Arte

Ernst H. Gombrich, storico dell’arte individualista

1 Febbraio 2015

L’arte non esiste, esistono invece gli artisti: l’incipit della “Storia dell’arte” di Ernst H. Gombrich (1909-2001) è in primo luogo una dichiarazione di metodo. Con queste parole lo studioso viennese naturalizzato britannico, per vent’anni direttore del Warburg Institute di Londra, rivelava la regola a cui si sarebbe attenuto nel raccontare la storia delle opere e delle tradizioni figurative nella sua opera più famosa di divulgazione: il rifiuto di ogni visione collettivista, e l’esclusione del ricorso ai fini dell’analisi a astrazioni ‘collettive’ inerenti gli stili o gli eventi o, appunto, la stessa nozione di ‘arte’.

Non si trattava di una scelta arbitraria. Si collocava invece nel contesto dell’individualismo metodologico, approccio che però era stato approfondito, com’è noto, soprattutto nell’ambito delle scienze sociali e dell’analisi economica, ad opera di altri famosi austriaci contemporanei dello studioso: Ludwig Von Mises, Friedrich Von Hayek, Karl Popper. Degli ultimi due Gombrich era amico personale, in particolare di Popper, di cui curò, insieme ad Hayek la pubblicazione de “La società aperta e i suoi nemici” durante la seconda guerra mondiale. Il pensiero di Hayek, in particolare una sua opera sulla percezione, “The sensory order” (L’ordine sensoriale, 1952), ebbe un ruolo nelle teorie di Gombrich sulla psicologia della rappresentazione. Un aspetto interessante – che non sembra trovare paragoni così espliciti nella storiografia e critica artistica – della personalità intellettuale di Gombrich è proprio l’aver applicato un simile approccio ‘individualista’ allo studio delle immagini e della storia della cultura visiva.

Vi sono molte testimonianze dell’adesione all’individualismo metodologico di Gombrich, a partire da i moltissimi riferimenti a Popper nella sua bibliografia. In una conferenza tenuta nel 1990 alla Royal Academy of Arts (poi pubblicata in Italia in un saggio intitolato “Stili d’arte e stili di vita”) Gombrich polemizzava con le dottrine storico artistiche che descrivono le opere d’arte e gli stili come la logica ‘espressione’ di un’epoca o di una cultura, o di qualche altra entità collettiva. “Sono un individualista e non riesco a credere che siamo solo marionette appese ai fili di un invisibile burattinaio, che incarnerebbe ‘lo spirito del tempo’ o, forse, il conflitto di classe. Mi sono perfino chiesto se possiamo immaginare questo burattinaio come un super artista che crea lo stile o gli stili di un’epoca. E se fosse vero il contrario? Se fossero l’arte e gli artisti a definire ciò che chiamiamo lo spirito di un’epoca?”.

In un altro saggio, intitolato “Alla ricerca della storia della cultura”, lo studioso di origini viennesi auspicava il superamento di simili concezioni collettive “sovraindividuali”. “Spero – scriveva – che la storia della cultura progredirà se anch’essa fisserà saldamente la sua attenzione sul singolo essere umano. I movimenti in quanto distinti da periodi, sono iniziati da uomini”.

La sua critica alle astrazioni collettive, che considerava sempre dettate da scelte arbitrarie degli autori che le proponevano, era radicale. In una dura recensione alla “Storia sociale dell’arte” dello storico di orientamento marxista Arnold Hauser, ad esempio scrisse: “In 956 pagine egli tenta di descrivere non tanto la storia dell’arte o degli artisti, quanto la storia sociale dell’Occidente, come essa si rispecchia, ai suoi occhi, nelle varie tendenze e mode dell’espressione artistica. Per questo suo scopo i fatti lo interessano solo se hanno un qualche riferimento a questa particolare interpretazione”.

Fu entro questa cornice metodologica che Gombrich affrontò il “problema dei problemi” per chi si occupa di immagini: quello della rappresentazione. Ed è forse questo il suo contributo più originale, dal punto di vista di tale prospettiva ‘individualista’, che vale la pena ricordare. Il tema è intricato, sul piano tecnico e filosofico. Infatti, com’è facile constatare empiricamente, ci sono molte combinazioni di ‘cose’ diverse (pennellate di colore, o tratti di matita ad esempio, per rimanere in ambito artistico), eppure altrettanto efficaci, per ritrarre uno stesso oggetto. C’è insomma un’imbarazzante assenza di relazione tra ciò che i semiologi chiamano il significante di un segno (la sua forma fisica) ciò che produce nell’osservatore (il suo significato) e l’oggetto rappresentato, o referente.

