Arte
La contesa dell’ “Ecce Homo” e le sue ricadute genovesi
La pittura che verrebbe da chiamare post-manierista, che non è ancora barocca e non è mai stata caravaggista, incentrata sull’importanza del disegno come pratica accademica che presiede la composizione, e poco interessata alla riproduzione del reale, domina a Genova, Milano e in molti altri centri del Nord Italia nei primi decenni del XVII secolo, e lascia come eredità tecnica alcune conquiste fondamentali. Da un lato la pittura di tocco e l’abbozzo, consistente nel dipingere quasi disegnando, lasciando comunque anche nelle opere finite le traccia delle anatomie a vista, e dall’altro la capacità di stressare questa pratica sino a una maniera in cui tutto nel dipinto diventa linea e grafica, i corpi e i volumi sono evanescenti.
A fianco di questa produzione esiste però un curioso ibrido: un modo che non è schiettamente caravaggesco, ma che recupera temi compositivi proprio del momento di massima focalizzazione sul realismo, per rielaborarli in chiave devozionale e patetica, spesso assecondando l’interesse della committenza per questo o quel tema iconografico. Il caso per eccellenza, se si guarda a Genova, è quello della proliferazione nell’ambiente dei pittori della “Superba” di dipinti raffiguranti l’ “Ecce Homo”. Una concentrazione impressionante di quadri riferiti a questo soggetto delle storie della Passione si situa proprio negli anni che sono oggetto della mostra “L’ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri” alle Gallerie d’Italia, dove sono presenti due tele con questo tema, quella di Gioacchino Assereto e una delle numerosissime redazioni-forse la più brillante- che stanno nel catalogo di autografi di Gregorio de Ferrari, che ha frequentato il soggetto in maniera quasi ossessiva, con esiti spesso estenuati di plateale spasimo che in un altro articolo di questo blog abbiamo messo a confronto con la maniera del lombardo Francesco Del Cairo, artista caro a Giovanni Testori.
La genesi dell’interesse per l’ “Ecce Homo” va cercata in un episodio noto e perfettamente documentato, la competizione a tre voluta dal patrizio romano Massimo Massimi nel 1605, che vide coinvolti, il Caravaggio insieme al Passignano e al Cigoli, entrambi artisti toscani. Possediamo in tal senso una nota autografa dello stesso Merisi, rinvenuta nell’archivio di Palazzo Massimo nel 1987 assieme a una del Cigoli, che dice “Io Michel Ang.lo Merisi da Caravaggio mi obligo a pingere all Ill.mo Massimo Massimi per esserne statto pagato un quadro di valore e grandezza come quello ch’io gli feci dell’Incoronazione, di Cristo per il primo di Agosto 1605. Quella del Cigoli riporta: “A di marzo 1607 io Lodovico di Giambattista Cigoli o ricevuto da Nobil Sign.r Massimo Massimi scudi venticinque a buon conto di un quadro grande compagno di uno altro mano del sig.r Michelagniolo Caravaggio resto contanti scudi sopradetto Giovanni Massarelli suo servitore et in fede mia o scritto q.o dì suddetto in Roma/Io Lodovico Cigoli”. Nella più antica biografia dello stesso Cigoli, scritta nel 1628 dal nipote Giambattista, si legge: “Volendo Monsignor Massimi un Ecce Homo che gli soddisfacesse, ne commesse uno al Passignano, uno al Caravaggio et uno al Cigoli senza che l’uno sapesse dell’altro; i quali tutti tirati al fine e messi al paragone… (quello del Cigoli)…piacque più degli altri, e perciò tenutolo appresso di se Monsignore mentre stette in Roma fu di poi portato a Firenze e venduto al Severi”.
La circostanza della competizione “segreta” sembra smentita dai tempi diversi di realizzazione, mentre è sicuro che la redazione del Cigoli ebbe più successo di quella del Caravaggio. Che potrebbe essere stata realizzata per conto di un altro collezionista, forse don Juan de Leczano, che lo avrebbe portato in Sicilia e poi a Napoli, dove risulta inventariato nel 1631, corredato di un stima, come segnalava nel suo “Pictor” Maurizio Marini, di 800 scudi, molto alta per l’epoca, pari quasi a quella di una pala. Il prezzo alto potrebbe aver complicato la vendita di questo dipinto, ricomparso in un inventario del 1657, che il viceré Garcia de Avellaneda y Haro manda a Madrid, dov’è descritto così: “Mas otro quadro de un Heccehomo de zinco palmos con marco de evano con un soldado y pilato che ensena al Pueblo es original de mano de Mi Cael Caravacho”. L’iconografia è conosciuta sin da allora, anche grazie a una copia ritenuta un tempo autografa e forse legata alla produzione di Alonso Rodriguez, che sta al Museo Nazionale di Messina, e da cui deriverebbero le altre versioni siciliane (a Palermo). L’orginale è pervenuto invece come copia di Lionello Spada a Palazzo Bianco, nel 1921, e non sappiamo da quanto fosse in Liguria. Venne considerato di scarso valore e assegnato alla Scuola Navale, dove stava su una scala. Dopo i bombardamenti del 1944 fu ritrovato nelle macerie, riconsiderato e attribuito al Caravaggio, non senza un dibattito critico che non si è mai esaurito completamente (Longhi nella mostra milanese del 1951 lo espose la versione messinese come “copia cruda, ma abbastanza fedele da un’opera tarda del maestro”, riconoscendo nel Cristo un prototipo di Antonella da Messina).
