Arte
I futuristi non camminavano tra draghi addormentati
Cosa resta ancora da dire della mostra “Il tempo del futurismo”, ospitata dalla Galleria Nazionale di Arte Moderna, che da quasi un anno fa parlare di sé, spesso per ragioni di mera polemica politica?
Se vi sistemate nella prima sala, davanti ai dipinti di Segantini, e poi osservate la disposizione delle opere che precedono il momento germinale del movimento di Marinetti, una prima messa a fuoco è già possibile. La forte connessione che i curatori hanno tentato con la pittura simbolista e divisionista è un dato in qualche modo fisiologico: gli artisti che nel primo decennio del XX secolo vengono da una formazione accademica si misurano con il lascito delle sperimentazioni di Pelizza da Volpedo e Gaetano Previati. Funziona decisamente meno il tentativo di sostenere che il futurismo si possa saldare con le vicende dell’arte italiana precedente, nel segno di un’identità nazionale. Gli artisti che partecipano alla prima stagione del movimento, e anzi lo precorrono nelle opere pubblicate dopo il 1905, sono letteralmente imbevuti di cultura francese. Il futurismo appartiene a pieno titolo alle avanguardie storiche, che nascono a Parigi. Tutti guardano a cosa accade nella capitale francese, al tentativo d’immaginare per le arti figurative una traiettoria antiaccademica, modernista, che ponga una nuova relazione con l’oggetto, e “buchi” il limite delle tre dimensioni, il piano di realtà.
Il Manifesto del 1909
Marinetti pubblica non a caso il proprio manifesto su “Le Figaro”, e la mattina del 20 febbraio 1909 si aggira nervosamente nei mercati generali di Les Halles, attendendo che aprano i chioschi dei giornali. Ha immaginato una risonanza europea per i propri undici punti, in cui non solo non compare la parola “Italia”, ma si fa riferimento una sola volta al “patriottismo”, come corollario del militarismo e della glorificazione della guerra. Si muove in ambito internazionale, frequenta la Closerie de Lilas aMontparnasse, dove si ritrovano Picasso, Braque, Apollinaire, Gertrude Stein. È assolutamente indifferente al contenuto politico, quello che gli interessa è lanciare un messaggio potente di forte tensione verso la novità, la discontinuità, la distruzione della cultura e delle virtù borghesi. È cresciuto a Milano, ma ha trascorso l’infanzia ad Alessandria d’Egitto, la città dal clima cosmopolita che abbiamo imparato a conoscere nei romanzi di Lawrence Durrell. Si è nutrito di orientalismo ed esotismo. Viene da una famiglia molto ricca, che gli consente di fare l’editore investendo a fondo perduto nella pubblicazione di libri di nessun successo. Prima del “Manifesto Futurista”, gli intellettuali italiani, gli scrittori, i giornalisti, gli accademici, lo conoscono esclusivamente come lo scocciatore che ogni mese riempie inopinatamente le loro case con spedizioni gratuite di volumi che nessuno vorrà mai leggere, nella speranza di una recensione, o anche solo di una citazione in un trafiletto. Non è dato a sapere se conosca o apprezzi il divisionismo. A dirla tutta, non si sa nemmeno se è autenticamente interessato alla pittura.
Marinetti s’immagina come un poeta, sostenitore del verso libero, della necessità di svincolarsi da ogni schema metrico. Stringe amicizia con Paul Fort, che condivide questa battaglia per il rinnovamento della poesia, ma anche con l’anarchico belga Émile Verhaeren , operaista, che ha scritto “Le città tentacolari”. Nello stesso tempo non disdegna gli ideali nazionalisti di Paul Adam, nostalgico del Secondo Impero. Il termine “futurismo” viene da una conferenza del 1904 dello spagnolo Gabriel Alomar, poi raccolta in un libretto, di cui aveva scritto nel 1908 il “Mercure de France”: è probabile che Marinetti abbia letto quella recensione. Condivide con Breton e Apollinaire l’interesse per l’immaginazione, per ciò che procede dall’inconscio, per la scrittura automatica. Canta “l’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita”. Ma quando sale sull’Isotta Fraschini dell’amico Ettore Angelici, per l’inesperienza alla guida finisce in un fosso in via Domodossola, sorpreso da due ciclisti che a venti all’ora gli tagliano la strada. La Milano in cui cresce è moderna, colta, ricca, proiettata verso il futuro. Somiglia pochissimo al resto del Paese.
