Arte

Ho incontrato stefano ordini, l’artista metafonico

5 Ottobre 2023

Siamo a Grosseto, terra amareggiata e dolce, di grandi terre distese fino al mare.

La prima volta la sua figura alta e complessa dal volto glabro d’adolescente mi si era posta davanti al cancello del piccolo condominio dove entrambi s’abitava, io da poche settimane. Mi chiese un suo dubbio per fare conoscenza: “Ma sei di Milano tu?” La moto che uso – generosa concessione di Davide Casamenti di Strada San Zeno già ricordato articoli addietro – è una Bmw K 100 con vecchia targa Milano e lui la moto la vedeva dal basso, attraverso la feritoia della sua taverna. Parlammo qualche minuto, più che altro di origini geografiche e luoghi in comune, poi mi congedai, non senza restarne colpito.

I condomini mi avevano già raccontato di questo pianista – un grande compositore avevano detto – che abitava al piano terra; un musicista molto conosciuto anche fuori Grosseto che viveva sotto di noi, in parte seminterrato. Io a quel primo incontro non gli chiesi niente, solo feci caso alla sua giacca in fresco lana marrone sbiadita a chiazze, indossata in pieno luglio sopra una camicia a fantasia scozzese bianca e rossa. Grande libertà, pensai.

Da quel giorno facevo più caso ai suoni intorno, e tra le urla dei manovali sulla via, l’ansimo del traffico sull’Aurelia, tra i trapani e le urla di badanti e anche tra i cani e i gatti nello specifico un trio di carlini dalle reazioni imprevedibili  – senza trascurare i passeri sul grande noce dietro casa e i piccioni battibeccanti sulla grondaia – io sentivo il pianoforte suonare. Ovattate dai muri, portate dal vento di Ponente, mi raggiungevano improvvise le glissate sulla tastiera. Morbide note, che vedevo salire leggere come bolle colorate verso i tetti e oltre. Quelle note messe in scala ascendente o discendente, la loro morbidezza aerea, nelle settimane in cui non ci siamo più incrociati, mi hanno avvicinato alla sua porta di casa, dietro la quale vedevo muoversi luci verdi e gialle rifratte dal vetro satinato. Pochi giorni fa l’ho cercato e sono entrato nella stanza piena di dischi e di libri che è tutta la zona giorno di casa sua. Poi si scende giù, in un seminterrato atelier tappezzato di quadri astratti di grandi dimensioni.

Ora, in questo presente sfuocato di fine estate, ascolto il disco che mi ha regalato pochi giorni fa, Metafonie Vol. 1; metto in accordo la musica con la curiosità su un artista che il caso mi ha fatto incontrare qui, a Grosseto, dove mi trovo a vivere altrettanto casualmente in uno stato d’animo trasognato, quasi evanescente.

La piccola firma in calce alla copertina del CD da lui disegnata è la sua, Stefano Ordini, classe 1961, nato a Grosseto, città che a detta dei suoi stessi abitanti si sente lontana da tutto a confidare solo su se stessa, sorta su una terra amara e bestemmiata, eppure così dolce negli orizzonti sfumati che la stringono tra colline e sterminati campi di ulivi e granoturco.

Siamo nel 2005 quando nasce il disco, sempre qui a Grosseto. E’ un lavoro sperimentale che ha fatto già parlare molto critici e curiosi di parascienza messa in musica a varie latitudini del globo. La sua unicità è fuori discussione, basta ricordare che contiene registrazioni da un possibile aldilà unite a brani molto estesi e variopinti. Un disco dimenticato dalle cronache musicali più recenti ma che il musicologo Helmut Failoni son certo saprebbe riconsiderare in chiave post-avanguardistica e neofuturista. Metafonie improvvisa in fase di registrazione la maggior parte dei brani, dei quali non si può definire il genere perché contengono di tutto, dall’ambient al classico, attraverso un pianoforte e un sax mescolati a cori, suoni elettronici, rumori e vocalizzi di varia origine. Il titolo si smarca dall’uso fonologico più comune del termine per intendere un chiaroscuro sonoro, un ampliamento del concetto di musica e di canto. Qui va detto per inciso che Stefano Ordini ha studiato e collaborato con musicisti e artisti del livello di Sylvano Bussotti, Giuseppe Chiari, Giancarlo Cardini, Luigi Nono, solo per citarne alcuni; ha una formazione musicale e artistica di amplissimi orizzonti, tanto ampi che è preferibile rinviarli alla pagina che Wikipedia gli dedica. In sintesi è un artista totale, che parte da un organo Farfisa a tre anni di età e poi attraverso la musica frequenta cinema, teatro e da qualche tempo l’arte figurativa, sempre reinventando, improvvisando, mescolando discipline e materiali, senza mai fermarsi, mai definirsi: sempre alla ricerca, spostando di stagione in stagione i confini raggiunti, accumulando premi, e riconoscimenti di cui a volte si dimentica. Tra il classico e l’elettronico, il sacro e l’erotico, il segno e il simbolo, con il rigore dello studioso e la libertà del visionario.

