Arte
CON QUESTA FOTO MUORE LA STREET ART (CHE FORSE NON E’ MAI ESISTITA)
Non c’e’ cosa più triste di un artista a braccetto col potere (o col potere in braccio).
Triste perché l’arte dovrebbe avere come oggetto sociale la rottura, l’esplorazione del diverso, il desiderio di andare oltre. Al contrario, nel momento in cui l’artista diventa funzionale ad uno status quo, l’arte cessa di essere tale, diventando pura propaganda: e tra un artista e un Emilio Fede qualsiasi smette di esserci qualunque differenza. Se poi l’artista in oggetto e’ pure uno “street artist”, il tutto diventa addirittura grottesco.
Da anni assistiamo alla graduale trasformazione della “street art” in “salotto art”: quella che un tempo era una forma di espressione innovativa e’ diventata via via talmente organica al potere da esserne ormai parte integrante, quasi meccanismo essenziale.
Non passa giorno, infatti, che sui giornali non si racconti l’ennesima puntata dello stesso format: in una città X c’e’ un’area degradata > lo “street artist” di turno viene assunto dal politicante di turno per “riqualificarla” > lo street artist e il politicante appaiono mano nella mano nella brava intervista con fotina d’ordinanza sulla stampa locale > lo street artist usa la popolarita’ ricavata per vendere le proprie opere, il politicante si rifa la verginita’ davanti all’elettorato più giovanilista.
Un format, dicevamo, collaudato quanto una gag dell’avanspettacolo, che ha trovato massima realizzazione in quanto accaduto di recente a Roma, con Virginia Raggi che ha prontamente inzuppato il biscottone, anzi, il frigoriferone della retorica politica nella storiella dell’opera raffigurante il Papa cancellata dai vigili urbani, convocando l’attempato “street artist” per decorare una facciata del Campidoglio.
Autore che, come si vede dalla foto, non aspettava altro, e sbarazzatosi di passamontagna e abbigliamento tattico e’ corso dal Sindaco per mostrare il faccione a favore di camera (della serie: ognuno ha il Banksy che si merita).
Un’operazione in teoria da manuale, con cui ci hanno guadagnato tutti: la Raggi, che ha potuto tirare a lucido la sua immagine un po’ offuscata, e ovviamente lo street artist, che con lo spirito del “mamma guarda come sono stato bravo!” ha poi inviato email e comunicati stampa urbi et orbi per pubblicizzare il prestigiosissimo endorsement.
Questo in teoria: perche’ a perderci, e in maniera sempre più definitiva, e’ proprio la street art.
Senza entrare nel merito “estetico”dell’opera e della sua originalità (ci mancherebbe!), ci chiediamo come mai la maggior parte degli street artist italiani sembra non desiderare altro che la legittimazione da parte delle Istituzioni, e se anzi questa stessa legittimazione non costituisca un palese ossimoro con la ragione stessa per la quale la street art esiste.
Se lo street artist decide di sfidare le leggi e e di portare la sua arte dove non dovrebbe stare, perché allora si mette a scodinzolare quando i rappresentanti di quelle stesse leggi gli danno un buffetto sulla guancia, usandolo come soprammobile per farsi pubblicità?
Il fine ultimo della street art e’ dunque questo, quello di diventare ancella del potere costituito, e tutto il resto – la “strada”, il rischio, l’illegalita’ – e’ solo uno specchietto per le allodole, un mezzo per fare un po’ di casino e conquistarsi un posto al sole con cui mantenere la famigghia? D’accordo, il vil denaro: pero’ Banksy resta anonimo, e non corre a compiacere ora questo Sindaco, ora quell’assessore col piglio dello scolaretto bravo ma un po’ pasticcione (anzi, a New York il Sindaco per ingabbiarlo aveva contattato pure l’F.B.I.).
