Arte
Giulio Cesare Procaccini, la via italiana a Rubens
Ci sono molti modi per arrivare a Giulio Cesare Procaccini, l’artista che più di ogni altro è protagonista della mostra “L’ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri”, al punto che non si va lontano dal vero nel sostenere che l’esposizione delle Gallerie d’Italia contiene a suo modo quella che è probabilmente la monografica più importante realizzata con i mezzi oggi a disposizione sul pittore emiliano. Proprio la scelta di procedere nella ricostruzione di quello stile “colorato” e di fatto anti-caravaggista, o di caravaggismo molto attenuato, partendo dal confronto tra le tre redazioni del “Martirio di Sant’Orsola” del Merisi, dello Strozzi e, appunto, del Procaccini, determina però una specie di sfasatura temporale, uno slittamento rispetto a un’altra narrazione possibile, che proceda da Milano verso Genova, e non viceversa.
Se infatti si retrocede di poco più di un decennio, occorre interrogarsi sulla fortuna che poteva aspettarsi un ragazzo cresciuto nell’ambito del linguaggio veneto del Peterzano, illuminato dall’esempio del Savoldo e del naturalismo che tornava episodicamente a manifestarsi nella pittura milanese. E dunque domandarsi se, al di là delle vicende biografiche che hanno spinto il giovane Caravaggio a Roma in un momento tuttora imprecisato dell’ultimo decennio del Cinquecento, non vi fosse proprio un’incompatibilità di fondo dei suoi modi pittorici giovanili (che qualcuno, come ad esempio Gianni Papi, vorrebbe esemplati sull’Arcimboldo o comunque influenzati da un passaggio per la bottega di questo) o comunque con ciò che stava accadendo a Milano.
Proprio il trasferimento in città dall’Emilia della bottega dei Procaccini, unitamente all’affermazione di Giovanni Battista Crespi detto il Cerano, sono alla base di un radicale rinnovamento figurativo, all’insegna di un linguaggio altamente spettacolare, senza alcuna intenzione naturalista, estremamente efficace dal punto di vista narrativo e didascalico. Questo stile troverà una sorta d’investitura ufficiale in occasione della beatificazione di San Carlo Borromeo (1602) e poi della sua canonizzazione (1610).
I grandi “quadroni” del Duomo con la vita e i miracoli del Borromeo saranno al centro di un vero e proprio culto promosso con una straordinaria operazione di organizzazione del consenso dal cugino, il cardinal Federico. I due cicli di teleri-si tratta di due serie di ventotto dipinti ciascuna, la prima di dimensioni molto importanti (6×4,75 m.), la seconda di misura più ridotta (2,4×4,4 m.), sono al centro di una serie di altre imprese pittoriche e decorative che segnarono uno dei momenti più alti della storia artistica milanese. All’interno di quella pittura che preferiva l’effetto al rigore, la vivacità cromatica al realismo, e la facile presa al rigore morale che avrebbe informato l’opera romana del Caravaggio, c’era spazio per campioni dello stile esornativo come il Cerano, per un artista di solidissima formazione classica, abilissimo nel disegno e nella resa dei tessuti quale il Morazzone, ma anche per uno stilista più monumentale come si rivela Giulio Cesare Procaccini.
Sul tavolo di lavoro ho due testi ormai sempre meno consultati, che però consentono ancora di sbozzare un ritratto verosimile di Giulio Cesare e di capire perché fu quello tra gli emiliani che immediatamente piacque a Federico Borromeo e ai collezionisti e committenti milanesi. E ancora, dopo il successo lombardo, come mai fu ancora lui a imporsi prima in Piemonte e poi a Genova. Uno è la “Mostra del Manierismo piemontese e lombardo del Seicento” di Giovanni Testori. Il saggio risale a un’esposizione che si tenne a Ivrea, presso il Centro Culturale Olivetti, dal primo al quindici luglio 1955, con opere di Moncalvo, Cerano, Morazzone, Tanzio da Varallo, Daniele Crespi, Francesco Del Cairo, dei Nuvolone e del Procaccini. Che però appare nel profilo critico disegnato dallo storico dell’arte milanese non totalmente allineato al resto della compagnia.