Le piccole bolle colorate sulla copertina del disco stemperano la suggestione delle presenze esoteriche promesse da una rossa stella a fumetto che proclama la “prima opera al mondo con cori e suoni dell’altra dimensione”. Ci sono anime trapassate nel disco? Spiriti evoluti? Oggi, in questa mia stanza periferica, mi pare di sì, e includo anche suoni dallo spazio planetario o di UFO in volo sia ben inteso; alieni extraterrestri, anime smarrite, fantasmi incustoditi, perché l’impossibile è il superlativo del possibile ed è già tanto spesso accaduto.

Questo dischiudono le piccole bolle gialle e blu “baccomorfe” come direbbe Ordini con la sua voce sorridente.

L’ascolto dei brani è un’esperienza sinestetica, sorprendente per le improvvisazioni che si colgono e l’agguato dei misteriosi cori che interrompono il dettato musicale come una nuova frequenza che soppianta un segnale trasmesso. Siamo fuori dal tempo due volte, una perché il disco nasce quasi 20 anni fa e oggi qui è come riesumato al presente dentro il mio stereo, la seconda perché nel 2023 i CD sono già tramontati nelle collezioni e le avanguardie musicali alla Biennale di Venezia sono uscite dallo strumento per cercare musica nelle alghe marine e nelle cellule cerebrali durante il sonno. Fuori sincrono ma meglio definirlo asincrono questo disco senza tempo, come lo sguardo del suo autore, inafferrabile, vagante. 

Metafonie fu distribuito da Musicisti Associati Produzioni di Milano (M.A.P); al suo interno dieci brani dai titoli all’altezza dei contenuti, da Cantos2 il primo pezzo che rievoca Ezra Pound a Teofonia l’ultimo titolo; nel mezzo abbiamo Cosmic grunge, Interplanetarium più altri brani dai titoli giocosi e allo stesso tempo oscuri. Questo binomio giocosità/oscurità polarizza le espressioni del volto di Stefano Ordini su cui passano fotogrammi dei giochi da bambino e l’abisso di uno spirito errante nel volgere di poche battute.

Interamente suonato da Ordini e l’amico sassofonista Marcello Bronzi, che alterna sax soprano e tenore in duo affiatato col pianoforte, assieme ai cori metafonici e synthesizer, le improvvisazioni, i vocalizzi e tutto un campionario di invenzioni dalla mente del pianista. La mente sottolineo, perché credo che in lui il cervello sia un organo sonante, che trasforma la visione in musica e viceversa, che oltre a definire la coscienza, la sua mente compia incalcolabili attività inconsce che l’odierna musicologia (sempre con l’aiuto di Helmut Failoni) saprebbe meglio raccontarci. L’effetto musicale di Metafonie è ipnotico, il flusso è per lo più improvvisato unito da alcuni temi melodici suadenti di vago sapore ambient, inserti di voci corali tratte dall’archivio del ricercatore grossetano Marcello Bacci. Amico di Ordini, scomparso pochi anni fa, il Bacci (come lo chiamano qui) ha lasciato una serie di reperti sonori che era certo gli avesse concesso l’ultramondo, dalle più remote latitudini dell’infinito spazio.

Nel viaggio intrapreso con questo ascolto che ho rimandato a lungo per una vena di soggezione e il timore di rivelarmi al mio scetticismo razionalista, rivedo Stefano Ordini, la sua figura imponente dal grande capo rasato ai lati che mi ha fatto dire “punk” un paio di volte facendolo un poco ridere; vedo gli occhi languidi, dilatati dalle lenti spesse degli occhiali, le mani bianche e delicate come innestate da una natura benigna su braccia imponenti ma aggraziate; vedo un artista sviscerato e puro, un essere umano in estinzione.