Milano non c’è
Milano però nella mostra romana non c’è. Manca soprattutto quella dei dipinti di Boccioni e Carrà del 1911/1912. Il momento di autentica rottura con il passato, prima del “Manifesto tecnico della pittura futurista”, resta sottotraccia. C’è “Tre donne”, c’è una parte degli “Stati d’animo”, c’è la “Lampada ad arco” di Balla (dal MoMa di New York) che però sono ancora sul crinale del divisionismo, ma è difficile fare una monografica sul futurismo senza una sezione dedicata all’epos della “Città che Sale”, della “Rissa in galleria”, dei “Funerali dell’anarchico Galli”. Sino alle “Forme uniche di continuità nello spazio”, che è già del 1913, si registra una certa evanescenza nel documentare la definizione dei grandi temi originali del futurismo: la metropoli, la simultaneità, l’individuo.
Molto presto, la mostra cessa di essere una monografia sul futurismo e sposta il focus sul racconto della modernizzazione del Paese dietro la spinta dell’innovazione tecnica. Nel pantheon futurista trova posto anche Marconi. Viene presentata una ricostruzione filologica degli intonarumori di Luigi Russolo, ma non li si sente suonare, e se ne può apprezzare solo il design. Troppo poco, per il visionario che scrisse “L’arte dei rumori”, ammirato ancora dall’avanguardia all’epoca del post-punk, sino al debito pagato alle sue intuizioni dagli Einstürzende Neubauten di Blixa Bargeld.
È un po’ l’idea che sorregge il progetto curatoriale di Gabriele Simongini: mostrare la forma, ignorando il contenuto. Il futurismo finisce così per non avere un suo suono, per mescolarsi al rumore del mondo, per somigliargli troppo, quando invece si accapiglia con la società, fa a pugni con tutti, fischia e viene fischiato, e spesso i nuovi adepti escono dalle scazzottate coi militanti.
Non ci sono le scazzottate
Non ci sono le serate futuriste, quelle per cui Marinetti attinge al canovaccio della commedia dell’arte, su cui innesta la propria travolgente oratoria. Non è la fusione di tutte le forme di teatro, come pretenderebbe, ma la nascita dell’avanspettacolo. Non c’è il “parapiglia di Trieste” l’invettiva antiasburgica “Alle sette di sera”, e nemmeno la serata del 15 febbraio 1910 al Lirico di Milano, dove socialisti e nazionalisti si scontrano, e Marinetti finisce in questura. Dopo quella gazzarra Boccioni si unisce al movimento. È solo in quel momento che il futurismo incontra effettivamente la pittura.
Non c’è Morasso, dal quale Marinetti prende quasi tutto. Nazionalista, darwinista, Mario Morasso è il primo in Italia che individua nel letterato il soggetto di un nuovo protagonismo culturale. Nel saggio “Uomini e idee del domani” preconizza una nuova era, in cui l’individualismo è destinato a imporsi contro la “minacciosa invasione di bruti”, incarnata dai socialisti. Per Morasso l’intellettuale è a un bivio: abbracciare la massa, chi ”sta in basso”, oppure scegliere la “superiorità, la dominazione, l’individualità”. Più ancora, conta uno scritto del 1905, “La nuova arma (la macchina)”, in cui Morasso descrive la vertigine che l’artista prova di fronte a un treno in piena corsa che attraversa la campagna. Nel testo ricorre l’invito a bruciare i libri, abbandonare i musei, le accademie, i “luoghi rinchiusi, bui e silenziosi, i depositi di anticaglie e muffa”, abbracciando senza ulteriori indugi la vita “ dove si opera, si lotta, si crea”. È in queste pagine che compare il paragone tra la macchina e la Vittoria di Samotracia, “alata e decapitata”, che Marinetti farà proprio, con una citazione puntuale che ai contemporanei non sfuggiva certamente. Non è il solo autore saccheggiato dai futuristi: Max Stirner, Walt Whitman, Joris Karl Huysmans, Alfred Jarry, “Eva Futura” di August de Villiers de l’Isle-Adam sono tutte letture da cui Marinetti sottrae qualcosa, anche se la critica spesso si limita a ricordare il tributo pagato a Bergson e Nietzsche, e, per la scelta del verso libero, a Rimbaud e Verlaine.