Scrive Testori: “Non dirò piemontese, ma neppure lombardo, e nemmen milanese, Giulio Cesare Procaccini, in pieno, non fu mai; quest’affermazione, si badi, non intende toglier nulla alla parte che il Procaccini sostenne nel nostro manierismo; al contrario intende precisarla, per via di quegli apporti che, venendo, come si disse, a Milano, e tanto presto, egli portò con sé e diffuse poi negli altri. Di lui, inoltre, non va dimenticato il peso assunto nei rapporti tra Genova e Lombardia, rapporti che a un certo punto divennero fittissimi. Infatti Giulio Cesare fu a Genova per qualche tempo (all’incirca sul 1618) e vi lasciò opere che servirono a tutti i genovesi, anche a quelli delle generazioni successive, come dimostrano il Piola, il Castello, il Biscaino e perfin il Guidobono”.
Testori mostra così di conoscere la biografia di Raffaello Soprani, che colloca il soggiorno a Genova del Procaccini proprio nel 1618, anno a cui Carlo Boccardo propone sin dal 1992 di riferire l’intera realizzazione della monumentale “Ultima Cena” per Sant’Annunziata del Vastato. E pur riconoscendo a Giulio Cesare una congruenza agli artisti esposti a Ivrea, ne precisa una diversa attitudine, in primis per l’assenza di una formazione nel segno del piemontese Guadenzio Ferrari, e poi una posizione eccentrica anche nei grandi apparati decorativi. “…lo si trova solo nel ciclo carliano e neppure per le tempere più grandi, ma per le piccole, quelle dei Miracoli, ch’egli eseguì insieme al Cerano tra il ‘6 e il ’10. Ora poiché questo non avvenne per scarsità di fama presso la Fabbriceria milanese, dov’era chiamato anzi “peritissimo”, deve farsi logicamente dipendere dalla sua natura e dalla sua disposizione”.
L’irriducibilità del Procaccini agli schemi della pittura milanese d’ascendenza piemontese ha a a che fare per Testori con “un tal languore, più propriamente una sorta di grazia estenuata, e una maestrevole perizia, che gli fecero preferire sempre le situazioni di privilegio a quelle di scacco, segnarono di un blasone aristocratico tutta la sua produzione: signore, le sue madonne s’atteggiarono a dolori e gioie, piansero e sorrisero, come se le loro lacrime fossero non meno profumate dei loro aliti. Aliti e lacrime che si rappresero sulle guance o attorno ai visi, come polle dove le loro bellezze si moltiplicarono”.
L’altro testo, anch’esso lontano nel tempo, appartiene ai Saggi Introduttivi della mostra “Il Seicento Lombardo” che si tenne a Palazzo Reale nel 1973. Marco Rosci, che è stato tra le altre cose il più attento studioso e biografo di Giovanni Battista Crespi , disegna nell’occasione un ritratto artistico del Procaccini proprio in contrapposizione al Cerano, partendo ancora dai teleri del Duomo: “Giulio Cesare dispiega morbidi e dolci impasti di barocceschi cangiantisimi, raffrenata e nobile amministrazione del gesto retorico”. E ancora: “…insoma, una pittura, sotto l’accuratezza della lussuosa superficie, introversa, per “intendenti”, primo atteggiamento di un atteggiamento mentale e culturale che, quando le classi dominanti toccheranno il fondo dell’alienazione, sfocerà nell’equivocità totale del Del Cairo”.