Mentre mi mostra le sue ultime creazioni di natura pittorica ma di essenza musicale, sapendo di una recente pubblicazione con l’editore grossetano Cesare Moroni che sempre il caso ha voluto insediare nella nostra stessa via, gli faccio oggi qualche domanda.

 

Stefano, parlami un po’ dei primi acchiti, i primi accenni di musica nella tua vita.

S.O: A 16 anni capisco che voglio fare l’artista… Lascio il liceo classico e mi dedico alle mie cose, volendo subito vivere di musica il più possibile. Sono nato come organista, da bambino mi regalarono un organo Farfisa – avrò avuto 4-5 anni –  e iniziai a improvvisare i primi brani che mi piacevano… La prima volta fu però intorno ai 3 anni in un asilo di suore, trovando questo grande piano in fondo a un salone. “Ma chi ti ha insegnato a te?” mi chiese la priora. Era rimasta colpita. Mi affascinava questa scatola di legno posta in fondo a un salone immenso dentro un convento; si era a Firenze perché fino a 3 anni per motivi familiari ho abitato lì. Il Farfisa, un piccolo organo anni ’60 arriva poco dopo. Subito mi ingaggiò un gruppo di ragazzi più grandi, 24-25 anni, che appunto m’ingaggiarono per suonare canzoni di gruppi americani, tipo California dreaming mi ricordo, e anche altri. Già mi premuravo di distinguermi a livello compositivo, e già scrivevo cose di musica con una mia grafia personale… Volevo studiare da me, non accettavo gli insegnamenti. Mi avvicino qualche anno dopo all’organo di chiesa essendo obbligato alla messa della domenica mattina (qui siamo attorno ai miei 11 anni). Mi accordo col prete perché mi facciano suonare l’organo che mi permetteva già improvvisazioni, cioè sperimentare quello che allora intendevo per improvvisazione. Cominciavo a suonare poi sviluppavo il tema liturgico in modo personale e istintivo. Avevo già imparato a leggere le partiture delle canzoni da solo e così riuscivo anche a leggere gli spartiti che mi davano in chiesa. Poi mi ricordo un’altra esperienza giovanile, l’ingaggio per i campionati europei di baseball allo stadio Jannella di Grosseto, verso i 15-16 anni; prima di una partita mi chiedono di suonare l’inno di Mameli con l’organo… era in occasione della prima partita Italia-Olanda se ricordo bene e non so come ci sono riuscito quella volta… partendo da un accordo fisso il Do maggiore poi quasi per incanto mi sono uscite le altre note dell’inno che ovviamente conoscevo ma certo non lo avevo mai suonato; avevo trovato la melodia intuitivamente e fu una rivelazione davanti a migliaia di persone tutte in piedi ad ascoltare. Ora scusa, mi viene in mente anche la prima colonna sonora che feci per il reparto di ginecologia di Grosseto a 15 anni: accompagnavo musicalmente alcuni parti che venivano filmati e una volta stetti male perché mi fecero assistere direttamente all’evento.

 

Dopo la mia prima domanda sugli esordi, ha inizio un racconto torrenziale, inarrestabile, di cui ho stralciato alcuni momenti e qualche mio intervento.

S.O: A 16 anni avevo già un mio complessino con cui suonavo in giro per la città e qualcosa ci si guadagnava. Ero al conservatorio (il Luigi Cherubini a Firenze) – ho fatto tre anni – ma sapevo non era la mia strada. Mi stacco dopo tre anni con un diploma in musica elettronica e fonologia e mi dirigo verso la scuola di composizione internazionale di Fiesole con indirizzo avanguardia diretta da Sylvano Bussotti. Fu importante per l’idea che avevo maturato sul colloquio stretto tra le arti, la loro sinestesia. Bussotti – col suo “Rara film” – mi incantò: lui alternava musica a filmati, materia a visioni, vidi un suo spettacolo e ne fui folgorato. Da un’idea di Giuseppe Chiari – musicista d’avanguardia della scuola Bussotti –  feci un primo video e iniziai così a fare esperienze di musica grafica; comprendevo che attraverso la partitura si potevano creare disegni, figure, attraverso simboli e segni messi in legenda in fondo allo spartito. Il gesto e la visione entrano così nella mia musica, per non uscirne più. Certo, il risultato è sempre soggettivo, perché interpretare una pittografia musicale non è cosa univoca, si tratta di interpretare diciamo un’improvvisazione suggerita. Feci – ricordo – una novelletta di Bussotti proprio tra le prime cose: macchie che cascano dentro al rigo, disegni e simboli sul pentagramma, tutto era possibile, compreso creare un pulviscolo sonoro sull’insegnamento dello stesso Cardini. Io volevo diventare un autore personale che usasse tutte le arti mescolate alla musica. E sono sempre stato di tendenza italo-americana come ispirazione creativa, rivolto a filosofie orientali, sulle orme di John Cage. Ecco, questa scuola di Fiesole durò 3 anni perfezionandomi in “composizione moderna, pittura, grafia, teatro”, dopo il diploma di fonologia preso al conservatorio con un insegnante del calibro di Pietro Grossi.