La rimozione del nazionalismo e del bellicismo
Né si può dimenticare, come si è fatto nella mostra di Roma, d’inquadrare gli esordi del futurismo nella fase di mobilitazione del nazionalismo che coincide con la campagna di Libia, che rappresentò qualcosa di più di un’occasione di lavoro per improvvisati cronisti di guerra, come sarebbe corretto definire, al di là degli esiti, Marinetti e gli altri che cantarono con nuovi mezzi lirici e nuova retorica quell’impresa, mettendosi nella scia dell’imperialismo di Corradini, un altro dei padri putativi dimenticati del movimento.
Se però si considera Marinetti una sorta di personalità poliedrica, capace sì d’improntare il linguaggio della grafica, della pubblicità, della poesia, ma che sembra aver partecipato ai propri tempi come un eterno fanciullo che cammini tra i draghi addormentati, allora si produce una grande collezione di oggetti futuristi, che sembrano precipitati casualmente in un tempo storico sempre sfasato rispetto ad alcune illuminazioni e anticipazioni. È pur vero che il futurismo intuisce prima ancora che le altre avanguardie lo sviluppo delle tecnologie di comunicazione, e fa dell’arte un’opera mediatica, ma la ricezione molto ampia che hanno i suoi esiti è legata fatalmente al rapporto con la politica e con la società.
Si prenda la questione della fascinazione per la guerra. Certo, compare nel Manifesto del 1909. La mostra riduce la questione alle opere in cui Fortunato Depero sembra trasformare le vicende del Carso in un gioco per bambini, ignorando l’adesione dei futuristi all’interventismo, e in questo modo negando la saldatura ideologica con Mussolini, che è precedente al fascismo e risale alle manifestazioni che il direttore del “Popolo d’Italia” e Marinetti guidano assieme, cercando di trascinare il Paese nel conflitto. Boccioni, Sironi, Russolo, Funi, Bucci, Sant’Elia, vanno tutti in guerra come volontari. Solo Marinetti, che domanda di arruolarsi nel battaglione lombardo ciclisti, viene dichiarato rivedibile, lui che aveva definito la guerra “sola igiene del mondo”. Al fronte perderà la vita Antonio Sant’Elia, il cui lavoro è ricostruito in mostra in maniera puntuale, e con lui il movimento viene privato probabilmente dell’intelligenza più alta, l’unica in grado di esprimere pienamente un’architettura futurista, a fronte delle visioni potenti di Sironi, che sono però già un’altra cosa. Nelle retrovie, cadendo da cavallo, muore anche Boccioni. In mostra c’è il ritratto del compositore Ferruccio Busoni, uno dei dipinti che lasciano intravedere le possibili formule stilistiche verso cui sembrava avviarsi l’artista italiano più importante del tempo delle avanguardie.