E per quanto riguarda la politica, intendiamoci: d’accordo il dare spazio e legalità a una forma d’arte che negli ultimi anni ha entusiasmato il pubblico. Ma oramai – e il caso della Raggi lo dimostra con chiarezza – siamo ai politici che sgomitano per farsi fotografare con l’artista-santino (meglio se rustico, meglio se sporco, insomma: street!) senza che poi il tutto dia origine a proposte o strategie di largo respiro, a un supporto organico alla disciplina tale che questi artisti possano poi emergere nel mercato dell’arte reale, sia in Italia che all’estero. Una sacca di monete, qualche bomboletta e un muro scrostato da colorare nel week-end: e sotto con la prossima occasione per rimediare un po’ di visibilità a buon mercato.
Qualche giorno prima di questa storia romana, avevamo parlato dello stesso argomento con Zibe, pioniere della street art a Milano, un artista che attraverso la ripetizione ossessiva del suo marchio di fabbrica – la faccia del celebre “Arnold” protagonista della serie TV cult degli anni ’80 – ha segnato per un decennio, come forse nessuno, lo spazio urbano milanese.
Hai scritto su Facebook che “la street art, per essere tale, deve essere illegale: altrimenti si chiama muralismo”. Spiegati meglio.
Anche se condivido in pieno, in realtà si trattava di un copia e incolla di una porzione di un commento di Ozmo (altro artista da conoscere n.d.r.) , ma non è questo il punto. Il punto e’ che sul termine “street art” ormai si e’ fatta troppa confusione.
La “street art” in realta’ non esiste. Semplicemente, a un certo punto, i media e la società in generale hanno creato questo termine per fare una distinzione: da una parte il graffiti writing, ovvero l’atto vandalico da condannare, e dall’altro un linguaggio più espressivo – la street art appunto – da autorizzare, legalizzare e commercializzare.
La realta’ e’ completamente diversa: senza il graffiti writing, artisti come Banksy o Shepard Fairey non sarebbero mai esistiti. Quello che adesso si considera “street art” nasce e si sviluppa interamente all’interno del writing.
Il problema e’ che, nel corso degli anni, molti hanno cominciato a fare “street art” improvvisandosi, senza saperne nulla, attratti dal denaro. Così si crede che per “street art” si intenda qualunque cosa viene realizzata per strada, a prescindere dal contesto. Non e’ così. Quello si chiama “muralismo”, che e’ un’altra cosa e risale alla notte dei tempi. Qualcuno dovrebbe fare un po’ d’ordine, per esempio i critici d’arte, ma non lo fanno: l’idea di “vendere la strada” e’ un concetto troppo sexy da un punto di vista commerciale, che fa gola a tutti.
E cosi’ si prosegue nell’equivoco, in una controversia che va avanti da anni.
Quindi “street art” e’ una sorta di etichetta inventata dai media.
I primi graffiti writers raggiunsero la fama nel mondo dell’arte a meta’ degli anni 80. Quindici anni dopo, quando altri writers che non usavano solo la bomboletta ma anche colla e stencils hanno raggiunto la popolarità, i galleristi cercavano un modo per venderli facendoli sembrare un qualcosa di nuovo: ed ecco il termine “street art”.
Che futuro vedi per la Street Art quindi?
Il soldo ovviamente fa gola a tutti anche se, e’ bene specificarlo, di soldi da noi ne girano gran pochi.
Tutti sono indignati per la piega che hanno preso le cose, me compreso, ma poi alla fine nessuno fa niente per il movimento nel suo complesso, ognuno guarda al suo piccolo tornaconto: e’ pieno di imbianchini, decoratori di scarso valore che si offrono ad un costo bassissimo, per lavori privi di qualità e spesso, grazie a conoscenze varie, sono proprio loro quelli che ottengono più visibilità.
Io, e altri come me, le Istituzioni non le teniamo in considerazione: il loro e’ un atteggiamento ottuso, non interessato a valorizzare la forma d’arte – per non parlare della repressione paurosa che, contemporaneamente, viene messa in atto contro chi non accetta la loro regolamentazione.
Spero che altri, sempre di più, inizino a fare come me. Sono sicuro che la disciplina, a prescindere da come la si voglia chiamare, ne guadagnerà parecchio.
(un modo per approfondire l’argomento, comunque, e’ il documentario di Sky Arte “Graffiti a New York” presentato da Federico Buffa).
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