Arte

Da Napoli a Malta e ritorno: il “Davide e Golia” e l’equivoco dell’ultimo quadro

7 Dicembre 2017

Gli ultimi quattro anni della vita di Caravaggio somigliano a un romanzo di Dumas. Costretto a scappare da Roma alla fine del luglio del 1606, dopo aver ucciso in una vera e propria battaglia di strada Ranuccio Tommasoni, il pittore venne condannato alla pena capitale. Chiunque fosse riuscito a catturarlo all’interno dello Stato Pontificio poteva procedere seduta stante alla decapitazione, senza nemmeno portarlo dal giudice, intascando così la taglia che gravava sulla sua testa.

Per un uomo che a Roma aveva costruito la propria carriera pressoché da zero, passando in soli dieci anni dai compiti di mero gregariato (all’interno di botteghe dedite alla produzione di massa di opere devozionali o di gusto antiquario) sino ad elevarsi al rango di artista più acclamato della città, tutto il lavoro faticosissimo di costruzione della propria carriera doveva apparire perduto per sempre. Più volte si era trovato a pagare comportamenti pubblici imprudenti, ascritti ora alla propria condotta mondana, ora a scelte stilistiche troppo coraggiose, indifferenti ai limiti posti dalla committenza, o poco sensibili ai freni posti alla sua pittura, intrisa di un realismo lenticolare non conforme al rigoroso controllo delle immagini che informava la sua epoca. Qui però la questione era diversa. L’abitudine a mettere mano alla spada, che forse gli era già costata un periodo di detenzione durante gli anni della giovinezza milanese (su questo punto ci mancano ancora gli appigli documentali che confermino alcuni indizi lasciati dai suoi primi biografi), aveva finito stavolta per costringerlo in una condizione di estrema precarietà e pericolo. La condanna alla pena capitale faceva di lui un uomo costretto a vivere solo di presente, destinato a interiorizzare un sentimento esasperato di provvisorietà, ancor più degli altri individui del suo tempo. Un morto che cammina. E che però poteva contare sull’arma straordinariamente seducente della propria pittura, per provare a invertire un destino che sembrava segnato.

In un istante era passato dall’arte per l’affermazione di sé all’arte come lotta per la sopravvivenza. Sapeva fare una sola cosa. E dunque non poteva, darwinianamente, che ricominciare a dipingere, il prima possibile. Così aveva fatto, nascosto nei feudi dei Colonna, imparentati coi marchesi di Caravaggio, nei colli immediatamente a Sud di Roma, tra Zagarolo e Palestrina. In quelle settimane, meditando sulla possibilità di un improbabile perdono papale che gli riaprisse la via per Roma, aveva dipinto la “Cena in Emmaus” ora a Brera e la “Maddalena in estasi”, una delle sue icone più riuscite, replicata da subito in numerose copie dai suoi seguaci.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, “Cena in Emmaus”, Milano, Pinacoteca di Brera, 1606. olio su tela, cm. 141×175.

In ogni libro che si legge sul Caravaggio, o quando si va a vedere una sua mostra, c’è sempre un momento in cui ogni tentativo di tenere il discorso solo sul piano tecnico-stilistico cede alla necessità di considerare l’opera alla luce della vita. Proprio perché questo momento è ineludibile, è bene ritardarlo il più possibile, sino ad arrivare a ridosso degli ultimi fatti romani. A quel punto però, la vicenda biografica prende fatalmente il sopravvento. Se la metti tra parentesi, c’è qualcosa che rimuovi, ed è il tracimare delle vicende personali sulla tela. Buona parte degli storici dell’arte rifugge da quest’impostazione psicologista, la considera scorretta dal punto di vista filologico, vi oppone una concezione dell’artista e della pittura in cui non hanno cittadinanza le istanze espressive e ancor meno quelle di ascendenza autobiografica. Si assiste così a una curiosa interruzione di dialogo. Il pubblico di massa è attratto dalla vita dell’artista, pur se nelle sue inevitabili deformazioni maledettiste e/o agiografiche. La letteratura storico/critica invece la rifugge, producendo materiali che provano arbitrariamente ad aggirare la biografia, e con ciò rimuovono quella parte del senso dell’opera che riguarda forse più da vicino la sua modernità, la capacità di parlarci, magari anche attraverso qualche fraintendimento, ma con un codice che in qualche modo passa, filtra attraverso i secoli e i loro paradigmi estetici simili a compartimenti stagni.

