Arte
Gardini: «L’Italia deve riscoprire il Rinascimento»
Rinascimento. È una parola di cui si abusa, in Italia come nel resto del mondo. Quasi una buzzword, per dirla con un certo gergo manageriale. Quante volte, in tv o alla radio, si parla di “rinascimento dell’economia italiana”, “rinascimento del paese”, rinascimento di questo e di quest’altro. “Japan’s Seto Inland Sea islands enjoy artistic renaissance” si può leggere sul magazine di un’importante testata di Hong Kong. Il New York Times di qualche mese fa titola: “Renaissance man”. Si tratta di un articolo su 50 Cent, il rapper americano che, da vero polimata, è un cantante di successo (più di 22 milioni di album venduti), ha fondato una ditta di cuffie, è co-proprietario di un marchio di vodka e di una linea di intimo maschile d’alta gamma.
L’anno scorso ho avuto il piacere di chiacchierare un po’ con una persona che, quando si parla di Rinascimento, sa di cosa si parla: Nicola Gardini, docente di letteratura italiana e comparata a Oxford. L’intervista-fiume (per colpa mia, che continuavo a fare domande) doveva essere pubblicata su una testata che purtroppo oggi non esiste più, ma dato che il professor Gardini è uno studioso di grande intelligenza e cultura, ecco qui sugli Stati Generali alcuni brani scelti. Per chi volesse approfondire, e saperne di più su una delle fasi cardinali della civiltà italiana (e occidentale), giova la lettura di “Rinascimento”, 324 pagine, Einaudi (l’autore, ovviamente, è Gardini).
Professore, sgombriamo subito il tavolo da equivoci. Cos’è il Rinascimento? Lei ha scritto un saggio a riguardo…
C’è molta confusione su questo termine. Chiaramente è un termine molto complesso, la cui fortuna in un certo senso è recente, anche se circola da un secolo e mezzo, forse anche di più. Qualcuno lo considera una designazione temporale (e non è così), e lo estende fino agli albori del ‘700. Qualcuno non vuole più parlare di Rinascimento perché il concetto è ambiguo, e lo vuole sostituire con “Early Modern”. Altri negano che l’Italia sia la culla del Rinascimento e pongono il vero Rinascimento nella Francia carolingia dell’800 d.C. Ci sono forti disaccordi sulla collocazione geografica, sull’estensione temporale…
Con il libro che lei cita ho tentato di fare ordine nella storiografia sul concetto. Capire quando è nato il termine, quando è stato concettualizzato, quando è stato confezionato, da chi e per quali ragioni. Il Rinascimento è una metafora, e dunque come tale va trattata. Ha iniziato a diffondersi sin dalla metà del ‘500, con altri significati in realtà, ma prima ancora che il termine si diffonda è già presente quest’idea, innegabile, di rinascita. È una cultura alta, cortigiana. Molti di coloro che negano l’esistenza del Rinascimento sostengono che per i contadini, la gente comune, le condizioni di vita erano ancora quelle del Medio Evo. Queste sono argomentazioni speciose, però. È ovvio che per i contadini non cambiò granché, ma si trattava di un mondo con cui il Rinascimento aveva ben poco a che fare. Il Rinascimento è la cultura delle classi reggenti, che legittimavano il proprio potere attraverso il lavoro di pittori, scultori, scrittori, politici, eruditi e anche scienziati, medici, architetti…
Ok, una élite che si autolegittimava dal punto di vista intellettuale e culturale. Ma nei confronti di chi si legittimava?