Qualche anno dopo arriva il primo disco, Piano solo”, con Italian Records di Bologna, che di recente ha ricordato anche lo stesso Red Ronnie. Paul Bley e Keith Jarreth i miei riferimenti per quel disco. Avevo 19 anni e le idee non erano ancora chiare ma lo spirito si definiva. Riuscimmo a distribuire il disco, mi ricordo che lo portai a Firenze dallo storico Ceccherini e quelle poche copie furono vendute al volo, assieme a mie partiture. Ero soddisfatto, pensai ci fosse già un certo interesse per le mie cose, e così andai avanti.

Ricordi del primo film?

S.O: S’intitola Terms, film in musica per solo organo di chiesa, che portai a un concorso sempre a Fiesole… in quel periodo ho conosciuto Francesco Falaschi, compagno di vita e di cinema che poi diventa il regista con cui ho collaborato per diverse colonne sonore di suoi lavori per la Rai. Presto in quegli anni mi trovai a pensare che ero molto più avanti degli altri, il pensiero si fece aggressivo, divenni fobico-ossessivo nei confronti delle mie mani… avevo tantissimo materiale ma non sapevo più dove metterlo, i tempi erano prematuri, mi lasciai con la ragazza con cui stavo da tre anni -avevo vent’anni circa – caddi dentro una crisi piuttosto forte e mi fissai sulle mani (ovviamente strumento primo del lavoro) e a un certo punto smisi proprio di suonare. Avevo dolori – credo reali non di natura psichica –  dovuti sicuramente al pianoforte. Sono poi riuscito lentamente a sviluppare una tecnica di suono particolare, più rilassante, che rende la suonata morbida, il suono più rotondo, i glissati mi vengono tuttora molto meglio, o così mi pare. Molti anni dopo lessi Musicofilia di Oliver Sacks e con stupore vidi che c’erano alcuni paragrafi legati proprio ai disturbi neurologici dei musicisti; sorrisi perché qualcuno aveva scritto esattamente quello che temevo potesse capitare a me anni prima. Pensa che ora in un centro medico privato a Firenze c’è un reparto apposta per i disturbi dei musicisti… Non esageravo quindi a quel tempo, giusto?

La genialità in me veniva immediatamente riconosciuta ma mi accorgevo di essere un pesce fuor d’acqua… non ero inquadrabile, mi sentivo più di un pianista, un compositore-pianista e non era facile trovare spazi che potessero ospitarmi; volevo suonare le mie cose, mi consideravo un “out of the box” (fuori dalla scatola), avevo molte proposte senza un contenitore che le accogliesse, mi trattavano come un alieno… è sempre stata un’alternanza tra riconoscimenti importanti e momenti di forte alienazione.

Dicendo alieno mi porti alla domanda sull’incontro con Marcello Bacci e i suoi reperti. Come andò quell’incontro?

S.O: Ero molto esplorativo, mi accorgevo di dover fare cose nuove, esplorare appunto, allora ho approfittato di questa conoscenza di famiglia, Marcello Bacci, e lo sono andato a cercare.

Bacci aveva questi cori angelici misteriosi e mi venne in mente di usarli in musica, incentivato da lui che sosteneva che potevo essere il primo a fare una cosa del genere… Aveva una massa di voci infinita, voci che mi ricordavano alcuni cori di Bussotti o Stockhausen, suoni cosmici magari giunti dallo spazio… Aveva tutte queste cassette che io ascoltavo e in parte poi ho utilizzato nel progetto Metafonie. Nonostante le voci contrarie che mi scoraggiavano decisi di fare un disco utilizzando anche quel materiale.

Ti attraeva l’argomento?

