Arte
Di cosa parliamo quando parliamo di un illustratore: Emiliano Ponzi
L’intervista delirante a James Ellroy o quella smutandata con Gian Paolo Serino? Quella sulla Milano di Umberto Smaila e quella all’illuminato Jovanotti? Da oggi sono tuuuutte in un libro presentato al Salone del Libro di Torino. LE MIGLIORI INTERVISTE DI WRITE AND ROLL SOCIETY – ANNO I, edito da Historica. Oltre ai nostri testi ci trovate le foto di Toni Thorimbert, Giorgio Serinelli, Alberto Gottardo e Chiara Mirelli, e l’art direction di Marco Rosella. Costi? Dettagli? Trovate tutto qui.
E cosa c’entrano quelli che fanno i disegni? C’entrano, c’entrano. Perché nel libro ci trovate anche un’intervista ad uno degli illustratori italiani più stimati al mondo, lo stesso incaricato da Feltrinelli di disegnare tuuutte le copertine di tuuuuutti i libri del vecchio Hanck che potete trovare oggi in libreria. Lo ha intervistato per noi Delbert Grogan. Foto di Alberto Gottardo.
Se le pubblicazioni su cui appare regolamente (New York Times, Le Monde, The Economist, Repubblica, Penguin Books, Feltrinelli, Mondadori) ed i riconoscimenti che ha ricevuto (Gold Cube all’Art Directors Club di New York, due Medaglie d’Oro alla Society of Illustrators, ADC Youngun Award, annuari Communication Arts, American Illustration e Print magazine) potessero non bastare ad introdurre il talento di Emiliano Ponzi, ci basterebbe cominciare a fare accenno ad una ormai celebre serie di copertine per un autore abbastanza familiare ai lettori di WNR…Charles Bukowski: un personaggio complesso, irriverente ed autodistruttivo. Nelle tue cover viene raccontato per simboli, un solo elegante accenno alle esplosioni delle pagine interne. Qual’è stato il tuo approccio nella creazione delle diverse illustrazioni? E’ uno scrittore che avevi già fatto tuo durante l’adolescenza?
Ho letto molto Bukowski tra i 15 e i 18 anni, è l’evoluzione del “giovane Holden” come tipo di letture seduttive per ogni adolescente in cerca di rottura con il mondo dell’infanzia, attirato da qualsiasi declinazione dell’eccesso e della contestazione. Ha un fascino simile a quello della api con il miele, presenta un immaginario fatto di sola pancia e pulsioni soddisfatte, di spostamento del limite e, in qualche modo, anche se viene prospettato un dazio da pagare per una simile condotta, vincono sempre e comunque l’istronismo e l’anarchia. La sottile indefinizione tra vicende narrate e vissute dall’autore rende il tutto ancora più reale e lo porta dal mondo dell’improbabile a quello del verosimile aumentando pruriti e voglia di sperimentare.
L’operazione delle copertine è stata concepita da me e dall’art director di Feltrinelli Cristiano Guerri come un’operazione seriale, l’autore messo davanti ai propri scritti, ogni cover come un palcoscenico dove Buk potesse recitare una delle sue piece, fare uno dei suoi numeri declinato in accordo di volta in volta con il diverso contenuto del libro…
Facciamo un passo indietro all’inizio della tua carriera. Su internet è possibile vedere spesso dei giovani artisti (di ogni genere) cimentarsi in degli esperimenti del tipo “una creazione al giorno”: delle serie di diversa durata, da un mese ad un anno intero, che consentono di esercitarsi e trovare il proprio stile notando e facendo notare in conclusione notevoli differenze tra l’opera iniziale e quella finale. Ti capita mai di riguardare le tue illustrazioni commissionate poco tempo dopo la fine dello IED? Sorridi dei tuoi errori, noti che avresti fatto ora le stesse scelte, riscopri dei particolari che potresti riprendere in futuro?
Nei prossimi mesi verrà pubblicata da un editore di New York la mia seconda monografia (la prima è stata 10×10 edita da Corraini nel 2011) dove abbiamo deciso di inserire sia i disegni infantili che gli esercizi scolastici degli anni IED. Il percorso è un po’ la summa di qualsiasi storia che valga la pena di essere raccontata. Ogni illustrazione è una finestra, l’incipit di una narrazione. Negli anni ho visto cambiare il mio vocabolario, ridurre e affinare i codici linguistici necessari per raccontare storie in maniera più efficace.
Quando ho iniziato lo IED non avevo mai colorato un disegno. Provenivo da un tipo di scuola molto diversa, avevo pochissima cultura dell’immagine, inoltre internet del ’97 non era certo quello di adesso. Ho dunque molta indulgenza per gli errori fatti all’epoca. Forse più che errori erano sessioni di allenamento dove cercavo di capire come il corpo avrebbe reagito aumentando i chili sul bilanciere.
