Arte

Il tubero emigrante e la feconda fantasia creatrice di Luigi Grossi

2 Luglio 2018

Quando Swift scrisse il pamphlet satirico  a “Modest proposal” nel  cui sottotitolo spiegava  come affrontare i problemi economico-sociali dell’Irlanda proponendo come soluzione quella di mangiare i bambini  della povera gente, l’ isola verde non aveva ancora  conosciuto quella che fu tra il  1845-1850 la più Grande Carestia europea. L’ Irlanda perduto l’intero raccolto delle patate,vide morire di fame un milione e mezzo di persone, mentre un altro milione fu  costretto a fuggire dalla propria patria per evitare lo stesso destino.

Esclusa dalle tavole nobili, umiliata nel rango di povera per i poveri, ritenuta demoniaca in quanto non citata dalla Bibbia, e avversata anche dagli induisti perché cresce al buio come tubero, la patata è oggetto della mostra tenuta dal fantasioso e creativo Luigi Grossi  nei locali della banca Mediolanum che è  situata nel salotto bene di Napoli, negli ambienti a piano terra del palazzo Mannajuolo, divenuto ancora più celebre per le sue magnifiche scale elicoidali filmate in “Napoli Velata”.

Nessun ambiente poteva essere più consono ad ospitare patate visto che in napoletano “A Patan” è il soldo, “buon appatanat” si riferisce a chi è ricco e possiede denaro.

Con la mostra intitolata “Il tubero emigrante”, come spiega la curatrice Mimma Sardella, Grossi ridà dignità a un cibo povero portandolo sulla tavola ricca di una banca. Il “rozzo emigrante” del XVI secolo, saccheggiato nel 1537 dalle alture andine del Perù, diffuso fino all’estremità meridionale del Cile e portato in Europa dagli Spagnoli nel 1570, solo nel 1610 arrivò in Inghilterra e in Irlanda per poi arrivare negli Stati Uniti attraverso l’emigrazione irlandese nel 1719. Attento alla sensibilità del nostro tempo, Grossi non poteva non contestualizzare la storia di questo migrante povero che conobbe la discriminazione, il pregiudizio, l’intollerabile situazione del capro espiatorio e la condizione di ultimo della terra, in un periodo in cui il tema dell’emigrazione è un problema urgente della nostra contemporaneità.

Dieci sono le opere in esposizione realizzate in tecnica mista ricoperte da sottili patinature dalla rugosa buccia color sabbia fino alle tinture argentate e dorate dei tagli e delle ampie fessure, scelta, quest’ultima, che rientra nei significati traslati associati alla patata.

Troviamo così “a patat marita”t (sposata) a” patat scaurat”(scaldata) espressione solitamente riferita all’inettitudine, a “patat mbuttunat” (imbottita) e diverse altre. Nell’ombra di un angolo riservato della sala troviamo l’ Opera madre: “Il mangiatore di patate”, un parallelepipedo di colore variegato, ricco di protuberanze simili a germogli.

 

La materia è sempre la protagonista dei suoi lavori per rappresentare torsioni, equilibri, intersecazione di piani, peso e leggerezza.Passeggiando per gli spazi della banca, si scorgono altre opere di Grossi. In “Semi”, ad esempio, le forme trovano la loro espressione attraverso un delicato e sapiente uso di un accuratissimo calligrafismo con una particolare attenzione alla qualità delle forme stesse che perdono la loro leggibilità e diventano segno. Ricalcando quanto D’Annunzio affermava: “Tutte le mie gioie, tutti i miei piaceri, vanno verso il dolore, come le acque dei fiumi vanno verso il mare”, l’origine delle opere per l’ artista ha spesso una matrice sofferta. Racconta, infatti, che il suo quadro “Semi” è stato realizzato quando era ricoverato in ospedale a Capri e giocando col foglio e la biro partorisce queste forme elicoidali che, scavando nel profondo del suo io e risalendo al suo tempo di bambino, riconducono alla madre e alla paura che egli aveva di perderla, in quanto rapita da figure che si staccavano dai muri. “Semi” è l’eruttazione di questa paura ancestrale che vede nel binomio vita/morte l’incanto lirico di una suggestione. Se da un lato l’artista utilizza la massima libertà creativa, dall’altro la sua attività è caratterizzata da un senso di continuità nella ricerca compositiva ed espressiva.
Accanto a sculture nate dalla lavorazione di pietra lavica, troviamo un’altra sua opera “Terra”. La terra è un elemento caro a Grossi perché è l’origine di ogni cosa, è scrigno di tesori col suo grembo custode di semi e radici. Ė ancoraggio, luogo di lavoro e di attesa, quella dei primi frutti, un tempo non minore di quello trascorso ad aiutare la vita che vi germoglia a venire su dritta e salda. Opere queste ultime che hanno composto la mostra “Aria Semi Terra” tenutasi nel 2014 al PAN, eseguite con tecniche diverse, dove la materia nelle mani dell’artista risveglia non solo la meraviglia, la capacità di stupire ed emozionare, ma quella di raccontare coinvolgendo la immaginazione e i sensi dello spettatore.

 

Grossi è uno tra i più interessanti artisti contemporanei. Poliedrico, adopera diversi linguaggi della modernità e stupisce con le sue invenzioni di nuovi spazi di sperimentazione e ricerca, di confronto e di dialogo, incessante indagine interiore e visiva. La sua sensibilità non è avulsa da riferimenti di natura poetica o letteraria. La mostra intitolata “La Stanza di Emily Dickinson”, (The Woman in White), risalente al 2013 e ospitata nella bellissima e suggestiva cornice del Museo Correale di Terranova a Sorrento, ne è l’esempio. L’artista, infatti, rilegge attraverso una visione contemporanea, l’inconscio e l’essenza della poetessa statunitense nonché  la sua stanza intrisa di silenzi e luce.

Mi avvio verso l’uscita, penso al tubero di patata e a quelle infossature dette “occhi”, in ognuna della quale è inserita una gemma dormiente. E se fosse la patata a osservare noi con i suoi occhi? Se potesse severamente guardarci? Se, spalancando gli occhi sulla miseria del nostro quotidiano, volesse raccontarci la propria storia? Intanto  giungo dinanzi alle  famose scale del palazzo Mannajiuolo e la forma elicoidale mi porta alla mente il bulbo oculare. Trovo allora quella riconciliazione degli elementi che solo nell’arte si verifica: come dagli occhi della patata  spuntano nuove piante, così la fantasia creatrice di Grossi si dischiude a spiragli pronti  a regalarci  un archivio vivo e vibrante con  quella magia demiurgica propria delle sue opere.

 

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