Arte
Fra domotica e territorio la mostra del Guercino innova il turismo culturale
Immaginate di poter illuminare la cupola di una grande cattedrale, accendendo in sequenza i diversi spazi. È quanto succede da qualche settimana nel Duomo di Piacenza, grazie alla mostra dedicata al Guercino.
L’operazione sfrutta tecnologie applicate solitamente alla domotica e le applica a un progetto illuminotecnico affidato a Davide Groppi (Compasso d’Oro 2014) nel contesto di un’iniziativa espositiva che, a partire dall’uso del 3D e della multimedialità, prova a innovare il format degli eventi legati all’arte antica. L’obbiettivo è rilanciare una città e un territorio tradizionalmente deboli sotto il piano della messa a sistema dell’offerta culturale.
Attorno alla cupola del Duomo di Piacenza è stato infatti costruito il progetto “Guercino tra Sacro e Profano” (4 marzo-4 giugno 2017), che consta di una mostra a Palazzo Farnese, affidata alla curatela di Daniele Benati, direttore della Pinacoteca di Bologna e massimo esperto di arte emiliana. Il visitatore ha la possibilità di ascendere all’interno del Duomo sino alla visione ravvicinata del ciclo di affreschi realizzato nel 1626/1627 dall’artista di Cento, grazie ai camminamenti originali dell’edificio romanico.
Duomo di Piacenza
Lo standard per mostre di questo genere, che richiedono un grande impegno economico, è di farle coincidere con ricorrenze centenarie, in modo da poter sfruttare le risorse. Ma non è questo il caso: Guercino è nato a Cento nel 1591 ed è morto a Bologna nel 1666.
Comune di Piacenza e Fondazione di Piacenza e Vigevano hanno deciso di provare a ridare consistenza al turismo culturale, valorizzando la cattedrale e mettendola al centro di un percorso che sfugge alla logica delle mostre a pacchetto, e sotto questo profilo crea un caso di forte discontinuità.
Nel passato più o meno recente, infatti, Brescia, Treviso, Ferrara, Forlì, Novara, Monza hanno tentato di riqualificare la propria offerta con esposizioni dal risultato garantito, puntando di volta in volta su impressionisti, Picasso, McCurry, Caravaggio. Nomi che da soli garantiscono incassi blindati. Ma la strategia si è però rivelata perdente sotto il profilo dell’indotto economico per il territorio. Viene infatti generato un flusso di presenze mordi e fuggi, poco interessate all’esplorazione degli altri beni artistici, che non gratifica neppure i segmenti della ristorazione e dell’ospitalità.
Le società produttrici di mostre sono spesso modellate sull’idea di tenere al proprio interno il numero massimo possibile di servizi accessori, in modo da massimizzare le proprie entrate, lasciando poche briciole alle altre realtà. Le più efficienti – ricordiamo la Linea d’Ombra di Marco Goldini quand ooperava nei Musei di Santa Giulia Brescia – sanno organizzare i flussi delle presenze in modo da fare cassa su tutto ciò che spenderà il visitatore dentro e fuori la mostra. Non è un caso che nessuno di questi tentativi ha dato vita a una presenza consolidata di iniziative espositive negli anni: si tratta di modello di sfruttamento intensivo, che dopo aver depauperato la possibilità di generare interesse localmente intorno all’arte dismette la propria presenza e ricomincia da un’altra parte.
A Piacenza si è provato a fare altro, mettendo assieme le energie della città e della Diocesi, con il contributo della fondazione legata alla vecchia cassa di risparmio e di Crédit Agricole Cariparma. Nella sacrestia superiore della cattedrale è stata creata un’installazione site-specific che per forma e dimensioni rimanda all’ottagono della cupola. All’esterno la struttura è ricoperta di specchi, in modo da rimandare e moltiplicare l’immagine degli stalli del coro ligneo che la circonda. All’interno diventa invece una stanza poligonale modulata attraverso un videowall composto da dodici schermi di grandi dimensioni collocati verticalmente, in modo da poter riprodurre e gestire le immagini degli affreschi in altissima risoluzione.
Lo spettatore compie così un viaggio dentro l’epoca e il contesto di realizzazione degli affreschi, guidato da un’animazione dello stesso Guercino, che introduce i disegni preparatori, le tecniche esecutive, i motivi iconografici, e poi invita a salire virtualmente con lui sui ponteggi, per osservare come ha dipinto “a buono fresco” le figure, riprodotte in dimensione al vero. Qualche concessione all’intrattenimento c’è, come l’immersione nelle musiche di Monteverdi. Ma la tenuta filologica è garantita dall’utilizzo dei documenti d’archivio (la bottega del Guercino ci ha lasciato in tal senso rendicontazioni precise) e dei dati scientifici ricavati dall’ultima campagna di restauro.
La visione diretta degli affreschi passa per le scale ricavate al momento della costruzione della cattedrale nello spessore di muratura, che mettevano in collegamento tutti i livelli soprastanti di gallerie e consentivano di accedere ai matronei e alle parti alte della basilica, in modo da effettuare gli interventi di manutenzione. La riattivazione di questi passaggi costituisce un elemento di interesse non strettamente legato al contenuto della mostra, e si rivela estremamente spettacolare, perché apre ad affacci vertiginosi sulla navata e sulla città.