Era un’autolegittimazione dinastica. Si legittimavano davanti ai posteri, si davano una discendenza e un’ascendenza…
Una parte significativa di questa élite era composta da homines novi, ad esempio i Medici. Che dovevano legittimarsi anche nei confronti di dinastie ben più antiche e potenti. Pensiamo solo agli Absburgo…
Certo, naturalmente. Il caso dei Medici è corretto, tanto più che i Medici in effetti non erano una corte bensì dei borghesi con tanti soldi e la capacità di influenzare potentemente la vita cittadina. Firenze era fiera di essere una repubblica, e pertanto la famiglia Medici aveva ancora più bisogno di sostenere i vari Michelangelo, Marsilio Ficino… E poi c’era anche il discorso della competizione fra élite, anzi una delle cause profonde del Rinascimento è stata proprio la frammentazione territoriale, politica; frammentazione che ha provocato la rovina dell’Italia nel corso dei secoli futuri, ma che allora spinse i vari potentati in concorrenza tra loro a eccellere. C’era una vera e propria gara ad accaparrarsi gli artisti migliori, talvolta pure a scambiarseli. Pensiamo a Leonardo, che finisce addirittura a lavorare per il re di Francia, o a Michelangelo, che da Firenze passa a Roma… Bisognava legittimarsi pure agli occhi degli altri, ecco.
In effetti vari storici dell’arte hanno segnalato il forte nesso tra élite finanziarie/industriali e l’arte “alta”. Questa è un po’ una costante della storia…
Assolutamente. Ed è un modello che ancora funziona in certe società, ad esempio negli Stati Uniti. Peraltro chi sostiene la cultura, chi fa importanti donazioni a teatri, musei e così via può beneficiare di enormi sgravi fiscali. Anche l’Inghilterra per certi aspetti si sta avviando verso questo modello…
Interessante che ciò non avvenga in Italia.
Il discorso sarebbe molto lungo. Però l’Italia è statalista. Vede con sospetto le intrusioni dei privati, nonostante ci siano stati fulgidi esempi di patrocinio privato, pensiamo a Olivetti… Probabilmente non aiuta l’assenza di leggi che stimolino in tal senso. E poi l’Italia si è troppo abituata alla bellezza, ha perso una profonda partecipazione affettiva al significato di questa bellezza. Non è un caso che i più grossi promotori d’arte al mondo siano gli americani: loro non hanno la lunga tradizione di capolavori e monumenti che abbiamo noi, quindi vedono nelle arti qualcosa di nuovo e fondamentale, da salvaguardare e su cui investire. In Italia no. La cattiva amministrazione, una forma di arrendevole assuefazione al peggio, il cinismo, un misto di conflittualità incrociate, una scarsa mentalità imprenditoriale… tutto ciò a mio parere contribuisce al declino del patrimonio artistico. D’altra parte, guardiamo come vengono maltrattati i turisti in Italia. Il nostro paese ha perso molti punti nelle graduatorie internazionali delle nazioni più turistiche, ed è del tutto comprensibile.
Tornando al Rinascimento… qual è il rapporto tra Rinascimento e Umanesimo?
Esiste una storiografia che tende a distinguerli, e che considera l’Umanesimo precedente al Rinascimento. In realtà i due termini sono del tutto sovrapponibili. C’è il Rinascimento perché c’è l’Umanesimo, ossia una cultura delle humanae litterae formalizzata, ricostruita e divulgata attraverso la riscoperta dell’antichità classica. Tutto parte da lì, dalla scoperta dell’antico. Si tratta di una scoperta in primo luogo materiale: fior di manoscritti che prima non erano mai stati letti, né sistemati, né corretti e così via tornano alla luce… Ma si tratta anche di una vera e propria concettualizzazione di un tempo anteriore, che va chiamato antico, rispetto al quale il presente si pone come rinascita.
Inventare il Rinascimento significava inventare l’antico, prima di tutto, e poi un tempo successivo all’antico, il medioevo, rispetto al quale il presente costituisce un miglioramento. Questo è il punto di partenza. È vero che è difficile definire Machiavelli un umanista nel senso stretto in cui è umanista un uomo del primo ‘400. Umanista per antonomasia è Leon Battista Alberti, anche perché l’Umanesimo tende a essere identificato con la scrittura in latino invece che volgare, benché non sia proprio così. Del resto persino in Galileo Galilei (e siamo alla fine del ‘500, nel primo ‘600) si trovavano profondissime tracce di Umanesimo. Cos’è allora il senso profondo dell’Umanesimo, e quindi del Rinascimento? È la fiducia nella risolvibilità delle difficoltà. E con il Principe Machiavelli è un grande, grandissimo Umanista…
Al contrario, il pensiero del Guicciardini è intriso di pessimismo.