Grandezza di Gerardo Dottori
Nella sezione legata alla produzione editoriale i curatori hanno raccolto una mole di materiale impressionante. C’è ovviamente “Zang Tumb Tumb”, il resoconto della battaglia di Adrianopoli dell’ottobre del 1912, pubblicato nel 1914. E c’è molto altro, sino al controverso “Quarto d’ora di poesia della X Mas”, ultima opera letteraria di Marinetti, scritta nel 1944, ma che vide la luce postuma nel 1945. Anche in questo caso però non si è tentata una contestualizzazione, e le opere letterarie sembrano fluttuare in un’assenza di fondale storico. Allo stesso modo, è trattata in maniera corsiva l’impresa di Fiume, nella quale invece i futuristi si ritagliarono un ruolo importante. L’attenzione maggiore è dedicata alla seconda generazione di artisti, la fase che potremmo definire dell’ “inclusione”, in cui i futuristi vengono accettati dal regime. Ne beneficia soprattutto la figura di Gerardo Dottori, certamente quella indagata più a fondo, anche al di là del ruolo emergente recitato assieme a Prampolini nella corrente dell’aeropittura. Emerge il legame di Dottori con la tradizione della pittura umbra, evidente soprattutto nella tavolozza e nell’interesse per il paesaggio, che sembra recuperare Perugino e il Signorelli di Orvieto.
In definitiva ben documentata è la fase in cui il movimento, dopo aver perso per strada le personalità di Gino Severini e di Carrà, mentre Balla sembra ripiegare su di una ricerca cromatica condotta in modo autonomo, trova nuova linfa grazie alla cosiddetta arte meccanica, che consente di superare il riallineamento ai valori codificati in sede accademica, anche attingendo alle intuizioni del costruttivismo russo.
Anche nell’ambito dell’aeropittura, a fronte del “Primo dizionario aereo italiano”, scritto nel 1929 da Felice Azari, pittore e pilota di guerra, l’apporto di Marinetti è essenziale. È lui, nell’articolo “Prospettive di volo e aeropittura”, ancora nel ’29, a preparare il terreno per il “Manifesto di aeropittura” del 1931, condiviso con Dottori, Prampolini, Depero, Mino Somenzi, Fillia (al secolo Luigi Colombo), Tato (Guglielmo Sansoni) e Benedetta Cappa (che di Marinetti è la moglie). Il pittore viene esortato a divenire un aviatore in prima persona, e a restituire sulla tela le impressioni del volo. Se è vero che gli “aeroplani trepidanti” comparivano già nel manifesto del 1909, è di fatto un rilancio delle istanze iniziali del futurismo. Anche gli esiti artistici sono subito molto apprezzati, perché i dipinti danno spesso la sensazione di stare realmente su di un velivolo, e rimangono ancor oggi autenticamente adrenalinici, perché l’apparecchio è spesso colto durante la fase di picchiata, e tanto il cielo quanto il paesaggio sono realizzati tenendo conto della curvatura terrestre che si osserva durante il volo.
Il futurismo inviso ai nazisti come arte degenerata
Viene taciuta persino la decisa opposizione di Marinetti al nazismo. Sulla scorta dell’articolo pubblicato da Alfred Rosenberg, ideologo del partito nazionalsocialista, sul “Völkischer Beobachter” (la testata che nel 1921 aveva divulgato il falsostorico dei Protocolli dei savi di Sion, in cui si configurava una grande cospirazione ebraica e massonica per conquistare il mondo), venne lanciata nel 1934 una crociata contro l’espressionismo, l’astrattismo e il futurismo, sposata in prima persona dallo stesso Hitler. A Marinetti viene impedito in tutti i modi di realizzare mostre in terra tedesca. La diplomazia del Reich contatta la nostra ambasciata a Berlino, riferendo del rischio di un possibile attentato, diretto contro il letterato italiano. In quegli stessi mesi si sta organizzando un’esibizione di aeropittura ad Amburgo. Göring è tra i patrocinatori dell’iniziativa. Ma il ministro degli esteri Von Neurath rifiuta seccamente di visitare la mostra, adducendo come ragione la nota avversione di Marinetti per la Germania, legata non tanto ai sentimenti con cui veniva accolta l’opera dei futuristi, quanto piuttosto al sentimenti che accomunava coloro che avevano combattuto la Prima Guerra Mondiale. Nel settembre di quello stesso anno, Hitler a Norimberga si scaglia contro l’ “arte degenerata”, e l’ostracismo verso i futuristi in Germania diventa una posizione ufficiale di Stato.
