Arte
Il nostro “Monuments Man” è Canova
La vicenda più avventurosa che ha come protagonista Antonio Canova non è la realizzazione di una sua opera, sia anche un capolavoro tra quelli esposti alla mostra Canova e Thorvaldsen alle Gallerie d’Italia, ma la storia delle restituzioni ottenute dallo scultore dopo le spoliazioni napoleoniche, ossia le sottrazioni di beni artistici effettuate dall’esercito francese nei territori del Primo Impero francese, che ebbero in Italia l’episodio più importante, al punto da costituire per il patrimonio del nostro Paese un danno più grave delle stesse razzie compiute dai nazisti. In questo senso Canova è stato il nostro “monuments man”, in un momento storico in cui non avevamo un ministero dei Beni Culturali, e di fatto nemmeno una nazione. L’azione di Canova, possibile solo in virtù dello straordinario prestigio internazionale dell’artista veneto, va anzi considerata come il momento fondativo della consapevolezza dell’esistenza di un patrimonio artistico nazionale. Ben prima che fossero fatte l’Italia e gli Italiani, Canova fu il primo a pensare, nel consesso delle trattative diplomatiche per le restituzioni delle opere d’arte che si svolsero in parallelo alla firma dei trattati di pace dopo la sconfitta di Napoleone, da “ministro” della Cultura, e possiamo affermare che nessuno dei titolari del dicastero dei Beni Culturali ha compiuto atti importanti quanto lui al fine della conservazione e della tutela dei nostri capolavori. Oggi che il cinema e la letteratura celebrano con toni agiografici le imprese di coloro che recuperano le opere d’arte depredate da Göring la conoscenza dell’incredibile impresa compiuta da Canova è ancora relativamente diffusa, nonostante le dimensioni titaniche della sfida.
Secondo lo storico Paul Wescher, le spoliazioni napoleoniche costituirono “il più grande spostamento di opere d’arte della storia”, e ancor oggi “è difficile stabilire con esattezza quante opere d’arte di valore unico andarono distrutte o disperse in quei giorni”. In maniera sistematica, dal 1797 al 1815, le sottrazioni riguardarono non solo dipinti e sculture, ma anche beni archeologici, archivistici, librari, collezioni numismatiche, naturali, mineralogiche, botaniche, che si affiancarono spesso alla distruzione deliberata delle opere provenienti da chiese, monasteri demanio, spesso con riferimento alle arti minori, i cui manufatti vennero fusi per ottenere oro e argento, non solo con finalità belliche. Il fenomeno non è solo italiano: riguardò anche Spagna, Paesi Bassi e Fiandre, l’Europa Centrale, e, sull’altra sponda del Mediterraneo, l’Egitto. Il saccheggio rispondeva a diverse esigenze. tra cui quella dell’accrescimento della conoscenza da parte di intellettuali, uomini di scienza e cultura, artisti francesi, e in molte occasioni coincise con un effettivo accrescimento della cultura specifica, come accadde per le antichità egizie. Ma in molti casi si trattò soprattutto di reperire i pezzi per le costituende raccolte nazionali e civiche francesi, e per arricchire le collezioni private di militari e funzionari.
Il 27 luglio 1798, corrispondente nel calendario della Rivoluzione al nono giorno di Termidoro dell’anno VI, sfilò a Parigi il primo convoglio dei beni confiscati nella Campagna d’Italia. Davanti a Champ de Mars e all’école Militaire sfilarono, come descritto dalle stampe dell’epoca, i cavalli della Basilica di San Marco, seguiti dall’Apollo del Belvedere, il Discobolo, il gruppo del Laoconte, la Venere de’ Medici. Il corteo, simile ai “trionfi” romani o a quelli del Mantegna, includeva dipinti di Raffaello e Correggio, manoscritti del Vaticano, animali esotici e soprattutto la Vergine di Loreto, che si riteneva essere opera di San Luca, e al centro dell’attenzione del popolo, per la fama dei miracoli avvenuti al cospetto dell’immagine o con la sua invocazione.
Napoleone aveva saccheggiato ciò che restava delle collezioni dei Gonzaga a Mantova,e e aveva imposto ai duchi di Modena e Parlma di consegnare un numero cospicuo (oltre 50) di dipinti dalle loro raccolte pubbliche e private. Anche il re di Napoli e il Papa dovettero includere negli armistizi la cessione di quadri, busti antichi (quelli di Marco e Bruto capitolino) e dei manoscritti e codici che aveva selezionato accuratamente Joseph de la Porte de Thiel, intellettuale che ben conosceva le biblioteche italiane, e che si volle impadronire della Fons Regina, la raccolta personale di Cristina di Svezia, patrocinatrice delle arti e degli studi, che aveva dimorata a lungo a Roma. Il Trattato di Tolentino incrementò ulteriormente il bottino, con opere provenienti da Ravenna, Perugia, Pesaro, Rimini. Le tasse imposte ai nobili romani costrinsero le principali famiglie a spogliarsi dei propri tesori: i Borghese, i Colonna, i Barberini, i Chigi, i Corsini, gli Spada e i Falconieri cedettero al tiranno i pezzi più preziosi delle quadrerie di famiglia, così come le collezioni antiquarie, in particolare i marmi. Pio VI venne privato della sua biblioteca personale e obbligato a pagare di persona le spese di trasporto di manoscritti e opere sino a Parigi. In alcuni casi le razzie furono condotte direttamente dai funzionari museali, come avvenne nel Granducato di Toscana, dove fu personalmente il direttore del Louvre Vivant Denon a battere il territorio nell’inverno del 1811, accanendosi in particolare sui tesori di Pisa.