Certo. E infatti Guicciardini non perde occasione per dire che gli antichi sbagliavano. Perché l’Umanesimo è anche un trovare soluzioni partendo dagli esempi della storia.
E con storia si intendeva quella del mondo greco-romano.
Esatto.
Però alcuni umanisti criticavano l’antichità, e tacciavano di esagerazione la storiografia romana.
Naturalmente il rilancio dell’antichità comportava anche forme di critica e riduzione del senso dell’antico destinate a crescere nel tempo. Si arriverà a una vera e propria polemica tra moderni e antichi, che esploderà in Francia, ma avrà echi pure in Italia. Addirittura la cupola del Brunelleschi a Firenze è un superamento degli antichi.
Quindi si fa meglio.
Si fa meglio. Benché Vasari continui a insistere sul fatto che Brunelleschi si formò a Roma studiando gli edifici degli antichi. Insomma, dall’antichità si parte ma si riesce pure ad andare oltre.
Oggi si fa l’equazione Rinascimento = arte e letteratura. In realtà il Rinascimento è stato anche scienza, tecnologia.
Parlare di vera e propria scienza forse è ancora prematuro, secondo quello che raccontano gli storici della scienza. In questa fase prevale ancora l’artigianato. Tuttavia, nel caso della cupola del Brunelleschi, è dimostrato che senza precedenti studi teorici, matematici, la cupola non sarebbe stata costruita. Al contrario, i costruttori delle pur meravigliose cattedrali gotiche procedevano empiricamente, senza basarsi su calcoli precisi, a tentativi insomma. La pratica aveva consolidato certe consuetudini edilizie e si andava avanti così… con il Rinascimento no, c’è uno studio molto più attento della trattatistica antica, di Vitruvio, e al contempo però il tentativo di andare oltre Vitruvio, oltre gli antichi. E questo è già un cambiamento, che nel Brunelleschi si vede.
Brunelleschi è un caso, a mio parere, emblematico. Lui era sia un abile artigiano, capace di costruire persino orologi, sia un grandissimo artista, sia un conoscitore della matematica, della geometria… Con il Rinascimento le arti pratiche riprendono quota, per così dire…
Certo, finalmente nelle arti liberali entrano anche le arti pratiche che tradizionalmente erano state considerate subalterne, ancillari, se non squalificanti. Il primo, diciamo, a promuovere la pittura a rango di arte liberale è Leon Battista Alberti. E il Vasari avrà parole di lode per gli artisti in grado di usare anche la penna, capaci di scrivere, come il Bronzino, o lo stesso Michelangelo. Persino Raffaelo, che pure non è certo ricordato per le sue poesie, si cimentò nella composizione di versi.
Il rinascimento ha fiducia nelle capacità dell’uomo di andare oltre. Forse nell’Italia di oggi avremmo bisogno di un po’ di fiducia rinascimentale…
Sì, è quello che manca in Italia. Deve rincominciare da lì. Ma più che dall’alto, secondo me, dal basso. Deve ricominciare dalla scuola, dalle elementari. Bisogna ridare un senso alla vita umana. Non intendo da un punto di vista religioso, io non sono un uomo religioso, però forse sono un uomo di fede, dal momento che credo moltissimo in quanto abbiamo detto fino ad ora. Il Rinascimento, diciamo, è un dovere di ogni civiltà. Tutti prima o poi avvertono una certa stanchezza, intere civiltà. Lo dice bene anche Machiavelli nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio… secondo Machiavelli fu un bene che i romani fossero sconfitti dai galli, perché così si poterono rimboccarsi le maniche e ricominciare. Sa, Machiavelli in fondo era un ottimista, a suo parere si deve toccare il fondo per poter risalire.
Secondo me in Italia si è ormai toccato il fondo. Il mondo è depresso in generale, ma da noi vedo una depressione davvero profonda, ormai è attendismo endemico, la concentrazione del potere nelle mani di pochissimi, disoccupazione. A mio avviso si può ripartire soltanto se recuperiamo entusiasmo, capacità di collaborazione, fiducia negli esseri umani, desiderio di aiutare chi non riesce a trovare la propria strada. Serve fede, volontà, gioia, ecco.
