Arte
Due mostre, un dipinto e l’invenzione del cinema
“A che serve un’altra mostra su Caravaggio?”, chiedeva qualche settimana fa Maurizio Cecchetti, critico dell’arte del quotidiano “Avvenire”, recensendo “Dentro Caravaggio”, la grande monografica in corso a Palazzo Reale, con venti capolavori autografi per giudizio unanime della critica. La domanda è particolarmente interessante, perché il 30 novembre apre a Milano una seconda mostra dedicata a Michelangelo Merisi, intitolata “L’ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri”, alle Gallerie d’Italia. E c’è un elemento in più. Un dipinto, il “Martirio di Sant’Orsola”, passerà dalle stanze di Palazzo Reale agli spazi di Intesa in piazza della Scala, costituendo di fatto il punto di connessione tra le due rassegne. Si tratta infatti del quadro che chiude la produzione del Merisi, l’ultimo realizzato a Napoli prima del tentativo di rientrare a Roma che si concluderà con la morte, il 18 luglio del 1610, sulla spiaggia di Porto Ercole.
A cosa servono dunque non una ma due mostre? La recensione di Cecchetti della monumentale monografica di Palazzo Reale suona per molti versi come una provocazione: “Arrivo a dire che è una mostra Kitsch, perché l’armamentario predisposto colpisce con la tecnica ma svia la vera comprensione dell’opera, della poetica e dello stile caravaggesco, e non consente di cogliere de visu una rete di significati che lo svelino nella sua verità interiore”. Il che secondo il critico non aiuta “…a capire perché noi uomini della strada sentiamo Caravaggio come nostro contemporaneo”.
È un passaggio molto interessante, che dà come acquisito lo status di eccezionale popolarità che è andato conclamandosi a partire dalle celebrazioni per il quarto centenario della morte del Merisi, nel 2010. Caravaggio è oggi il più amato tra gli antichi maestri. Nonostante l’interesse per Leonardo determinato dai romanzi di Dan Brown, le grandi produzioni documentaristiche su Bosh, Raffaello, Rembrandt, e a fronte dello stesso record in asta conseguito qualche settimana fa dal “Salvator Mundi”, 450 milioni di dollari, che hanno fatto parlare di una “rivincita di Leonardo”, solo Caravaggio ci appare assolutamente contemporaneo, ed è oggetto di un culto diffuso e trasversale che include, oltre alle mostre e alle pubblicazioni, film, sceneggiati Tv, graphic novel, spettacoli teatrali, pagine facebook, profili Twitter, sterminate gallerie Instagram. E poi le comparazioni con le rockstar, con Pasolini. Traballanti sul piano estetico e magari inconsistenti pure su quello filologico, e però sintomo di un fenomeno che si fa fatica a circoscrivere, a capire dove e come inizia, se dalla vita o dall’opera.
Probabilmente Caravaggio in un addetto ai lavori come Cecchetti oggi provoca assuefazione, perché la mediazione tra cultura alta e cultura bassa finisce per produrre la definizione di un territorio d’indagine che deve usare i mezzi della prima per parlare alla seconda. Di qui il rischio del Kitsch, ossia-mi pare di poter interpretare- di una crisi del rapporto tra la forma dell’indagine e il suo obbiettivo. Non è un caso che le scoperte degli ultimi dieci anni hanno complicato non poco il disegno biografico del Caravaggio, rendendone, per ricaduta, meno intelleggibile il complesso dell’opera e il percorso artistico. Oggi abbiamo di certo più informazioni sulla sua vita, ma il mondo degli studi si trova nella difficoltà oggettiva di rimodulare il profilo storico/critico consolidato con le nuove acquisizioni. L’esempio più lampante è fornito dall’emersione di un documento che sembra spostare in avanti l’arrivo a Roma del Caravaggio, con la conseguenza di aver determinato uno slittamento di tutta la cronologia delle opere, producendo il tracimare dei dipinti di un periodo in un altro, con l’effetto di annullare quella disposizione orientata al tentativo di ordinare i quadri secondo un’idea naturale di progressione tecnica ed espressiva.
Quando gli schemi che possediamo diventano inutilizzabili, è il tempo di ripartire dalle domande. L’ansia di produrre delle risposte genera lo scadimento della riflessione critica nell’opinionismo, e la prevalenza della retorica sul metodo. Ancora quindici anni fa Caravaggio era “vittima” di fraintendimenti ideologici e deragliamenti romanzeschi: maledetto, oscuro, omosessuale, verista, poverista, riformato, controriformato. Oggi buona parte di queste “leggende” storiografiche sono state spazzate via, ma quel che è rimasta è una produzione assurta a una dimensione pienamente pop per visibilità e conoscenza diffusa, e che però abbiamo sempre più difficoltà a interrogare. L’idea allora di scegliere un quadro, uno solo, e provare a concentrare su di esso l’attenzione, per generare nuove domande ed ipotesi, può costituire una maniera di uscire dal territorio del kitsch, inteso come accumulazione di informazioni che non produce più conoscenza.
