Arte

Pace fiscale per arte e contanti? Vale 40 miliardi, ma si rischia il riciclaggio

28 Settembre 2018

Duecentoventi miliardi. Secondo le ultime stime, è questa la cifra esorbitante che sfiora il “sommerso” – cioè il contante, gioielli, oro e metalli preziosi, opere d’arte – sottratto a tassazione da parte dei contribuenti italiani. Numeri che equivalgono al 10% del debito pubblico italiano.
E numeri che, in questo periodo di vacche magre, hanno attirato l’attenzione del governo, in cerca di coperture per finanziare gli obiettivi del proprio programma. Tra cui, come noto, ci sono soprattutto “flat tax” e reddito di cittadinanza che costerebbero alle casse dell’erario molti miliardi di euro. Nasce su questi presupposti l’idea di inserire nella manovra che sta cominciando il suo iter norme in grado di far emergere e di regolarizzare a pagamento il “sommerso” in Italia e all’estero.
Una sanatoria, insomma, che implicherebbe il pagamento di un’aliquota fissa “a forfait” del 15-20%, sulla falsariga della “flat tax” che già si prospetta per i “redditi da partite Iva”. Inoltre, la definizione agevolata avrebbe il pregio di garantire un cospicuo sconto sulle sanzioni amministrative e, verosimilmente, la non punibilità per i reati tributari e di riciclaggio, esclusi dunque quelli più gravi.
Una prospettiva allettante. Tutti i benefici sono però condizionati all’obbligo per il contribuente che aderisce alla sanatoria di investire il “residuo” (cioè la somma che gli rimane in tasca una volta assolti gli oneri fiscali) nei c.d. “PIR”, cioè in piani di risparmio a lungo termine che possono essere costituiti da diversi strumenti finanziari a regime fiscale agevolato.

È una soluzione ragionevole, che presenta un aspetto ancora più interessante con riferimento alle opere d’arte, dove oggi in assenza di una normativa complessiva di settore – nonostante la notevole rilevanza di tali beni – il trattamento fiscale è affidato per lo più alla prassi amministrativa. Come stimare, allora, il quadro dell’Ottocento ereditato dalla nonna? La spilla art déco che si tramanda in famiglia? O quant’altro provenga da mercatini, rivenditori privati, familiari, non in grado di fornire certificati del valore degli oggetti?

Non è un problema da poco. Del resto, il settore delle opere d’arte è sempre stato trascurato dal legislatore. Si pensi, ad esempio, alla rilevanza (o meno) fiscale – ai fini dell’Irpef e dell’Iva – delle cessioni delle opere, condizionata dal sottile “distinguo” tra il concetto di “collezionista”, che non deve alcun tributo,  e quello di “mercante” che invece svolge un’attività commerciale.
E si pensi agli adempimenti fiscali prescritti per quelle opere appartenenti a soggetti residenti in Italia, ma custodite all’estero, le quali dovrebbero essere comunque oggetto del cd. “monitoraggio fiscale” ovvero indicate nell’apposito modulo della dichiarazione dei redditi. E quindi, torna il problema di come valutarne il valore.

In sostanza, questa modalità di definizione agevolata appare utile per fare chiarezza e vantaggiosa per chi ne farà uso. Restano, però, dei punti oscuri che il governo dovrà approfondire.
Il primo non è un problema fiscale bensì etico-politico. Nella sua formulazione molto scarna la norma consentirebbe di “riciclare” a basso costo anche il contante: come essere certi, allora, che i soldi derivino “soltanto” dall’evasione fiscale e non siano frutto di altri reati, ben più gravi? Come evitare, insomma, che la “tassa a forfait” si trasformi un una sorta di “lavaggio” dei contanti?
Una soluzione potrebbe essere quella per cui il contribuente debba rendere contestualmente una dichiarazione o dimostrare – con previsione di sanzione penale ad hoc in caso di menzogna – che le attività regolarizzate provengono esclusivamente da illeciti tributari. Fatti salvi, ovviamente, i controlli dell’amministrazione.

Altro punto critico, l’eventualità che valori oggetto di emersione – soprattutto se si tratta di opere d’arte – non siano comunque tassabili tout court. Può accadere perché, ad esempio, gli oggetti sono pervenuti per successione (su cui sono già state pagate le tasse) o per legittimo acquisto, per di più effettuato in un arco temporale ormai lontano, ovvero in periodi di imposta comunque non più accertabili da parte del fisco, per decadenza dei termini di accertamento. E’ chiaro che in tutti questi casi il contribuente dovrebbe essere ammesso a fornire la prova (contraria) della irrilevanza fiscale delle attività emerse proprio per i motivi suddetti. Altrimenti la sanatoria si trasformerebbe in un’ingiusta penalizzazione.
Infine, c’è un tema pratico, che può sembrare di poco conto ma non lo è affatto: come far affluire le opere d’arte o il contante presso gli intermediari finanziari, al fine di tracciare con trasparenza le attività oggetto di regolarizzazione e poi assolvere all’obbligo di investire il residuo nei  “PIR”. Una soluzione potrebbe essere quella di “scortare” queste attività con un verbale o un inventario da parte di un perito, di un notaio o di un pubblico ufficiale equipollente, che attesti il valore e il quantum da regolarizzare.
In conclusione, questa sanatoria appare più urgente e meno discutibile della c.d. “pace fiscale”. E oltretutto, se passasse, farebbe affluire nelle casse dello Stato una quarantina di miliardi di euro.

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