è generoso: se coglie una peculiarità nel suo interlocutore, la coltiva come un fiore, l’accarezza con amorevole cura; ama la bellezza e la percepisce, come diceva Pasolini, anche per la strada.
Lui ha con l’arte una relazione che lo pone nella condizione di spingersi verso l’Assoluto: un quadro, una scultura impregnano lo Spirito che si diffonde in mezzo a noi, come lui dice, come se vedessimo Dio, come se fossimo nella scia luminosa delle stelle, come se carpissimo l’indorarsi fulmineo del cielo.
In questi anni ho discusso di Hegel, di Croce, di Nietzsche con il caro Vittorio e nel commentare i suoi pregevoli libri, soprattutto quelli della triade – Raffaello, Michelangelo e Leonardo- ho compreso come per lui l’Arte sia uno strumento per stare oltre il davanzale dell’orizzonte.
Ecco, è pressoché difficile spiegare quell’erotico -nel senso platonico del termine- legame che Vittorio ha con l’Arte: scrisse una volta che i suoi soldi non gli sono serviti per comprare appartamenti, investirli in azioni, ma solo per possedere quadri, perché in ognuno di essi, in quelle tele, si invola la rarefazione del Numinoso.
Vittorio è per me anche un paladino della giustizia giusta: è il figlio di Francesco Cossiga, perché ha il coraggio indomito di criticare aspramente i Magistrati quando seguono supini la furia della moltitudine, come diceva Manzoni nella “Storia della Colonna Infame”.
E sbagliano clamorosamente senza pagare per i propri errori: distruggono patrimoni e conculcano la libertà dei consociati.
Ma oggi Vittorio è fragile, ha gli occhi appassiti, la voce fioca, lo ha rappreso la malinconia: è un saturnino, per dirla con Eugenio Borgna.
Si rabbuia, si pone, si raggomitola in un angolo ed il suo pensiero valica, si incunea in sentieri tortuosi e sconosciuti; sente il pudore di scomparire, di cercare il nascondimento, avverte il buio dell’esistenza ricolma di silenzio e di mistero; il giorno diventa stretto, il varco si stringe, la porta si chiude.
Sabrina Colle e la di lui sorella Elisabetta porgono come lui riconoscente afferma “affetto materno” e Vittorio trova un po’ di pace.
Ma Vittorio, come i fragili, è prezioso e sontuoso.
I fragili sono delicatissimi: hanno sì la coscienza infelice e tormentata, ma hanno una predisposizione a cercare il sorriso di Dio.
Sono come l’ortensia che vuole resistere all’intemperie, per colorare d’azzurro la malinconia; sono come la farfalla che volteggia nel cielo nella tiepida sera e cerca l’indirizzo di un fiore, come l’inesauribile torcia che non lascerà mai oscurare il desiderio, seppur lontano, di vivere ancora.
I fragili hanno un fascino misterioso e rutilante, attraggono più dei forti, degli onnipotenti: il potente non ha bisogno d’amore, mentre il fragile è scomposto, anela il frammento, il tassello che compie il mosaico, traccia la linea luminosa della vita, giacché ha una luce interna che lo farà uscire dalla penombra rarefatta e tremolante.
I fragili hanno, come diceva Leopardi, la voglia di vivere ancora nella natura matrigna:
la lenta ginestra manda un dolcissimo profumo
che il deserto consola,
“Che di selve odorate queste
campagne dispogliate adorni”.
Hanno una forza interna, misteriosa, la sopportazione oscura, paziente che dà dignità al loro pianto che cerca amore, relazione, ascolto, comunicazione, la parola come ponte.
I fragili sono sottili, acuti ed entrano nella cruna dell’ago.
E sarà così anche per il mio carissimo Vittorio.
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