Questo blog proverà in tal senso a fare una cosa che probabilmente non è ancora stata tentata. Partire da un solo quadro, l’ultimo dipinto del Caravaggio, e usarlo come luogo di generazione di una serie di domande che riguardano il contenuto della sua modernità, per tutto l’arco della durata della mostra delle Gallerie d’Italia. Cercando di capire di cosa è fatta, e provando a restare dalla parte dell’opera, pur non potendo ignorare la biografia. Prima ancora che interrogarsi intorno al realismo, che è uno degli schemi critici ritornanti a cui si affida la lettura dell’opera del Merisi, la questione che ci dobbiamo porre è quella della rappresentazione, dell’oggetto della sua pittura. Che cosa dipingeva il Caravaggio quando è arrivato a Roma, indipendentemente da quando ci è arrivato? È una domanda che chiede a sua volta una premessa, perché di tutto il tempo precedente all’approdo nella città dei Papi, indipendentemente dal fatto che sia avvenuto quando aveva 21 anni, nel 1592 (come si è ritenuto sino a pochi anni fa), o 25, nel 1596 (come si crede sulla scorta dei documenti riemersi dall’Archivio di Stato di Roma), non abbiamo notizia di una sua attività artistica precedente, se si eccettuano gli anni adolescenziali dell’alunnato milanese presso la bottega del Peterzano. Sino a prova contraria, Caravaggio nasce pittore a Roma, e non ci è dato sinora da sapere che cosa abbia fatto prima, a Milano o altrove. E nasce come pittore autonomo dipingendo figure isolate, in posa, che rappresentano soggetti per cui non ci sono precedenti. Il “Giovane con canestro di frutta”, il “Bacchino malato”, il “Ragazzo morso da un ramarro”, il “Bacco”.
Opere fatte per essere vendute, per il mercato, che riecheggiavano il gusto per l’antico in voga a Roma, flirtando con una forma di ironia sottile e forbita, nello stile di componimenti poetici, dei madrigali e delle canzonette dell’epoca. Create per una clientela a cui poteva piacere un’attenzione al dato ottico, ossia alla riproduzione mimetica ancorché non calligrafica della realtà. Qualcuno ha voluto vedervi allusioni cristologiche, ma il fatto è che appartengono a un ragazzo che doveva ancora farsi un nome, un giro di clienti, per emanciparsi dalla posizione dell’aiutante di bottega sfruttato per realizzare teste o ghirlande di fiori. L’inclinazione al naturalismo è dunque presente come fatto originario della sua pittura, e si concretizza in un cura lenticolare della resa sulla tela di effetti di luce, dei tessuti, della natura morta, di recipienti e bicchieri, dei liquidi, sino ai particolari fisiognomici dei suoi modelli. Il primo successo lo spingerà a combinare insieme nella composizione più figure umane. Prima due, poi tre, quattro. In scene che erano inedite e parevano cavate dalla vita di strada: la “Buona ventura”, i “Bari”. Una caratteristica evidente sin da subito è la rappresentazione dei modelli dal vero, caduta in disuso durante il Cinquecento, che aveva imposto la pratica dell’invenzione dell’immagine da zero, di pura astrazione, attraverso il disegno. E ne aveva fatto un codice vincolante per la pittura di storia, il genere per lo più destinato alla fruizione pubblica in cui venivano rappresentate le scene delle sacre scritture, della mitologia, della storia antica o delle cronache coeve.
In ragione di un deficit di formazione o forse di una scelta stilistica, Caravaggio sembra inizialmente in difficoltà quando viene chiamato a dipingere per le chiese romane questo tipo di soggetti, che chiedono la capacità di saper mettere assieme numerose figure e rappresentarle all’interno di un’azione, come se fossero in movimento. Grazie alla luce, che usa secondo una tecnica che di fatto anticipa la fotografia, riesce però a risolvere in modo rivoluzionario a suo favore questo gap di partenza, e di fatto introduce una maniera di rappresentare la pittura di storia cristallizzando l’evento in un istante, un vero e proprio flash, un lampo che squarcia il buio e restituisce una verità instabile, bloccata e quasi folgorata, e in cui però una civiltà visiva che non conosce ancora la cinematica riconosce il senso dinamico dei corpi che si muovono. La continua e rapidissima progressione stilistica che contraddistingue gli anni della sua fuga da Roma, e dunque il periodo conclusivo della sua vita, trascorso tra Napoli, Malta, Sicilia e di nuovo Napoli, lo porta però nei suoi quadri finali a tentare un’ulteriore balzo in avanti nel tempo. Nell’ultimo dipinto, il “Martirio di Sant’Orsola”, Caravaggio abbandona questa maniera di rappresentare i fatti attraverso la precognizione della fotografia, e inventa letteralmente il cinema, grazie all’idea di contrarre non più lo spazio ma il tempo. È l’occhio dello spettatore che compie la sintesi, rielaborando un evento schiacciato compositivamente verso il suo compimento.
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