Per ammissione dello stesso Davide Groppi, l’operazione non procede da un’intenzione filologica, dal momento che gli affreschi sono stati realizzati per essere contemplati attraverso la luce naturale. «Il rischio è sempre quello di falsificare l’opera», spiega il designer piacentino. «Solo conoscendo i metodi e gli intenti dell’artista si possono trovare i significati ed eventualmente, attraverso la luce, raccontare una storia. È il tema della foto-grafia, ovvero della scrittura con la luce. Quello che abbiamo cercato di fare nella cupola del Duomo di Piacenza è proprio questo: costruire un racconto che ci permetta di capire e di pensare che la luce non è solo visione, ma anche comunicazione».
A determinare l’occasione dell’intervento del Guercino nella cupola fu, nel 1625, la malattia che colpì l’artista incaricato inizialmente dai canonici della cattedrale, il Morazzone, che riuscì a completare solo due degli otto spicchi dedicati ai Profeti. Interrotti i lavori, l’artista lombardo di lì a poche settimane morì e a maggio i committenti avevano già recuperato dagli eredi suoi l’anticipo di 1.450 lire imperiali, che girarono integralmente al pittore, con l’aggiunta di altri 450 ducatoni e la concessione di una casa arredata.
I registri indicano due acconti, 3 luglio e 11 ottobre, e un saldo al 15 dicembre 1627: la data entro cui l’opera doveva essere pressoché terminata. Guercino dipinse così i sei settori rimanenti della cupola, le otto lunette in cui si alternano figure di Sibille ed episodi della vita di Gesù, mentre il fregio del tamburo venne probabilmente affidato ai suoi aiuti. Il tema del ciclo è una meditazione su Maria, titolare della cattedrale, la scelta dei profeti cade su chi ha predetto l’incarnazione di Cristo, la maternità della Vergine e la sua grandezza, come attestano i passi scritturali che accompagnano le figure.
Guercino non amava l’affresco, perché la tecnica poco si adattava ai cambiamenti in corso d’opera, e non a caso per la cupola di Piacenza, che appartiene alla fase centrale della sua produzione, aveva approntato un numero altissimo di disegni preparatori.
Guercino, Sibilla
Proprio l’idea di definire il continuum tra l’attività di frescante e la produzione su tela ha dato vita alla mostra “Guercino tra Sacro e Profano” che integra la visione della cupola con una selezione di opere rigorosa anche se un po’ drastica nel voler rappresentare l’intera attività del maestro in poco più di venti dipinti. La succinta monografica predisposta nella Cappella Ducale di Palazzo Farnese va letta dunque come un compendio.
Altre mostre più complete si sono viste sul Guercino e altre certamente se ne vedranno in futuro. Questa, visto il numero delle opere, ha da un lato il pregio per una volta di aver convocato solo opere in cui non si vede la mano della bottega e dall’altro il pregio di tentare un fulmineo excursus non solo nelle diverse fasi della produzione ma anche tra i generi.
La stessa riscoperta di questo pittore, che negli ultimi vent’anni è stata la vera e propria star del mercato “old masters” è legata, oltre che all’ampiezza del numero delle opere riferibili al suo autografo, anche a una duttilità del suo fare pittura, alla “varietà di registri”, alla capacità di transitare da una ricezione veloce della pittura realistica caravaggesca al classicismo nella variante emiliana al teatro barocco della rappresentazione dei sentimenti.
Per molti versi Guercino doveva risultare ostico all’occhio dei contemporanei. «Troppo naturale negli anni in cui andava affermandosi la pittura sbilanciata sulla ricerca del bello ideale; troppo composto e recitato quando urgeva l’estroversione barocca; troppo poco nobile nell’affrontare gli alti temi della pittura di storia sacra e mitologica quando a essa si chiedeva un riscontro sul parametro alto delle passioni», scrive Benati.
È stato Denis Mahon a riscattare Guercino dal sospetto di medietas e di eclettismo, ridandogli il posto che meritava nel contesto della pittura europea del Seicento e facendone un artista di tardivo e improvviso successo commerciale. Ma va riconosciuto che oggi i pezzi da novanta del pittore sembrano toccare le corde di una sensibilità non lontana alla nostra, laddove la gran parte degli emiliani antecedenti e coevi, da Annibale Carracci a Guido Reni passando per tutti i caravaggisti e i neoclassici ne sembrano lontani. Forse solo Guido Cagnacci, che però martella su pochi stilemi e soggetti, ci è altrettanto affine e congeniale.
Dal Matteo e l’Angelo dei Musei Capitolini a La Morte di Cleopatra di Palazzo Rosso, dalla Susanna e i Vecchioni della Pillotta all’Ortolana in collezione privata a Modena, per arrivare al sublime paesaggio dell’olio su rame di piccolo formato del Concerto Campestre agli Uffizi al celeberrimo “Et in Arcadia Ego” di Palazzo Barberini, sino a quello che sembra qualitativamente il numero uno del suo catalogo giovanile, il lume serrato del serico Cristo risorto appare alla Madre della Pinacoteca di Cento, Guercino ci appare ancora come un uomo che sta dentro il nostro stesso tempo, per unità e sintesi di racconto e visione, emozione del colore e delle sue accordature.
È la pittura in cui Roberto Longhi riconosceva «il soffio scottante della vecchia Ferrara» e che tenta sempre un approccio che mischia lingua aulica e di vernacolo. Forse proprio per questo è perfetta per tentare il rilancio di Piacenza, che ai milanesi evoca oggi più i colli che la città, e agli emiliani più Milano che una cosa loro.
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Guercino, Et in arcadia ego
Guercino, Cristo risorto appare alla madre
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