Arte
La donna barbie è ancora in voga
“Which is the rector now, is it that man in black?
Which is the midwife, is that her blue coat?
Everybody is nodding a square blach head, they are
Knights in visors,
Breastplates of cheescloth knotted under the armpits.
Their smiles and their voice are changing. I am led
through a beanfield”
Quanto è difficile superare uno stereotipo? Quanto una donna in una società che suole dirsi emancipata paga ancora il prezzo della sua libertà e della sua onestà intellettuale. Quanto tempo ancora bisognerà aspettare e spendere nell’educazione per formare uomini in grado di guardare una donna in viso e giudicarla per il suo operato, invece che guardare la sua fisicità e ridurla a misura dei suoi desideri?
Quando smetterà di guardarla dal buco della serratura come accadeva nei film di Pierino, e avrà il coraggio di parlarle considerandola all’altezza della sua intelligenza?
Tra un po’ si celebrerà la festa delle donne, uno dei tanti rituali vuoti e senza senso. Si ricorderà le operaie morte in una fabbrica a cui viene appiccato il fuoco in seguito allo sciopero proclamato per protestare contro le condizioni in cui erano costrette a lavorare. Anche oggi si muore sul luogo di lavoro, uccidiamo una donna ogni volta che le facciamo sentire il peso della propria mascolinità nell’approcciarla fisicamente, ogni volta che la mettiamo alle strette impedendole di scegliersi la propria vita, condizionandola, volendola plasmare secondo i propri gusti e smanie, ogni volta che per ritorsione la mettiamo alla berlina, diffondendo di lei l’immagine distorta che ci siamo costruiti, un’immagine preconfezionata che non hai mai superato il nostro stereotipo di donna oggetto. Nata per compiacere, stare zitta, assecondare, essere mossa come una pedina dei nostri giochi, una marionetta da poter giostrare semplicemente muovendo i fili.
In colazione sull’erba una donna nuda e due uomini vestiti di tutto punto stanno conversando in un prato. In Olympia una giovane donna, anch’essa nuda, ci guarda con un’espressione triste e spavalda, l’atmosfera di questi quadri è talmente enigmatica che siamo tentati dall’accogliere l’interpretazione che ne dà Foucault: quella di un Manet deliberatamente ermetico perché interessato soltanto alla dimensione puramente visiva delle sue composizioni. In realtà, i vestiti o le nudità delle persone ritratte, il loro atteggiamento, le loro posture hanno moltissimo da dire sulla mentalità dell’epoca. Quei quadri aprono squarci illuminanti per capire il senso profondo della morale borghese.
Edme François Gersaint ha la sua bottega non distante da Notre Dame. Vende quadri. Lo fa perché c’è gente che preferisce comprarseli sul mercato, invece che ordinarli appositamente come fanno il sovrano, la Chiesa, i ricchissimi signori. Ha bisogno di farsi vedere, il suo amico Antoie Watteau ha deciso di aiutarlo. Che poi, Ha deciso di dipingergli un’insegna. Che poi,in realtà, è la rappresentazione di come Edme François vorrebbe fosse la sua bottega. Aperta sula strada. Piena di opere appese alle pareti. Piena di clienti che discutono con lui su quale quadre comprare.Possiamo entrare anche noi. Anzi, siamo invitati a farlo. Possiamo curiosare alle spalle di una coppia di clienti che sta esaminando una grande pittura ovale, illustrata forse dallo stesso Gersaint; oppure avvicinarsi al bancone e unirci al gruppo al quale Marie Louise Sirois, moglie di Gersaint, mostra un’opera di piccole dimensioni, o forse uno specchio. Non sappiamo chi siano questi clienti: ma i loro abiti ci fanno capire che è gente che appartiene alla classe medio-alta, gente che ha da spendere per consumi che qualcuno potrebbe ritenere superflui: nobili proprietari terrieri, o borghesi benestanti, magari arricchiti dai traffici d’oltremare, o da qualche attività imprenditoriale, o dagli impieghi ricoperti nell’alta burocrazia degli Stati. Chiunque siano è chiaro che possono permettersi di usare una parte del loro denaro per qualcosa di più dello stretto necessario per vivere.
Ma all’opera c’è anche una conclamata strategia della distinzioni. Se si è eccezionalmente ricchi, ci si può comportare come la Chiesa e i sovrani, che da secoli fanno affrescare le pareti delle chiese e delle sale dei palazzi, o le fanno ricoprire con le tele di enormi dimensioni, opere che talora hanno anche un valore didattico, ma che servono soprattutto a rimarcare l’inarrivabile superiorità di chi li possiede.
Se si è meno clamorosamente ricchi, ci si può accontentare di andare da Gersaint, o da uno dei suoi molti colleghi, e acquistare dei quadri che, pur essendo di dimensioni più piccole, non sono necessariamente alla portata di tutte le tasche.
Si tratta d una pratica culturale che sin dall’inizio del Seicento si è diffuso in Olanda, dove un vivace mercato privato dell’arte ha favorito, le carriere di artisti di livello assolutamente eccezionale come Rembrandt, Veermer. Tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento questo nuovo tipo di mercato si diffonde anche altrove in Europa, talora incoraggiato dalla fondazione di enti pubblici come accade in Francia, dove l’istituzione dell’Accademia di pittura e scultura (1673) ha portato all’organizzazione dei Salons, ovvero esposizioni periodiche e pubbliche dei quadri di pittori riconosciuti dall’accademia. Dal 1737 l’esposizione parigina – la più importante -, che ha luogo nel Salon carré del Louvre con cadenza prima annuale poi biennale, mostra al grande pubblico la più recente produzione pittorica.
Sia in Francia che altrove, nel Settecento, continuano a esistere collezionisti che comprano direttamente i quadri presenti ai Salons, ma adesso ad acquirenti di questo tipo se ne affacciano altri che, dopo aver visitato le esposizioni, vanno dai mercanti d’arte come Gersaint per comprare opere simili a quelle che hanno visto esposte: è così che i quadri di dimensioni più piccole, meno sfarzosi e meno costosi, trovano un loro spazio di mercato.
In foto: Jean Antoine Watteau,
L’insegna di Gersaint
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