Arte

John “Hoppy” Hopkins, l’Underground londinese e l’invenzione della controcultura

8 Febbraio 2015

«Una sottotrama ricorrente durante l’anno alla Elektra fu il mio crescente coinvolgimento nel cosiddetto Underground. Nel 1966, questo termine era assolutamente appropriato: pochi outsider erano a malapena consapevoli della sua esistenza. Quando fiorì, nella primavera del 1967, venne considerato una sottocultura basata sulle droghe, sulla politica radicale e sulla musica che ruotava intorno a International Times, la libreria Indica, la rivista Oz, l’UFO, la London Free School, Release, Granny Takes a Trip, il 14 Hour Technicolor Dream e l’Arts Lab. Per me, l’espressione si riferiva principalmente ai frutti dell’energia di una persona: John Hopkins». Così Joe Boyd, produttore, talent scout e lucidissimo testimone dei Sixties introduce nelle prime pagine del suo memoir White Bicycles (Le biciclette bianche, Odoya, 2010) l’amico John “Hoppy” Hopkins, scomparso lo scorso 30 gennaio all’età di 78 anni.

Hopkins è stato in effetti un elemento cardine di quel breve e irripetibile momento in cui, in piena Swinging London, le energie creative meno allineate e omologate che la capitale britannica aveva saputo catalizzare a partire dal primo dopoguerra diventarono improvvisamente un fenomeno visibile e per certi versi assai luminoso. Grazie anche ad alcuni formidabili alleati, non necessariamente consapevoli: l’ostilità dell’establishment e della polizia, da un lato, e l’appoggio entusiasta – spesso anche economico – da parte di personalità di spicco della cultura pop, Beatles e Rolling Stones in testa.

Ma l’Underground fu un fenomeno consistente e radicato, un fitto intreccio di persone, luoghi e situazioni e non una eccentrica moda passeggera. Altrettanto solido era il background di Hopkins: laurea in fisica e matematica a Cambridge, una carriera avviata di fisico nucleare interrotta da un regalo ricevuto in occasione della laurea, una macchina fotografica. Arrivato nella capitale nel 1960, Hopkins incominciò a lavorare come fotografo freelance, collaborando con vari quotidiani e testate tra cui Peace News, organo del movimento pacifista, e il settimanale musicale Melody Maker, documentando una Londra via via sempre più swinging e, parallelamente, un’altra città meno appariscente ma non meno affascinante: la vita che si svolgeva nei caffé, i tatuatori, le prostitute, i feticisti.

Molti degli articoli che si sono letti in questi giorni su di lui si sono soffermati su questa attività, tralasciando il resto. Ma “Hoppy” divenne fin dall’inizio una figura centrale nella vita culturale londinese. Nel 1965 fu tra i promotori dello storico Poets of the World / Poets of our Time alla Albert Hall, reading che radunò circa 8000 persone con la presenza, tra gli altri, di Allen Ginsberg e Lawrence Ferlinghetti. Un vero e proprio gemellaggio spirituale con gli esponenti della Beat Generation d’oltreoceano, e secondo molti vera e propria scintilla scatenante dell’Underground britannico. Quello stesso anno fu tra i fondatori della London Free School a Ladbroke Grove, scuola indipendente “aperta” e ispirata alle free universities americane che inaugurò, tra le altre cose, il celebre Carnevale di Notting Hill, ancora oggi una istituzione per i londinesi. Ma anche un luogo in cui lasciare spazio a nuove forme espressive, destinate a tempi nuovi. Fu in occasione di alcuni concerti domenicali organizzati dalla scuola, ad esempio, che nel 1966 i neonati Pink Floyd, con Syd Barrett alla guida, fecero debuttare il loro originalissimo suono, sviluppatosi dopo un inevitabile apprendistato da anonima college band, accompagnati da un ancora rudimentale, ma assolutamente innovativo per l’epoca, light show.