Non possiamo dunque essere indifferenti alla vicenda umana che si dipana tra Napoli (nell’immagine di apertura dell’articolo si vede una mappa della città desunta da una carta nautica del 1764), dove Caravaggio arriva alla fine dell’estate del 1606, Malta, dove approda all’inizio dell’estate successiva, nel tentativo di diventare cavaliere dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme (il che forse gli avrebbe consentito una sorta di salvacondotto, liberandolo dall’ossessione di essere braccato), la Sicilia, dove ripara nell’ottobre del 1608 dopo essere stato incarcerato a La Valletta probabilmente dopo un alterco con un alto esponente dei Gerosolimitani, e ancora Napoli, dove torna, alla fine dell’estate del 1609, inseguito dai sicari del suo nuovo avversario maltese. Sembra paradossale, ma nel tentativo di affrancarsi dalla condizione di ricercato a cui era esposto nello Stato Pontificio, Caravaggio si era infatti andato a cacciare in un guaio ancora più grosso. Il primo dicembre 1608 a Malta l’artista venne privato in absentia dell’abito dell’Ordine Gerosolimitano ed espulso per violazione degli statuti, e in particolare delle regole riguardanti onore e disciplina. In sé però la condanna non aveva un effetto diretto sulla vita futura, se non la perdita delle commesse che gli aveva procurato lo status di pittore dell’ordine e il giro di collezionisti (mercanti, banchieri) che si muovevano nell’orbita del mondo maltese. Ma il punto era un altro: l’episodio-ancora oggi non chiarito-che aveva portato alla sua incarcerazione a La Valletta doveva essere ancora una volta un duello. L’ennesimo della sua esistenza, ma stavolta consumato tra cavalieri, e dunque tanto più grave, anche se non aveva lasciato vittime sul terreno. A causa della condotta del pittore, il suo avversario doveva trovarsi esposto a un’onta irreparabile. Si era così guadagnato, ancora una volta per una braveria (era pur sempre cresciuto nella Lombardia spagnola del tempo dei “Promessi Sposi”, dove tutti giocavano a fare gli hidalgo, anche quelli come lui sprovvisti di titoli nobiliari), un nemico ancor più determinato dei parenti del Tommasoni.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, “Decollazione del Battista”, Malta, Oratorio della Concattedrale di San Giovanni, 1608, olio su tela, cm. 361×520.

Le fonti antiche ci riferiscono che nei soggiorni a Siracusa e Messina il pittore viveva perennemente in uno stato di allerta. Con un’improvvisa partenza, determinata dal tentativo di sottrarsi in extremis agli agenti del suo avversario maltese, al termine dell’estate del 1609, Caravaggio tornò a Napoli, appena prima che i viaggi per mare diventassero impossibili per l’arrivo della cattiva stagione. Ma i sicari lo aveva seguito, e lo sorpresero sulla porta dell’Osteria del Cerriglio, uno dei luoghi più frequentati della città, ferendolo gravemente e lasciandolo sfigurato. La notizia viaggiò rapidamente e giunse in pochi giorni sino a Roma: il fatto è accaduto poco prima del 24 ottobre, forse il 20, e nel luogo dove conservava ancora i suoi amici, mecenati e collezionisti si diffuse addirittura la voce della sua morte. Eppure anche stavolta si riprese in fretta, tornò a dipingere con rinnovata intensità. Ormai anche la definizione di fuggiasco non rendeva pienamente l’idea di una situazione di continuo pericolo. Il suo destino era sempre più quello di essere un sepolto vivo, con la possibilità sì di lavorare al riparo dei suoi protettori, ma col rischio di essere freddato ogni volta che usciva di casa. E allora rimise in moto la rete dei suoi appoggi, quella che gli aveva consentito di scappare da Roma, stavolta con l’obbiettivo di ottenere la grazia del pontefice, l’unico salvacondotto che ormai poteva procurargli sufficiente sicurezza.

È questa la cornice di eventi in cui si situa la fase finale della sua produzione, quella del semestre conclusivo della sua vita, dal dicembre del 1609 al maggio del 1610, in cui lavora su cavalletti contigui a una serie di opere, alcune di destinazione pubblica, altre per commissioni private, altre ancora con cui immagina d’imbarcarsi nel tentativo di tornare a Roma. Tra le prime figurano i tre quadri destinati alla chiesa partenopea di Sant’Anna dei Lombardi, poi scomparsi, nelle seconde la versione originaria di un “San Giovannino alla fonte”, di cui circolano copie antiche più volte proposte come autografi del Merisi. E la “Salomè con la testa del Battista” della National Gallery di Londra, di formato piccolo e accentrato. Un dipinto senza cui non si può capire come si arriva alla sintesi rivoluzionaria del “Martirio di Sant’Orsola” (in esposizione alle Gallerie d’Italia di Milano fino all’8 aprile 2018) . Può parere meno innovativo, ma s’inscrive nel medesimo ordine di problemi e riflessioni su cui si concentra il pittore in questo momento. L’insieme delle quattro teste richiama l’immagine di un tergicristallo in movimento, e fa ipotizzare che forse Michelangelo, insoddisfatto dell’equilibrio compositivo dell’abbozzo relativo alla redazione ora a Madrid, abbia lavorato su un’idea più paratattica, asciugando all’inverosimile la gamma cromatica, e fornendo una lettura piana e accomodante del vecchio canone delle mezze figure, non così distante nell’idea di base dall’interpretazione che ne aveva dato a inizio Cinquecento Bernardino Luini.

Ma la Salomè doveva anche servire da “prova generale”, con quel braccio del boia che tiene il capo del Battista per una ciocca di capelli, per il quadro che in quelle settimane stava lentamente prendendo forma, e sul quale Caravaggio puntava per risvegliare l’interesse di Scipione Borghese e guadagnarlo così alla causa del suo ritorno a Roma: il Davide e Golia” che per tradizione è stato considerato il suo ultimo dipinto.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, “Salomè con la testa del Battista”, Londra, National Gallery, 1609. olio su tela, cm. 90,5×167.