S.O. La tematica spirituale è alla base di tutto il mio lavoro. All’inizio ero scettico poi lui mi mise davanti al fatto concreto, con una radio cui staccò la spina e a cui tolse anche le valvole mostrandomi che continuava poi ad emettere voci… Ero scettico sì, ma durante una seduta spiritica a cui Bacci m’invitò, una voce con accento spagnolo mi si rivolse chiamandomi “maestro del coro”. E’ vero, credimi! E’ tutto riscontrabile poi nell’archivio del Bacci.

Stefano, che cosa si intende per arte e musica metafonica?

S.O: Ho collegato il materiale paranormale appartenente a queste scienze di confine (in Italia così definite) ad aspetti creativo-musicali… nessuno aveva fatto una cosa del genere. Ma non l’ho fatto certo per sensazionalismo… Ho voluto inserire i cori angelici e una parte melodica nel disco, ma la maggior parte della musica che trovi è fatta d’improvvisazione che per me è il fulcro della questione musicale… nel jazz m’interessa solo l’improvvisazione, così come nel canto gregoriano la stessa cosa per dire… La musica si è cominciato a scriverla quando le parti diventavano tante e si rendeva necessario fissarle. Lo dico sempre, c’è un falso storico sulla musica antica, quella barocca ad esempio… i filologi hanno cancellato tutte le abbreviazioni, i simboli grafici che sottintendevano certi momenti estemporanei… anche nella classica nello schema tipico ABA, quando i musicisti ripetevano il primo movimento in realtà improvvisavano cose non scritte sullo spartito: lo stesso Mozart improvvisava… l’improvvisazione è sempre stata la cosa più ambita in musica e i musicisti classici l’hanno cancellata completamente. Questa cosa – lo dico sempre – ha creato un falso storico rispetto all’idea di musica classica.

Parlando delle tue colonne sonore?

S.O: Ho fatto 4 anni in Rai come collaboratore esterno, furono i primi lavori con l’estero: puntate sull’Australia, le Olimpiadi in Corea, collaborando per lo più col regista romano Sandro Spina. Lavorai con tutte le rete RAI negli anni ’80 e ‘90, anche come autore pianista: ricordo una volta in particolare, dopo un mio intervento musicale c’era quello di Ughi, il violinista Uto Ughi!… pensa alla qualità di proposte di allora in Rai.

Se ti dico Punk Jazz?

S.O: No, ma che c’entra il punk…?

Comincia a suonare il piano, a un certo punto si arresta, bagna il pollice di saliva e lo struscia sulla costola del piano scaturendo suoni dal suo interno simili a latrati di cane. “E’  Thumbrushing – mi dice – una mia invenzione, ma non è un gesto punk… succedeva qualcosa di simile già nelle avanguardie anni ‘30. Pensa che Bussotti compose un brano per frusta e pianoforte, Passion selon Sade, dove si frustava un piano, che ridere. Il pianoforte è uno strumento imponente, si presta alla teatralità, agli esperimenti nel mio caso anche timbrici più che fisici”.

Il tuo amico Bronzi ha fatto un film su di te, cosa ne pensi?

S.O: Sweet home, sì. Una bella esperienza, senza nemmeno la musica… sono stato muto per tutto il film, che mi sta bene così con tutto quello che ho fatto e detto un po’ di silenzio ci vuole.

Sei fotogenico poi… videogenico anzi.

S.O.: Non si sa bene perché, credo sia un insieme di cose tra ciò che appare e ciò che si può intuire di un artista.

Arriviamo alla pittura? Oggi che rapporto hai con questa? Parlami dell’ultimo tuo libro Arti&Pitture.

 

 