Quegli stessi Pink Floyd destinati a diventare, di lì a qualche mese, la principale attrazione dell’UFO Club, appuntamento musicale settimanale con residenza presso una sala da ballo di Tottenham Court Road chiamata Blarney (in seguito trasferito alla Roundhouse, edificio circolare di epoca vittoriana in origine adibito alla riparazione delle locomotive), iniziativa escogitata da Hopkins in combutta con il già citato Joe Boyd, che in pochissimo tempo diventerà il fulcro della scena musicale cittadina, proponendo eclettiche serate multimediali: musica dal vivo, light show, cinema, teatro off e bizzarrie assortite. Lì Hopkins manovrava le luci, metteva i dischi tra un concerto e l’altro, proiettava film di Kurosawa alle 3 del mattino e risolveva eventuali problemi tecnici, mentre Boyd si occupava dei conti e teneva fuori dalla porta gli agenti di polizia che, sprovvisti di mandato, volevano dare un’occhiata all’interno.

http://www.youtube.com/watch?v=M6Z6qS88ilQ

Già, perché all’epoca era in corso una vera e propria caccia alle streghe. L’incremento del consumo di droghe leggere, da tempo illegale, aveva portato ad un giro di vite. Le vittime più celebri della nuova politica repressiva furono Keith Richards, Mick Jagger e la fidanzata di quest’ultimo, Marianne Faithfull, protagonisti di una retata dai contorni leggendari. Nacque anche Release, su iniziativa di Caroline Coon e Rufus Harris, agenzia che offriva assistenza legale alle persone accusate di reati legati al possesso di droga. Pure Hopkins finì in carcere. A differenza delle sue amiche rockstar, scarcerate a furor di popolo, vi trascorse parecchi mesi.

Per spiegare come ci fosse finito occorre però fare un passo indietro, e tornare alla London Free School: lì, insieme a Barry Miles, titolare della libreria Indica, altro luogo fondamentale per lo sviluppo della controcultura, Hopkins aveva fondato International Times, vero e propro organo di stampa dell’Underground, un giornale che trattava saperi e punti di vista alternativi, fumetti, poesia, letteratura, musica, ma anche informazioni strettamente pratiche come il listino prezzi delle droghe sul mercato.

Interpellato da Vice nel 2010, Hopkins rievocava così la nascita del giornale: «Nei primi anni Sessanta si sperimentava un sacco, ogni genere di forma artistica, politica, sesso e stili di vita. C’erano un sacco di stimoli che spingevano verso diversi modi di pensare, così incominciai a riflettere sulla politica dell’informazione. Lo consideravo un livello di attività politica che non aveva a che fare con i partiti, e non aveva necessariamente a che fare con sinistra e destra, c’entrava piuttosto con il liberare l’informazione e vedere quel che capitava. Io, insieme a molte altre persone all’epoca, credevo che l’informazione dovesse essere libera ovunque fosse possibile, perché chi ha in mano l’informazione ha in mano il potere. Così ebbe inizio la stampa underground, e IT».

In più di un’occasione le raccolte di fondi per il giornale si trasformarono in eventi memorabili. Ad esempio l’International Times First All-Night Rave Pop Op Costume Masque Drag Ball Et Al alla Roundhouse, ballo in maschera a cui prese parte, tra gli altri, Michelangelo Antonioni, in città per girare Blow Up, accompagnato da Monica Vitti. E, nella tarda primavera del 1967, quello che in molti considerano l’apice simbolico di una stagione straordinariamente vivace, parzialmente immortalato nel film Let’s All Make Love in London di Pete Whitehead: il leggendario 14 Hour Technicolor Dream, che coinvolse una fetta consistente del rock sotterraneo dell’epoca, chiuso da una storica esibizione dei Pink Floyd, reduci da un concerto in Olanda e saliti sul palco all’alba, illuminati dal sole nascente che attraversava le grandi vetrate vittoriane dell’Alexandra Palace, luogo scelto per celebrare l’evento. Jimi Hendrix e John Lennon erano tra il pubblico, e la protagonista di uno degli happening era un’affermata esponente del movimento Fluxus, la giapponese Yoko Ono.