Resta però il fatto che, a fronte di una tradizione che vorrebbe riconoscere nel ritratto di Pilato l’immagine del Caravaggio (che però ci appare sempre nelle sue tele radicalmente diversa) il precedente iconografico più vicino è il ritratto di Andrea Doria di Sebastiano del Piombo, che attesterebbe un qualche legame con Genova.
La presenza delle copie siciliane del dipinto potrebbe spiegarsi anche con il fatto, curiosamente da sempre trascurato dalla critica, che nel 1608, epoca del soggiorno del Caravaggio nell’isola, vescovo di Palermo era appena stato nominato il genovese Giannettino Doria, che entrò in città con grande sfarzo nel maggio del 1609, proprio a ridosso di un possibile passaggio del pittore in città per attendere alla realizzazione della “Natività dei Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi” trafugata dall’Oratorio di San Lorenzo nel luglio del 1969 e mai più ritrovata (che invece oggi, a causa di una sgrammaticata rilettura delle fonti, si vorrebbe legare a un dipinto spedito da Roma poco dopo la realizzazione della Cappella Contarelli). Giannettino rientrò a Genova nel 1611, e mantenne sempre legami con la città d’origine, il che potrebbe giustificare la presenza del dipinto in Liguria, anche se i passaggi di proprietà non sono documentati. Verrebbe così a cadere l’identificazione dell’ “Ecce Homo” di Palazzo Bianco con quello della contesa tra il Caravaggio, il Cigoli e il Passignano, e dovremmo parlare dunque almeno due dipinti del Merisi con questo soggetto (esistono diverse derivazioni in Sicilia e in Liguria, ad Arenzano, di un’altra impaginazione differente, sviluppata in senso orizzontale, con un linguaggio popolaresco che fa fortemente dubitare che si tratti di un’invenzione del Caravaggio, e che però la critica tende ad avvallare negli ultimi anni come una sua creazione, accreditando così l’idea che le redazioni possano essere tre). Secondo la tesi che qui propongo, il Merisi avrebbe dipinto l’ “Ecce Homo” a Palermo, nell’estate del 1609, prima di tornare a Roma e in parallelo alla “Natività”, omaggiando Giannettino Doria col dare a Pilato le sembianze del condottiero Andrea. Il dipinto sarebbe poi tornato in Liguria, confluendo poi, non riconosciuto, nelle raccolte civiche.
Resta un altro fatto: il successo dell’iconografia dell’ “Ecce Homo” a Genova sembra slegato alla versione del Merisi. Di contro trattiene legami più stretti, di tavolozza e impaginazione, con la redazione del Cigoli. La fortuna di questo tema della Passione dunque di fatto potrebbe essere indipendente dalla presenza, non sappiamo a partire da quando, del dipinto del Caravaggio in città, che peraltro nessuna guida o inventario segnala. E avere invece un qualche tipo di connessione con il quadro che i Massimo portarono a Firenze, dove è sempre rimasto, ma che può essere stato conosciuto attraverso copie, derivazioni, stampe. A questo proposito va segnalato un fatto che appare rivelatore: Domenico Fiasella detto il Sarzana, probabilmente il primo pittore ligure a cogliere la novità della scuola del Caravaggio durante un soggiorno romano, e a introdurla al suo ritorno in patria in tutto il Levante, dove ha operato soprattutto come autore di pale d’altare, è stato al servizio della famiglia Massimo a Roma nel 1613, dipingendo due pale per la chiesa di Santa Maria Assunta nel loro feudo di Roccasecca. Può essere stato lui il tramite per la conoscenza a Genova della composizione del Cigoli, che viene ripresa in primis da un pittore che solo da pochissimo sta avendo una sistemazione critica, dopo la mostra che gli è stata dedicata a inizio 2016 a Palazzo Nicolosio Lomellino in Strada Nuova. Si tratta di Luciano Borzone, che ci ha lasciato una redazione, in Collezione Eni, che a ben guardare sembra misteriosamente compendiare la soluzione vincitrice della contesa voluta dai Massimo e l’impaginazione del dipinto di Palazzo Bianco riferito al Caravaggio. Che Borzone, dopo secoli di sottovalutazione, sia finalmente in piena ascesa lo dimostra anche il dipinto che Alessandro Morandotti ha voluto nella mostra delle Gallerie d’Italia, una bellissima lettura del tema della “Carità Romana”, proveniente dalla collezione torinese di Giuseppe Bernardino Carpano (conosciuto per l’invenzione del Vermouth) e che è stata creduta per molto tempo del Domenichino. Borzone è, con Strozzi, un attentissimo osservatore del Caravaggio, come dimostra anche la sua “Incredulità di San Tommaso”, che riprende con grande sensibilità la tela dipinta per i Mattei ora alla Bildergalerie di Postdam.