Ci siamo persi Sironi
Un altro omissis macroscopoco riguarda Sironi. C’è qualche traccia della produzione protofuturista. Ma dopo il 1920 lo spazio dell’arte italiana sembra occupato, quanto a genii di prima grandezza, solo da Balla. Sironi scompare, non si sa nulla della sua adesione a “Novecento” (che riguarda anche altri ex futuristi), né tanto meno del revival della grande decorazione parietale che lo vede protagonista negli Anni Trenta. Certo, non si tratta più di futurismo (anche se nel lavoro grafico apologetico del mussolinismo, la traccia delle suggestioni del movimento marinettiano permane), ma non si può del tutto ignorare cosa accade dopo la potente cesura costituita dalla fine della guerra e dall’avvento del fascismo al primo nucleo di artisti che aderirono al movimento.
I futuristi furono fascisti, ma i fascisti non furono futuristi
Ma in definitiva la questione da cui non si scappa, è che i futuristi furono fascisti, mentre i fascisti non furono futuristi. Arrivarono al potere per il legame con le forze retrive della nazione, con gli agrari, con gli industriali che volevano negare i diritti ai lavoratori, per il consenso raccolto tra i piccoloborghesi spaventati dagli scioperi del biennio rosso. Promisero che avrebbero soffocato la protesta socialista. Fu questa la chiave che consentì loro di essere percepiti dalla classe dirigente e dal ceto medio come una garanzia di stabilità, molto prima che Mussolini varasse con Gentile la stagione del totalitarismo, trasformando radicalmente lo Stato in una forma di nuova religione civica. Quando il fascismo incardinò i Patti Lateranensi, Marinetti, che era sempre stato fieramente laico (sino a immaginare in un romanzo del 1912, “L’aeroplano del papa”, di rapire il pontefice con una pinza manovrata da un monoplano) era ormai ridotto a un personaggio marginale, in cerca di un accomodamento all’interno dell’accademia per sé e per i propri sodali, agli antipodi di quanto aveva predicato due decenni prima.
Il retropensiero ricorrente che ha attraversato tutta la vicenda di questa mostra, l’assimilazione a una celebrazione del fascismo da parte della nuova destra, non aveva dunque ragione di fondo. Il fascismo ha sfruttato la comunicativa di Marinetti, ne ha tratto qualche accorgimento, e ha dato spazio alla poetica del bellicismo. Lo stesso genere di poetica, in Russia avrebbe prodotto il Suprematismo di Malevič, determinando il superamento definitivo dell’arte figurativa, in un contesto politico completamente differente. Ne è uscita una mostra evasiva sulla parte relativa alla riflessione storica e storiografica, reticente su molti aspetti, certamente esaustiva su altri, che mirava forse nei presupposti dei promotori a celebrare nei futuristi i padri della cultura che il Novecento ha messo ai margini, e invece ha finito, per timidezza e mancanza i forza assertiva, per farne una sorta di turisti della storia, con un retroterra regionalista e uno sfondamento nel futuro anteriore, senza radicamento nel proprio presente. Gramsci scrisse su “Ordine Nuovo” il 5 gennaio 1921: “I futuristi hanno svolto questo compito nell’ambito della cultura borghese: hanno distrutto, distrutto, distrutto, senza preoccuparsi se le nuove creazioni, prodotte dalla loro attività, fossero nel complesso un’opera superiore a quella distrutta”. Restava però la forza dirompente degli undici punti fissati nel febbraio del 1909, a segnare l’avvento di una nuova epoca. E almeno questo, bisognava essere capaci di dimostrarlo sino in fondo, senza timore ingiustificato d’inciampare nelle proprie radici.
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