Inevitabile che Hopkins, uno dei motori principali di quel nuovo modello di stampa libera, poco intimorita da censura e in rotta con i costumi dominanti di una società sempre più libera ma non ancora così libera, finisse prima o poi nel mirino delle autorità, per nulla intenerite dalla celebre petizione che in quei mesi, sul Times, chiedeva a gran voce la liberalizzazione della marijuana. Anche se Hopkins, successivamente, ridimensionerà in qualche misura la portata politica del suo arresto, tirando in ballo le pressioni di Lord Young e la poca voglia di studiare della figlia («Andava alla Holland Park School e bigiava parecchio – perché era molto più interessante farsi un giro a Ladbroke Grove dove gestivamo una cosa chiamata Free School. Lord Young lo seppe e decise che sua figlia era stata corrotta e che era colpa mia, e a quanto pare disse qualche parolina nell’orecchio a qualcuno di importante. Il resto è storia»), l’evento scosse l’intero Underground. Che tuttavia sta già esaurendo la spinta propulsiva iniziale, anche se i riverberi di quella esperienza produrranno risultati fino al principio del decennio successivo (IT, ad esempio, continuerà a uscire fino al 1973).

Il momento magico, però, era finito. L’entusiasmo per l’arrivo di una nuova era manifestatosi attraverso la cosiddetta Summer of Love evocata dagli hippies (estate che, tra parentesi, Hopkins aveva trascorso in carcere) era sceso, e a settembre l’UFO Club chiuse, scelta dovuta ad un calo di pubblico e a un cartellone non del tutto azzeccato. Hopkins, scarcerato, si prese la sua fetta di (misero) guadagno e, visti i pessimi rapporti con la legge, preferì svernare in Marocco con la fidanzata. I Floyd, che avevano appena pubblicato il loro primo album, erano ormai sull’orlo del mainstream, anche se il loro leader aveva mostrato i primi segni di quel disagio psichico che ben presto lo metterà fuori gioco. Non solo, la spaccatura tra l’ala più radicale e quella più “compromessa” dell’Underground (tra i principali accusatori in tal senso Mick Farren, leader dei proto-punk Deviants e affine alla visione politica delle Pantere Bianche americane) si era acuita. Michael X, figura di spicco del Black Power londinese che il solito “Hoppy” aveva coinvolto nelle iniziative di quei mesi, principalmente attraverso la Free School, era stato arrestato con l”accusa di aver invocato l’omicidio di qualunque bianco avesse «messo le mani su una donna nera».

Dei protagonisti di tutta quella vicenda qualcuno farà carriera, altri finiranno ancora in carcere, altri ancora scompariranno dal radar. Tutti quanti porteranno comunque con sé la testimonianza di mesi irripetibili. Se non nelle proprie azioni, quantomeno nella condivisione e nella divulgazione dei ricordi, per quanto annebbiati – secondo un luogo comune non privo di un fondo di verità- dall’utilizzo delle droghe. L’uomo che che aveva innescato la miccia, da par suo, esaurito il ruolo di fenomenale catalizzatore, continuò sostanzialmente a mantenere una posizione defilata, facendo quello che aveva sempre fatto: il giornalista, l’attivista politico, il fotografo. Senza mai pensare di essere un sopravvissuto, o qualcuno di troppo facilmente identificabile con il proprio passato. Quindici anni fa, in un articolo per il Guardian, Jenny Fabian testimoniò ancora una volta questa estrema libertà intellettuale, e la volontà di non essere ingabbiato in un ruolo: sul biglietto da vista di John Hopkins c’era scritto un inequivocabile “Generalista. In pensione”.

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