Voglio però proporre in questa sede un altro dipinto, decisamente defilato, che mi pare, nel suo fascino corrusco, forse più interessante della redazione dell’ “Ecce Homo” delle raccolte Eni. Si tratta della redazione che appartiene al Museo dei Cappuccini di Genova, che conferma l’esistenza di una via al realismo anche in una città immersa in un clima artistico tendente a una maniera fastosa e straordinariamente brillante.
Più convenzionale è un’altra versione, quella del voltrese Andrea Ansaldo, particolarmente interessante per capire poi quale sarà l’approccio a questo soggetto di Gioacchino Assereto, che fu allievo prima di Borzone e poi proprio dell’Ansaldo. Borzone, Assereto, Strozzi sono tra i frequentatori dell’accademia del disegno che si teneva nel palazzo di Giovan Carlo Doria, ed è forse nella collezione di questi che andrebbe cercato l’esempio che è stato guardato poi con tanta attenzione da tutta la scuola pittorica locale. Nel 2016, per una rassegna intitolata “Uomini e dei, Il Seicento genovese dei collezionisti”, l’ “Ecce Homo” di Ansaldo è stato esposto in un confronto a quattro con quelli di Assereto, Valerio Castello e Orazio De Ferrari. Il dipinto in questione, che è passato in asta pochissimo anni fa, con un prezzo di vendita modesto (30mila euro) è in realtà un esempio molto interessante dell’intreccio di influenze di Rubens, Van Dyck, Morazzone (al quale sembra soprattutto guardare questa tela) e Giulio Cesare Procaccini che finirono per determinare il linguaggio locale all’esaurimento delle istanze realiste.
Sotto il profilo della tavolozza, il confronto più stringente è però quello tra le versioni a opera di Orazio De Ferrari e Valerio Castello, entrambe di proprietà di Carige. Se Orazio, nel suo ritorno sistematico alla raffigurazione dell’ “Ecce Homo” (ricordiamo che la redazione di Brera è “doppiata” da quella presente nella Galleria di Palazzo Torriglia a Chiavari, tuttora poco conosciuta anche dal mondo degli studi) concentra la sua attenzione sulla figura umana, ricreata grazie a una profonda sapienza anatomica messa al servizio della scelta di far emergere corpi e volumi dal fondo nero, con chiara intenzione espressiva, Valerio invece, anche in un dipinto giovanile come questo (siamo circa nel 1647, appena dopo la decorazione dell’Oratorio di San Giacomo della Marina, sua prima importante opera pubblica di una carriera vorticosa e brevissima di vera e propria stella filante) mescola disinvoltamente Rubens, Barocci, Parmigianino, Van Dyck alla lezione dei locali Strozzi, Grechetto e Assereto. L’impaginazione si pone senza reticenze in contrapposizione all’esempio del Cigoli, seguendo due direttrici oblique e sfuggenti, che danno alla scena uno straordinario e non convenzionale senso di movimento, rompendo la staticità dei personaggi frontali.
Chiudiamo questa carrellata genovese rimettendo i piedi in mostra, dove è esposto, a confronto con la tela braidense del De Ferrari, l’ “Ecce Homo” di Gioacchino Assereto che forse va identificato, per identità di misure, con quelle documentato tra i beni di Ferrante Asplanati (personaggio ignoto agli studi) nel 1664. Si tratta di un dipinto che apparteneva al gallerista Francesco Queirazza, e che comparve nel 1987 in asta da Christie’s a Monaco, per poi transitare nuovamente sul mercato antiquario, sino a quando lo hanno acquisito Girolamo e Roberta Etro. Anche in questo caso, pur senza i tagli vertiginosi di Valerio Castello, la composizione è reinventata, con il corpo di Cristo che sembra seguire una diagonale appena smorzata, mentre lo sguardo basso chiama in causa l’esempio del Caravaggio. Ci troviamo di fronte alla terza e ultima redazione dell’Assereto di questo soggetto, dopo quella giovanile che sta nella pinacoteca dei Cappuccini di Voltaggio e un’altra, meno qualitativa e di dubbia autografia, che viene convenzionalmente collocata negli Anni Trenta. Qui siamo invece tra il 1640 e il 1645, in un momento che Paolo Vanoli definisce nella scheda in catalogo di “sulfurea libertà di stesura”, con una tavozza “ristretta alla gamma dei bruni tipica della cronologia più avanzata dell’artista”. D’improvviso Genova sembra riaprirsi a una sensibilità realista, coincidente con la fiammata finale del Caravaggismo di Stomer. Da cui procederemo per chiudere il cerchio di questa narrazione, che dal Merisi è partita e alla sua lezione verista, proprio quando essa sembra definitivamente fuori dalla storia, improvvisamente, con un colpo di coda, ritorna.
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