Arte
Dismaland chiude, per fortuna (e grazie, Banksy)
The future is always a dystopia in movies.
(Alex Cox)
E quindi domenica sera Dismaland, il B-Amusement Park inaugurato da Banksy il 22 agosto nella remotissima Weston-super-Mare, ha chiuso i battenti. Per fortuna.
L’arte è tornata ad essere realtà: le strutture del parco saranno donate dall’artista alla baraccopoli di Calais, in Francia, detta “la giungla”, dove i rifugiati guardano il mare nero della Manica sperando un futuro in UK. Quindi Dismaland, dove al prezzo di una sterlina chiunque poteva non-divertirsi guidando una barchetta di cartapesta carica di migranti e inseguita dalla polizia, diventerà la loro casa. Quando la distopia supera la realtà -o viceversa, non lo so.
Tra gli oltre 150mila visitatori che si sono messi in viaggio per raggiungere il paesello dimenticato da Dio e pure dalla regina nei pressi di Bristol dove, per poco più di un mese, dalle ceneri di un parco giochi abbandonato è nato un non-parco giochi che passerà alla storia, c’ero anch’io. E da, non esperta di arte contemporanea, posso dire che è stata la più bella esperienza d’arte contemporanea della mia vita.
Ammetto di essere arrivata a Dismaland scettica, temendo la solita delusione di vedere trasformate in operazione commerciale le idee di Banksy, uno degli artisti che più sanno raccontare il nostro tempo -o, almeno, che più sanno raccontarlo a tante, tante persone: l’arte non dovrebbe essere così? La frustrazione della ricerca dei biglietti online, introvabili se non ricorrendo agli efficientissimi bagarini inglesi con un inflazione del 2000% sul prezzo del biglietto ufficiale, £3, il viaggio in auto di più di tre ore da Londra, la coda infinita sotto la pioggia, stavano per confermare i miei peggiori timori (proprio nei giorni dello scandalo-Colosseo e dei turisti in coda per ben tre ore sotto il sole che tanto mi ha fatta riflettere sul concetto di turismo artistico).
Per chi, come me, è innamorato della campagna e del mare inglese -bruma, mare color legno, vento gelido- Weston-super-Mare è di bellezza struggente –staggering, direbbero in inglese, struggente ma anche barcollante. Per chi non è come me, raggiungere Dismaland e sopportare la coda e la pioggia è proibitivo.
All’inizio. Perché poi si finisce per alzare gli occhi dallo smartphone, ci si guarda intorno e si scopre la natura dell’umanità in attesa di entrare: quasi tutti giovani o giovanissimi, con i capelli rosa che solo gli inglese sanno portare con una certa eleganza. Famiglie con bambini che ridono. Vecchi inglesi in tweed. Ragazze in infradito nel fango, bimbi a piedi nudi nella sabbia gelida che giocano. Ora, non so se l’arte debba essere popolare o meno, non è il mio campo: vedere però tanta gente normale, tanti giovani, tanti bambini e nessun critico trombone, nessun bus di giapponesi e nessun venditore abusivo di paccottiglia è una cosa che scalda il cuore e lo spirito, in assenza di sole.
Nessun critico, dicevo: Dismaland, una volta dentro, la dovevi capire da solo. A tuo modo, senza che nessuno ti spiegasse nulla. Non c’era un percorso prestabilito, una guida, nulla. Eri tu che potevi scegliere che fare davanti ad un distributore automatico non di bibite, ma di feti. Davanti alla Morte che balla Stayin’ alive. Potevi, appunto, far affondare una barca di migranti, osservare uno tsunami che travolge la perfetta famigliola da Mulino Bianco in spiaggia, sparare al tiro a segno contro gioielli e iPhone, tollerare le perquisizioni scorbutiche al gate d’ingresso come in un qualsiasi aeroporto. Oppure goderti una birra su una sedia a sdraio, con una scritta alle spalle che ti ricorda quanto sei MEDIOCRE. Le attrazioni non incluse nel prezzo prevedevano il costo di una sterlina, che un addetto con le orecchie di Topolino in testa ti chiedeva con la mano tesa, senza pudore, senza lo stesso pudore di chiedere l’elemosina che hanno i mendicanti che incrociamo a centinaia ogni giorno nelle nostre città.
Tutte queste non-attrazioni erano opere d’arte a modo loro. Il capolavoro di Dismaland, però, era come ti sentivi tu, lì dentro. Dopo lo smarrimento iniziale, dopo l’imbarazzo di divertirsi con i peggiori mali della nostra società, ho vissuto qualcosa che non avevo mai vissuto prima: ero dentro una distopia ed ero tenuta a decifrare emozioni mai provate prima.