Il vecchio consiglio di un pubblicitario losangelino che non ho mai dimenticato è “Link the unrelated”. Sia che si parli di ricette culinarie, di mashup musicali o di coppie di personaggi nella letteratura, un’idea vincente può essere nascere dalla fusione perfetta tra due o più elementi molto distanti tra di loro. E’ un qualcosa che ritrovi anche nel tuo processo creativo?
Direi che è il mio mantra, la creazione di un terzo paradigma inaspettato è sempre risultato della fusione tra 2 paradigmi conosciuti. Che è poi la base del pensiero laterale e dell’abitudine a mettersi di fianco e cambiare il punto di osservazione.
“The power of infographics” per La Repubblica
Da una decina di anni a questa parte un grande numero di disegnatori ha abbandonato carta e pennarelli per lavorare quasi esclusivamente in digitale. Tu sei uno di questi: quanto ha influito sul tuo stile e quanto senti abbia cambiato in generale il rapporto tra illustratore e cliente (ad esempio nella gestione delle modifiche richieste)? Utilizzi il metodo tradizionale in qualche parte del lavoro?
All’inizio il digitale era visto come una tecnica minore, uno scimmiottamento di quelle tradizionali. Poi negli anni ha acquisito dignità e identità, ha smesso di essere solo mimesi di acrilico e olio ed è diventata riconoscibile nei suoi tratti distintivi. Tiro una grossa linea che spesso non viene considerata tra arte e commercial illustration (intendendo con questo tutto quello che non sia arte museale o da galleria). Il digitale è lo sposo perfetto per questo tipo di mercato, di produzione numerica, di giornali, billboard pubblicitari, animazioni etc. è un mezzo che risponde ad un bisogno di un cliente di autorialità, velocità, aderenza ad un dato messaggio.
Ogni illustrazione è una finestra, l’incipit di una narrazione. Negli anni ho visto cambiare il mio vocabolario, ridurre e affinare i codici linguistici necessari per raccontare storie in maniera più efficace
Io ho sempre e solo lavorato in digitale ma potrei dire che ha cambiato di poco il rapporto con la committenza, forse ha preteso qualche variante in più della stessa immagine, cosa che nel passato era più complessa per problemi di tempistiche.
Hai collaborato per uno spot per Amnesty International che ha vinto una medaglia d’oro della Society of Illustrators. Che effetto ti fa vedere le tue illustrazioni “prendere vita”?
Per la realizzazione del video di Amnesty ho avuto un team di animatori pazzesco, We are captive, con studio a Londra e Lisbona. Hanno fatto un lavoro che, anche a distanza di tempo, si avvicina molto ad un gioiello tecnico ed estetico. Parlando di intagli, vedere qualcosa di statico muoversi è stato stupefacente per me, come per Geppetto quando viene infusa la vita in Pinocchio.
Siti-aggregatori come Ffffound o Pinterest fanno da cartina tornasole dei trend mondiali di grafica e fotografia, con il meccanismo per cui vengono visualizzati maggiormente i contenuti più popolari – che sono divenuti popolari perchè segnalati dagli utenti più influenti. La conseguenza è che come nella vita reale le mode non hanno una spinta “dal basso” e regolarmente per chi si ispira c’è la gara all’uniformarsi nello stile al trend corrente sia perchè il proprio occhio si è ormai abituato a quelle forme e sia perchè si ha paura di sembrare troppo fuori dal coro. Un punto di vista sull’argomento è dato da un pezzo degli Uochi Toki, L’estetica, che recita ad esempio: «Sarà un caso, ma i vostri gusti combaciano con i canoni estetici che nascono e cambiano quando i canoni estetici cambiano.»
Come ti poni nei confronti delle mode? Benchè il tuo stile sia ormai ben definito, i trend che osservi ti portano ancora a delle ‘deviazioni’?
Copio e incollo la prima riga di Wikipedia: “Il termine moda indica uno o più comportamenti collettivi con criteri mutevoli”. Credo la parola chiave sia “mutevoli”, dunque passeggeri perché dell’uniformità ci si stanca. Nessuno è immune dagli accostamenti di forme e colori o inquadrature viste su Ffffound o altri siti soprattutto chi lavora con un mercato di riferimento fatto di audience trasversale. Questo è un bene perché ognuno di noi non può esimersi dall’essere figlio del proprio tempo, diversamente vivrebbe da eremita dando conto del proprio operato solo a se stesso. Il rischio è essere troppo di tendenza o sposare tout court qualcosa di estremamente popular. Mi piace molto fare un parallelismo con il fashion che rispecchia il mio obiettivo a lungo termine: creare la tela di jeans che passa attraverso le mode modificandosi in base alle decadi ma, tutto sommato, rimanendo sempre della stessa fattura. Piuttosto che creare un capo di abbigliamento capace di avere picchi di vendite solo per una stagione e poi tornare nell’oblio dal quale è venuto.