La lucidità con cui continua a innovare il linguaggio, la mobilità intellettuale rispetto alla proposizione di formule nuove, il desiderio di continuare a costruirsi e dunque a cambiare non subiscono certo un’impasse, e anzi Caravaggio sembra assumere come metodo una rielaborazione tela dopo tela di determinati problemi, come se volesse sviluppare in vitro il contenuto di novità che puntualmente va a porre nelle sue realizzazioni maggiori. A cavallo tra Napoli, Malta e la Sicilia ci sono quadri di svolta, quadri-cerniera e quadri ponte. Il sogno di qualsiasi artista è un lungo periodo di lavoro tranquillo, in modo che il feedback tra pittura e pensiero diventi una dinamica circolare che si autoalimenta. Nessuno sfugge alla regola, ma qualcuno deve adattare le interferenze delle vicende personali al proprio progetto, cercando di rendere meno traumatica la discontinuità, e anzi riconducendola a un continuum. Nell’arte figurativa, quando si parla di urgenza espressiva bisogna sempre pensare a qualcosa di mediato, alla sedimentazione cui bisogna sottoporre anche le intuizioni più brucianti, alle prove, ai modelli e allo studio. Nel momento di maggiore tenuta, nessuna opera è mai chiusa, e l’ultimo quadro di un grande pittore è sempre e solo quello più a ridosso della morte. Ci sono sì tappe e percorsi intermedi che si concludono, ma tra un quadro e l’altro rarissimamente vi è un compartimento stagno.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, “Davide e Golia”, Roma, Galleria Borghese, 1609. olio su tela, cm. 125×100.

Dire che il “Davide e Golia” è il testamento spirituale di Caravaggio dunque non ha nessun senso: è solo un dipinto che porta a un altro dipinto, e mira a un risultato. Allo stesso modo, per negare una leggenda che possiede un suo indubitabile fascino, non serve affannarsi a retrocedere di quattro anni questa realizzazione, sino all’ultimo periodo romano. Le consonanze di stile con il momento più classico del Merisi sono sì evidenti, ma corrispondono a una scelta consapevole, dettata dalla volontà di “parlare” al destinatario del quadro. Il Merisi vuole mandare a Scipione Borghese un omaggio che sia in qualche modo in rapporto con le tele che il cardinal nipote si è già assicurato. Rivede dunque il suo stile abbreviato del periodo siciliano, e torna a una maniera più finita, a un realismo più marcato.

Caravaggio sa probabilmente che Scipione si è assicurato, tramite il sequestro della collezione del Cavalier d’Arpino, l’autoritratto del “Bacchino malato”, e gli consegna una nuova immagine di sé stesso, che racconta delle sue paure, del proprio pentimento (“Davide e Golia” è in fondo il tema della vittoria del bene sul male) e della prostrazione a cui l’ha portato la situazione apparentemente senza uscita in cui si trova. E però gli fa vedere che se l’uomo è a pezzi, il pittore è straordinariamente integro, capace ancora di ammiccamenti all’osservatore più attento (quella punta di luce che si legge sui denti e sulle labbra del gigante decapitato), e di saggi inimitabili di realismo (l’occhio sinistro con la palpebra più incurvata e il ciglio aggrottato, desunto sicuramente dal vero, magari davanti a qualche patibolo napoletano). Sicuramente in quest’immagine il cardinal Borghese avrebbe riconosciuto il pittore incontrato nel 1605, a cui aveva commissionato quel brillantissimo, sprezzante “San Girolamo”, ironico e vertiginoso. Anche stavolta non mancano i virtuosismi, come la caduta dell’ombra sul braccio e la veste del David, che allude al tendone nero appena accennato in alto a sinistra, e che evidentemente incombe sulla scena. O il dettaglio dell’unghia del ragazzo, il modellato delle costole, l’anatomia del braccio e la scelta stessa di un taglio a mezza altezza che ti fa guardare il ragazzo dal basso e la testa del gigante dall’alto.

Non ha senso pensare che un esito così alto preceda cronologicamente un’altra versione dello stesso soggetto, realizzata nel primo soggiorno a Napoli, quella ora conservata a Vienna, un olio su tavola di pioppo, che già accenna all’idea del braccio proiettato in avanti, così da spingere il capo di Golia in primo piano a destra. Il ragazzino sfrontato e indifferente al dramma, refrattario all’empatia come doveva effettivamente essere un modello, si è intanto tramutato in un carnefice che partecipa al senso della morte. Il boia della “Salomè” di Londra è in tal senso un momento di mediazione, con lo sguardo che si abbassa sul proprio gesto, e quell’appoggiare la testa nel bacile con la delicatezza che non si usa alle cose inanimate. La vita dunque irrompe nell’opera, fa di una condizione autobiografica la suggestione per l’interpretazione di un soggetto sacro. E poi ricomincia, come un assoluto presente, senza nessuna consapevolezza della vicinanza della fine.

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