Da Wikipedia: Per distopia (o antiutopia, pseudo-utopia, utopia negativa o cacotopia) s’intende la descrizione di una immaginaria società o comunità altamente indesiderabile o spaventosa. Il termine, da pronunciarsi “distopìa”, è stato coniato come contrario di utopia ed è soprattutto utilizzato in riferimento alla rappresentazione di una società fittizia (spesso ambientata nel futuro) nella quale alcune tendenze sociali, politiche e tecnologiche avvertite nel presente sono portate a estremi negativi.
Non erano le singole attrazioni in sé, era tutto Dismaland: di distopia, nel Novecento, abbiamo letto e visto film. Ma esserci dentro, almeno solo per qualche ora, è arte.
Per fare un paragone un po’ azzardato (troppo?), tutti abbiamo letto 1984 di Orwell. Ma dentro la fattoria degli animali non ci abbiamo vissuto. Nel 2015, nella fattoria di Banksy, sì: e gli animali eravamo noi.
Tra bambini che giocano nella stanza delle torture -le torture cui sono sottoposti i prigionieri di guerra-, tra roulotte capovolte, caroselli con cavalli appesi e macellati halal, il capolavoro di Dismaland era l’atmosfera: lì dentro, non riuscivo a capire cosa fosse uno scherzo e cosa no, fino a che punto potessi divertirmi o quanto avessi il dovere morale di piangere, se una cartaccia per terra era parte dell’opera d’arte o se sui muri si deve scrivere fuck oppure un-fuck the system. Le perplessità di ogni giorno, quando lasciamo che sia qualcun altro a scegliere per noi.
In fondo, nel 2015, chi stabilisce le regole del godimento, della rassegnazione e dell’indignazione, sembra dirci Banksy? Tutte le contraddizioni della nostra (mediocre) società occidentale servite su un piatto d’argento, anzi, in un non-parco giochi: a noi la scelta, divertirsi, piangere, essere indifferenti, bersi una birra. Ma una scelta, emozionale, a Dismaland la dovevi proprio fare, tuo malgrado: non era possibile passeggiare in fretta e scattare foto qua e là come nei corridoi silenziosi di qualsiasi mostra o museo.
Due opere mi hanno colpita di più -oltre a quella dei migranti, conoscendo ora il destino di Dismaland. La prima, la definizione di amore: un palloncino sospeso leggero, sopra una distesa di coltelli.
La seconda, un cortocircuito che da solo è valso tutto il viaggio: nel castello delle streghe, giace morta una principessa. La sua carrozza trainata da cavalli bianchi si è rovesciata. Il suo corpo, sfregiato dalla morte, è fotografato da una calca di paparazzi in scooter –ci vuole pochissimo per capire, è Lady Diana. Ci vuole un po’ di più per riflettere che il vero spettacolo non è l’opera d’arte: il vero spettacolo sono i flash dei turisti che coprono i flash dei paparazzi per le foto ricordo dal cellulare.
Quindi, dopo questo sperticato elogio di Dismaland, perché gioire della sua chiusura? Perché, per quello che ho vissuto io, il capolavoro di Dismaland era la distopia in cui si era immersi. E, per non correre il rischio di trasformarsi in realtà o, peggio, in noia della realtà, doveva finire. Il prima possibile, Prima che ci abituassimo, prima che finissimo per accettare le contraddizioni del nostro tempo come un dato di fatto -e lo faremo, tra un mese o due. Prima che Banksy non sapesse più parlare a me, giovane, a mia nonna, ai nostri figli.
Questa convinzione deriva anche dalla mostra cui ho assistito il giorno dopo, alla Tate Modern di Londra: The world goes pop, dedicata alla pop art. Purtroppo, devo riconoscere che, per me, nata negli anni Ottanta, the world went pop: la pop art, che parlava al mondo degli anni Sessanta e Settanta, non parla più a noi che non abbiamo vissuto -o abbiamo scordato- il Sessantotto, le lotte civili per il divorzio, l’aborto, la guerra in Vietnam, il terrore per l’avvento dei computer. Per noi, certi diritti sono oggi normalità e certe storie sono storia. E la più bella mostra sulla pop art in Europa, arte distopica a suo tempo, per me è passato: è diventata il nostro presente, non immagina più il nostro futuro.
Perciò grazie, Banksy, per esserti inventato Dismaland. Grazie soprattutto per aver chiuso i battenti, prima che la distopia che hai portato in scena diventasse realtà. Prima che, assuefatti, ci sembri normale comprare figli in provetta, vedere affondare migranti, torturare prigionieri civili o farci selfie con i cadaveri.
E sono felice di aver scritto di Dismaland usando l’imperfetto.
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