In questo senso cito una frase celebre di Munari: «Quando qualcuno dice: questo lo so fare anch’io, vuol dire che lo sa rifare altrimenti lo avrebbe già fatto prima.» Ecco l’effetto perverso della moda che crea orizzontalmente un gusto estetico, avere cloni di cloni di cloni, perdere l’origine delle cose e dunque anche il suo senso. Manca il passo prima che è sempre personale e mai corale: “Al netto di quello che vedo in giro a me cosa piace?” perché se mi fermo a rifare quello che assorbo da magazine o pubblicità etc io non filtro e semplicemente non ci sono in questo processo perché mi limito a guardare e riproporre senza nessuna elaborazione.
“Being Muslim under Narendra Modi” per The New York Times
Ogni freelance ha un rapporto abbastanza conflittuale con il tempo a disposizione per la consegna dei propri lavori, talvolta con il rischio di ammalarsi di una terribile – ed assurda – malattia come la procrastinazione. In questi anni come hai imparato a gestire il tuo tempo? Metti la sveglia molto presto o trovi maggiore ispirazione nelle ore notturne?
Credo la procrastinazione sia una malattia comune un po’ a tutti, freelance e non soprattutto se le cose da fare generano stress oppure noia, qualcosa comunque bisogna rimandare perché la risorsa tempo è preziosa e tutto risponde alla legge della priorità. La disciplina e la capacità di creare sane abitudini sono la chiave per navigare in una giornata di lavoro che si sviluppa in fasi di creazione (pensare ad un’idea), operative (fare e consegnare), e di relazione (email, telefonate, Facebook, Twitter, Instagram …). A questo proposito il poeta britannico W.H. Auden scriveva due cose molto interessanti: “La routine è segno di ambizione” e “…il miglior modo per disciplinare la passione è disciplinare il tempo: decidi cosa devi fare durante il giorno e fallo esattamente nello stesso momento tutti i giorni, la passione non ti darà fastidi”.
Io mi sveglio attorno alle 7 e vado a dormire attorno alle 2, in mezzo cerco di ordinare tutte le attività, di lavoro e non confinandole in un tempo giusto perché a fine giornata si riducano i danni della procastinazione, dell’imprevisto, della stanchezza e delle scelte che non dipendono solo da me.
Alcuni artisti affermati, come Damien Hirst, hanno smesso di produrre personalmente le proprie opere ed hanno a disposizione un gruppo di persone che fanno prendere forma alle loro idee. Nel suo documentario su Mr. Brainwash del 2010, Banksy ha raccontato come paradossalmente benchè ci sia una discutibilissima direzione creativa il pubblico recepisca bene il lavoro di bravi esecutori.
Se in un futuro ti trovassi nel tuo nuovo studio – grande 100×100 mq – con una decina di ottimi collaboratori a tua disposizione, tralasciando ogni aspetto economico, sentiresti le varie opere create ancora “tue”?
W.H. Auden scriveva: il miglior modo per disciplinare la passione è disciplinare il tempo
E’ molto complesso definire la parola “artista” soprattutto oggi, già nella storia dell’arte moderna e nella pop art troviamo diversi esempi di creativi che ponevano solamente la firma in calce alle opere realizzate da assistenti. E’ un terreno difficile perché si possa avere una risposta univoca, chi ha bisogno di altri per realizzare la produzione della sua idea diviene qualcosa di più simile ad un designer ad un progettista o rimane quello con la chiamata, con l’urgenza comunicativa di esprimere il più velocemente ed efficacemente un’emozione su una tela vergine? Un grande artista come Mozart, dopo aver scritto una sinfonia non aveva forse bisogno di un’orchestra intera per vederla realizzata?
Immaginiamo che ti vengano affidate le illustrazioni per un video musicale animato per il quale non sono state ancora decise le scene finali.
All’alba di una domenica, una ragazza esce dal portone di casa, sconvolta. Porta con il braccio destro un borsone in cui poco prima ha messo in fretta e furia i vestiti presi dall’armadio, e si dirige in fretta verso la sua macchina a pochi metri di distanza. Mentre il sole sale lentamente lei guida attraverso il suo quartiere, percorre un tratto di autostrada, prende la tangenziale che porta fino alla costa. Piange. Percorre un tratto litoranea mentre osserva il mare comparire oltre il guard rail. Intravede uno spiazzo, rallenta e lo raggiunge, prima di fermarsi. Scende dalla macchina e lentamente si avvicina ad un gruppo di massi che danno su uno strapiombo. Si arrampica facilmente su uno di questi e si siede. Osserva le onde. Respira. Pochi istanti dopo, una persona le poggia una mano sulla spalla.
Secondo te chi è quest’altra persona?
Chiunque, l’importante che le dica che tutto passa.
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