S.O: Quando mi avvicinai a Sylvano Bussotti sapevo che era un autore anche visivo e che prima o poi gli avrei sottoposto le mie partiture grafiche… Un giorno arrivai da lui con un faldone di miei lavori grafici e glieli sottoposi. Erano partiture disegnate appunto. Le scorse tutte più volte in un cupo silenzio – mi preoccupai – ma alla fine disse “Oh peccato che siano finite… Lei si considera un pittore? Io risposi “Non saprei…” e lui: “Secondo me sì”. Allora m’incoraggia e andai avanti; verso i 50 anni mi sono sentito a una svolta, o facevo un libro biografico oppure un libro d’arte, ho scelto di fare un libro d’arte così è nato Metagrafie da visioni anche oniriche (a me i sogni preannunciano sempre molto); un libro che aveva un cd allegato. Sono trascorsi anni e ho conosciuto l’editore Moroni, poco tempo fa; abbiamo immaginato un nuovo libro dove mi sono inventato sette nuovi stili pittorici, dalla pittura baccomorfa che mostra in primo piano ovali polisemantici a quella ufografica (pitture e partiture) perché le figure paiono ufo; pittura metafonica con masse corali disegnate e altre pitture ancora, erosculture, infine arte multiuniversale e multidimensionale, tutte assieme come a fare diversi libri in uno solo Ne ho inventate sette ma potevano diventare dieci, venti, cento (sorride)… Una galleria importante di Roma, L’attico di Fabio Sargentini sembra prenderà in esame le opere in buona parte raccontate nel libro Arti&Pitture; ho un collaboratore che gli ha sottoposto proprio questo bel libro fatto con Cesare Moroni – editore e ottimo fotografo –  e pare ci sia interesse. A Fabio Sargentini sono piaciuti soprattutto i miei ori su fondo nero, ci ha visto un astrattismo lirico… E poi i miei quadri arredano. Mi chiedono spesso un 3 metri per 4 ad esempio, magari per arredare una sala. Io dico sì, grazie, ma prima mi paghino (sorride)…

Uso la china, la matita, gli acrilici, uso quello che mi sento di usare in quel momento senza alcuna disciplina. Mi nascono immagini poi a un certo punto ci penso ci penso, magari per un mese o due poi butto fuori 500 disegni tutti di fila.

 

Il libro con l’editore Moroni è indefinibile, racchiude la summa del mio pensiero e del mio processo creativo, mettendo assieme spartiti, musica, figure, colore, ma anche testi, riflessioni, erotismo e sentimento. E’ un libro d’arte se proprio lo vogliamo definire come format: un genere che fanno i pittori o gli artisti visivi, in parte catalogo e in parte collezione di poesie visive. Cesare Moroni era piuttosto disilluso rispetto alle sorti di questo libro, ma le prime copie sono andate a ruba… a Milano, Torino, anche grazie alla presenza dell’editore al Salone del Libro nel 2021.

 

Io non so sempre definire tutto quello che faccio in termini figurativi, quello che devo pitturare e come, vado d’istino e allo stesso tempo quello che faccio alla fine garba a tutti, dalle menti più semplici al colto al critico, e questa è la mia fortuna, se non fosse così sarei costretto a fare l’artista borderline, l’incompreso – magari geniale – messo ai margini… adesso l’ultimo progetto per novembre si chiama Pianoforteatro, sempre assieme all’editore Moroni: si tratta di produrre grandi buste assortite come quelle anni ’60 dove c’era dentro di tutto, giornalini, gomme americane, giocattoli… Forse ne ho già preparato anche troppo di materiale: ci metterò cartoline, giornalini, disegni, partiture, e foglie… Vedi? – mi mostra una scatola piena di foglie colorate – queste le ho fatte quest’estate, si chiama Progetto Fogliame e mi ha agevolato l’incontro con una ragazza inglese (una critica d’arte) colpita dalle mie foglie;  me ne ha scritto varie volte, è stato uno scambio memorabile. Sono foglie di fico, magnolia, noce, foglie secche cadute nei dintorni di casa… visivamente mi colpivano la dimensione, le loro venature e le sfumature, i colori ovviamente. Mi dicevano tutti “E’ impossibile disegnare su questo materiale Stefano” ma invece a me è riuscito, e sono state apprezzatissime da varie parti tra cui questa critica inglese di cui ora non ricordo il nome. Mi hanno proposto un’istallazione sai con queste foglie, una performance “per piano aperto, pedale abbassato e caduta di foglie”: fa molto John Cage.

Sfoglio il libro nato dall’incontro con Cesare Moroni, Arti&Pitture e lo trovo psicotropo, seducente, indecifrabilmente autentico. E’ un volume di colori e forme, di sottilissime linee nere annodate su sfondi di tinte diafane, vaporose. Le erosculture sono opere rarefatte e raffinatamente discrete, così come le pagine di arte multiuniversale sono creazioni che rimandano al magico, al primordiale. Un libro capace di suonare raccontare e poi dissolvere ogni certezza. Un librononlibro, un metafonico metaforico oggetto d’arte che dischiude lo sguardo più intimo del suo autore, Stefano Ordini.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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