Ne deriva un enorme problema relativo all’oggettività della rappresentazione.  È possibile definire criteri oggettivi di ‘fedeltà’ di un’immagine al mondo reale? Oppure ‘maniere’ diverse, ad esempio classica, impressionista, cubista, sono tutte altrettanto ‘corrette’? Ma ciò significa che la percezione visiva è un fatto soggettivo, che muta da persona a persona? Se sì – escludendo un attimo il vicolo cieco solipsistico che deriva da questa affermazione, e ipotizzando che tali variazioni si possano indagare – queste differenze percettive hanno radici psicologiche, o forse storiche, o culturali? Oppure le diverse rappresentazioni sono riconducibili a convenzioni, e funzionano come segni in un linguaggio?

In “Meditations on a hobby horse, or the roots of artistic form” (Riflessioni su un cavallino di legno, o delle radici della forma artistica) saggio pubblicato nel 1951, Gombrich discuteva l’argomento a partire dall’esempio di un “manico di scopa” usato come cavallino giocattolo: “Come chiamarlo?”, scriveva. “Dovremmo descriverlo come l’immagine di un cavallo? Gli autori del Pocket Oxford Dictionary non sarebbero d’accordo. Loro definiscono ‘immagine’ come ‘imitazione della forma esterna di un oggetto’ e la forma esterna di un cavallo qui non è imitata. (…) Il ritratto di un cavallo? Sicuramente no. Il sostituto? Sì, questo sì. E forse in questa formula c’è più di quanto sembri”.

Lo studioso introduceva così la sua teoria dei ‘sostituti’, che avrebbe poi sviluppato nella sua opera forse più discussa, “Art and Illusion” (Arte e Illusione, 1960), e in altre opere, per il resto della sua vita: un oggetto può sostituirne un altro per un dato scopo in relazione alle caratteristiche dell’organismo umano. Come avviene col bastone – che può funzionare da cavallo perché lo si può mettere tra le gambe e cavalcare – è possibile costruire oggetti o combinazioni di oggetti capaci di “sostituire” il volto di una persona conosciuta, o un panorama, perché attivano nel cervello umano gli stessi processi percettivi e psicologici determinati dal soggetto originale. Gombrich estendeva così l’idea del bastone come sostituto del cavallo alle rappresentazioni nell’arte, di qualunque tipo: disegni, dipinti, sculture o altro.

“La storia dell’arte – scriveva in Arte e Illusione – può essere descritta come il lavoro di apprestamento delle chiavi necessarie per aprire le misteriose serrature dei nostri sensi, dei quali solo la natura all’origine teneva la chiave”. Quest’affermazione racchiudeva due argomentazioni. Da un lato neutralizzava il problema ‘filosofico’ dell’oggettività della rappresentazione. La distinzione tra realtà e immagine per Gombrich diveniva astratta e arbitraria: le immagini mimetiche sono oggetti che ‘funzionano percettivamente’ come quelli che rappresentano, perché capaci di attivare gli stessi meccanismi nella visione, ed è tutto ciò che ci serve sapere.

L’effettiva somiglianza formale, da questa angolazione, è un dato irrilevante: ciò che conta è la capacità dell’immagine di funzionare da ‘falso gettone’ per suscitare la stessa reazione percettiva nell’osservatore di ciò che rappresenta. L’analisi delle immagini comportava quindi la comprensione dei processi psicologici e biologici che governano la percezione e il comportamento. Gombrich si dedicò allo studio di questi argomenti, avvalendosi delle ricerche disponibili all’epoca, costruendo un “modello” di psicologia percettiva basato sulle teorie da Hayek in “The sensory order”, arricchendolo da spunti derivati da Popper, e con i risultati delle ricerche dello psicologo inglese Richard L. Gregory e dello psicologo americano James J. Gibson.

L’altra argomentazione riguardava il metodo storico di esame delle immagini e degli stili, che poteva evitare il ricorso a complicate astrazioni ‘collettivistiche’. I diversi stili di rappresentazione possono essere studiati per gli effetti che producono sugli individui (posto che la percezione sia un processo biologico e psicologico stabile nel tempo), che sono stati scoperti dagli artisti grazie a una lenta ricerca per “tentativi ed errori” o per schemi e correzioni – a partire magari da pattern casuali, come la celebre chiazza sul muro leonardesca – paragonabile a quella descritta da Popper per la ‘scoperta’ scientifica.

La storia della rappresentazione nell’arte poteva essere esaminata dunque come quella di altre forme di progresso tecnologico, attraverso i risultati ‘oggettivi’ raggiunti dagli artisti. E, soprattutto, rispettando la rigorosa prospettiva metodologica di analisi delle scelte individuali e delle reazioni che le innovazioni pittoriche e stilistiche avrebbero suscitato nel pubblico a cui erano destinate. @leopoldopapi

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