Parliamo un momento del suo percorso intellettuale. Lei nasce in Molise, ma a tre anni va a Milano, dove studia al liceo classico.
Al liceo Manzoni, sì. Poi la laurea in lettere classiche alla Statale, con una tesi su Ammiano Marcellino, storico del tardo impero.
Qual è stato il percorso che lo ha portato a occuparsi di Rinascimento?
Sono andato in America, alla New York University, a fare un dottorato. Lì ho studiato di tutto, ma alla fine ho deciso di dedicarmi agli studi rinascimentali, dato che conoscevo il greco e il latino. Ho fatto una tesi sull’imitazione, imitatio, della poesia lirica antica, in particolare Pindaro e Orazio, in alcuni poeti francesi e inglesi, e poi anche italiani. Dall’America sono tornato in Italia, dove ho insegnato latino e greco prima a Lodi, e poi proprio al Manzoni. Poi ho vinto un concorso come ricercatore, e sono finito all’università di Palermo. Quello è stato un periodo molto difficile della mia vita… per fortuna alla fine sono approdato a Oxford.
Com’è insegnare e vivere a Oxford?
Si tratta di un’istituzione molto diversa da tutte quelle che ho conosciuto. Io ho insegnato sia in varie università italiane, sia in America, ma Oxford è qualcosa di unico. È un luogo dove i ragazzi personalizzano moltissimo il curriculum. Studiano solo certe cose, quelle che davvero interessano loro. Iniziano a specializzarsi da subito…
Vuole dire che non devono sorbirsi il pastone di materie che contraddistingue l’università italiana?
No, assolutamente no. Sono lì non per imparare quantitativamente ma qualitativamente. Per cui possono anche non leggere e studiare molte cose, ma devono capire profondamente ciò che leggono e studiano, scrivere saggi settimanali sui testi letti, imparare ad argomentare. È un’università con obiettivi pedagogici chiarissimi: lo studente deve imparare a scrivere bene e ciò che scrive deve essere ben argomentato, idealmente inconfutabile. L’insegnante non è colui che inculca il sapere e si erge a modello e giudice, ma piuttosto una persona che aiuta a sviluppare al meglio le capacità logico-deduttive ed espressive dello studente.
Come concilia l’essere docente in una delle migliori università del mondo e la sua attività di scrittore? Con Feltrinelli, ad esempio, ha pubblicato i romanzi “Fauci”, “Le parole perdute di Amelia Lynd”, “I baroni”, “La vita non vissuta”…
In realtà Oxford aiuta. È un luogo che concilia la concentrazione, l’attenzione, è a tratti quasi un eremitaggio. Anche se in realtà passo le giornate con tantissime persone: studenti, colleghi, e poi la vita accademica lì è fatta di riunioni, commissioni… La verità è che sono molto organizzato, altrimenti la vita scivola davvero tra le mani.
Lei è organizzato?
Sì, credo di esserlo. Ho il bisogno quotidiano di scrivere qualcosa, leggere molto, aggiornare le mie conoscenze. Nullus dies sine linea, ecco.
Perché scrive?
Credo che dietro il mio scrivere ci sia una volontà di ordine e auto-gratificazione. È una cosa molto forte in me. In un certo senso, è anche una terapia. Però una terapia che voglio estendere al mio prossimo. Non nascondo che anche nei miei romanzi io cerco di insegnare. Lo so, è una parola grossa, ma è così. Cerco di trasmettere dei valori, e di istruire sulla cattiveria. I miei romanzi spesso nascono dallo scontro tra una visione ancora acerba del mondo (non a caso hanno dei giovani come protagonisti) e il cinismo degli adulti. Credo di essere, diciamo, un moralista, nel senso romano del termine.
Ma il male fa parte del mondo.
Sì, certo. Vedo il caos, naturalmente, vedo anche il fascino dell’oscurità. Ma non ci credo. Io credo nella chiarezza.
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Per chi volesse leggere l’intervista integrale, si prega di cliccare qui.
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