Dal languore di Testori all’equivocità di Rosci, viene fuori un profilo di Giulio Cesare che va forse oggi parzialmente corretto, perché neutralizza la forza di un pittore che a Milano porta sì disegno, tratto, eleganza, classicità degli emiliani, ma che è anche di formazione scultore, e anzi come scultore dà probabilmente le prime prove di sé in città, nel cantiere allora più importante dopo quello del Duomo, Santa Maria dei Miracoli presso San Celso.
C’è però un altro luogo milanese dove i pittori pestanti, quelli sui cui spira una brezza nordica e piemontese, quali invece più inclini alla descrizione della realtà, i decoratori sontuosi e i manieristi fuori tempo massimo sembrano convergere. Una fabbrica apparentemente defilata, che però oggi riemerge nell’integrità impressionante della rappresentazione di quell’epoca concitata. Si tratta di Sant’Antonio Abate, la chiesa dei Teatini che Carlo Borromeo aveva chiamato a Milano, e che l’arcivescovo volle premiare con una sede centrale (originariamente erano in Santa Maria presso San Calimero fuori da Porta Romana) a ridosso dell’Ospedale Maggiore, in virtù dello straordinario impegno durante la pestilenza del 1576. Nell’edificio, che presenta una pianta a croce latina con un’unica navata su cui aprono tre cappelle per lato (con volta botte decorata dai Giovanni e Giovan Battista Carlone con le “Storie della Croce”, tema eminentemente teatino), Giulio Cesare si vede affidare la decorazione della Cappella Acerbi, la seconda a sinistra.
I Padri Teatini stipularono nel 1609 con il giureconsulto Ludovico Acerbi un contratto in cui acconsentivano alla costruzione di una cappella, che sarebbe stata ornata con pitture, stucchi e marmi. Sopra l’altare, ancora di impronta tardo cinquecentesca, il Procaccini dipinse la pala con l’ “Annunciazione”, mentre nei laterali realizzò la “Visitazione” e la “Fuga in Egitto”, completando la volta con la tela a tempera de l'”Eterno” e con un altro quadro sovrastante che raffigura tre angeli. La realizzazione è stilisticamente vicina ai quadroni del Duomo, e si colloca dunque entro la conclusione del primi decennio del secolo, in un momento in cui il pittore sembra tornare al modellato dolce della pittura emiliana, con figure allungate che paiono aggiornare alle conquiste recenti di Rubens, ai suoi timbri cromatici straordinariamente brillanti, l’eccellenza disegnativa di Correggio e Parmigianino.
L’opera segna comunque un raffreddamento rispetto alla “Trasfigurazione con i santi Basilide, Cirino e Naborre” che si trovava nella chiesa di San Celso affidata ai canonici di san Salvatore e contigua a Santa Maria dei Miracoli (ma più antica). La tela venne dipinta per il patrizio genovese Cesare Marino, nipote del banchiere Tommaso, e l’incarico al Procaccini è legato a un sistema di committenze che al rapporto coi finanzieri genovesi somma il rapporto con i Visconti Borromeo, con cui i Marino erano imparentati. Il dipinto raffigura nella parte superiore la trasfigurazione di Cristo tra i profeti Elia e Mosè, alla presenza degli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni e, nella parte bassa, i tre santi guerrieri le cui ceneri vennero rinvenute da Carlo Borromeo nel 1581 in san Celso. Al Marino spettava appunto il patronato del sacello. Fondamentale per la datazione è il volto dell’uomo al centro nella parte inferiore, che è un autoritratto di Giulio Cesare, a un’età di poco superiore ai trent’anni, il che fa pensare a una realizzazione entro il 1607. La citazione di Raffaello (forse meditata durante un viaggio a Roma) s’intreccia a quella dei dipinti per la Chiesa della Trinità di Mantova di Rubens. Qui Procaccini sembra esprimersi in un linguaggio che tende già al barocco, mentre in Sant’Antonio la sua esuberanza appare raffrenata, forse a contatto con una committenza più severa e per coerenza con la maniera più contenuta degli altri pittori pestanti.
Devi fare login per commentare
Accedi