All’indomani della battaglia di Waterloo, ciascun territorio liberato inviò a Parigi i propri commissari artistici, al fine di chiedere la restituzione delle opere predate, o un risarcimento economico. Antonio Canova venne scelto come rappresentante dello Stato Pontificio. Si trattava di una fase molto delicata: le truppe francesi sconfitte erano rientrate in città, e gli ufficiali facevano azione di convinzione sul popolo per alimentare la protesta contro le misure imposte agli sconfitti, in particolare per ciò che concerneva le opere d’arte, che si ritenevano conquistate in base al diritto di preda, e che ora apparivano agli occhi dei parigini richieste sulle basi di un analogo principio.
Qualcuno, come i Belgi, non aspettò nemmeno i trattati, per riprendersi i propri Rubens. Lo stesso Duca di Wellington giungeva alle conferenze di pace con la lista delle opere da restituire ai legittimi proprietari, e così il Duca di Brunswich e Von Ribbentropp per la Prussia. La difficoltà relativa alle opere italiane è che molto di loro erano state acquisite attraverso trattati, e non mera confisca. I Francesi dunque le consideravano loro a tutti gli effetti.
Canova, incaricaro da Pio VII, si mise al lavoro a partire dal 2 ottobre 1815. Fece redigere una nota che conteneva tutte le opere che andava a prelevare dal Louvre, indicando il giorno del ritiro. Fuori i civili protestavano, e solo il presidio militare impedì lo scontro con gli addetti impegnati a imballare i capolavori destinati a tornate in Italia. Lo scultore era pratico del trasporto internazionale delle sue statue, che consegnava puntualmente alla propria clientela disseminata in tutta Europa, e dunque conosceva alla perfezione le procedure necessarie per assicurare le opere. Talleyrand, che fu il negoziatore principale per la Francia durante il Congresso di Vienna, nonché il fautore del ritorno dei Borbone sul trono, soprannominò in quella fase Canova, “monsieur l’Emballeur”, l’imballatore. Canova lavorò in quei mesi a stretto contatto con Giuseppe Rosa, il direttore delle istituzioni museali viennesi, che per la corona austriaca trattò le restituzioni al Lombardo Veneto e ai Ducati (Toscana, Parma e Piacenza). I due decisero di organizzare un unico grande convoglio per l’Italia, attraverso il Moncenisio e con prima destinazione Milano, da cui si sarebbe diviso in diverse colonne. Il pontefice non disponeva delle risorse necessarie a questo trasporto senza precedenti, e lo scultore si attivò per domandare il sostegno economico di Giorgio IV d’Inghilterra. In quella fase fu decisiva la mediazione di William Richard Hamilton, sottosegretario del ministro degli esteri britannico. Hamilton era un cultore di archeologia e in qualità di segretario di Lord Elgin aveva contribuito in maniera decisiva alla raccolta dei marmi del Partenone (che Canova a Londra potè studiare direttamente dal vivo).
Il 24 ottobre 1815 il convoglio italiano lasciò Parigi, scortato da due squadroni di ulani tedeschi. La colonna era composta da 41 carri, per un peso complessivo stimato in 49 tonnellate, trainate da 200 cavalli. Canova aveva nel contempo attraversato la Manica, per recarsi a ringraziare re Giorgio IV per la sua generosità. Un mese dopo, il 23 novembre, sulla strada del Moncenisio, il Laocoonte cadde dal carro e si schiantò sul ghiaccio, subendo il distacco della parte inferiore del gruppo. La scultura venne dunque trasportata a Roma in pezzi, dove fu ricomposta. Ma al di là dei problemi logistici, la vera difficoltà dell’impresa di Canova fu la compilazione di una lista delle opere, laddove le città dello Stato della Chiesa non erano in possesso di una catalogazione dei beni artistici. Straordinario connoisseur, lo scultore si basò sulla sua memoria e sulle informazioni disomogenee che riuscì a mettere assieme. Riuscì così a riportare nel nostro Paese circa il 70% di quanto Napoleone aveva predato. Ne ricavò il titolo pontificio di marchese d’Ischia. E la gratitudine di quanti non erano in grado di farsi valere nel consesso del Congresso di Parigi. Si pensi ai commissari fiorentini, il direttore degli Uffizi e presidente dell’Accademia di Belle Arti Giovanni degli Alessandri e il pittore Pietro Benvenuti, che nessuno probabilmente avrebbe ascoltato senza l’intercessione di Canova. Inviato dal Papa, in realtà lo scultore giocò da battitore libero, come se esistesse già un Paese da servire, che era in realtà solo nella sua sensibilità per la bellezza. Lui, che era ammirato da tutti i potenti d’Eurppa, dallo zar di Russia al principe di Metternich, sino ai lord inglesi, fece valere questa sua autorevolezza. Consolidando peraltro nell’occasione le sue relazioni internazionali, che lo avrebbero condotto di lì a poco a lavorare con continuità nel Regno Unito e persino a ricevere commesse dal parlamento della Carolina del Sud.
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