Arte
Con Giovanni Testori alle Gallerie d’Italia
Venticinque anni fa, all’Ospedale di Niguarda, la mattina del 16 marzo 1993, moriva Giovanni Testori. Credo che oggi, a distanza di cinque lustri, esista un pubblico di lettori non necessariamente informato intorno a quella che è stato, dopo Pasolini (di cui raccolse l’eredità sulle pagine del “Corriere della Sera” nel 1977)-lo dico con una presunzione di oggettività- l’ultimo grande intellettuale italiano del Novecento. Era tutt’altro che un uomo a una dimensione, Testori. Oggi, a una distanza certamente non del tutto sufficiente per un giudizio definitivo, ma comunque bastante a raffreddare la fiamma dei suoi eroici furori e ad allontanarci dal dibattito-insistente nel suo tempo postremo e postumo- intorno al suo cattolicesimo militante, vissuto in maniera così drammatica sulla propria pelle, possiamo provare a dire che forse in nessun altro caso accade di imbattersi in un’opera altrettanto compatta e convergente. Il teatro, se letto (anche al di fuori della Trilogia degli Scarrozzanti) come deformazione linguistica e ricontestualizzazione dell’opera di Shakespeare-lettura parziale (a partire dall’Arialda e dallo scandalo che provocò c’è molto altro), d’accordo, ma che ha una sua tenuta-è in qualche modo predittivo dell’attività di critico e storico dell’arte, e individua la direttrice che consentirà di affrancarsi dalla lezione di Longhi da un lato e di immaginare una fuga dal dominio ideologico dell’arte povera e concettuale per quanto riguarda l’ambito contemporaneo. Testori è insomma-questo in qualche modo il tempo trascorso lo ha confermato-posizionato a difesa di un bastione che sente franare sotto i piedi, e la sua figura resta-quand’anche si sia cancellata con una spugna le distanze delle ideologie-tragicamente conservatrice, persino nel tentativo di riportare l’esperienza dell’omosessualità nel perimetro di una fede drammatica e problematica ma vissuta in maniera radicale.
Le stesse vicende della periferia milanese che costituiscono la materia dei suoi racconti e romanzi, dal “Il dio di Roserio” a “Il Fabbricone”, restano, se si leva la patina di scavo antropologico dell’epoca della ricostruzione, quell’ottica che viene oggi guardata un po’ alla stregua di archeologia industriale della psicologia colletiva del proletariato milanese-perché lo scarto con Pasolini è in definitiva dato non solo da lingua, mezzi e ambizioni, ma anche dell’oggetto di studio, da un lato appunto il proletariato, dall’altro il sottoproletariato-un tentativo di recupero in prosa degli archetipi del teatro classico, una sua modernizzazione che riformula a quattro secoli di distanza quella di Shakespeare, Monteverdi, Tasso.
Sul versante della critica d’arte, perché Testori ha sempre fatto critica anche quando guardava gli oggetti con gli occhiali dello storico o la mera passione del connoisseur (e qua si potrebbe aprire un dibattito infinito e forse anche ingeneroso su quanto ci “vedesse”), in definitiva non ha fatto che confermare quest’adesione e attitudine, interessandosi soprattutto a quel momento che precede il barocco e segue la rivoluzione realista del Caravaggio. Meglio ancora, ha sempre cercato un punto di sintesi tra la verità e la poetica degli affetti. Sintesi difficilissima, che procede a volte per la rimozione di una polarità che oggi torniamo a riconoscere, perché il realismo è anche un raffreddamento della retorica, e di raffreddamenti Testori non era capace. Per rendersene conto basta leggere con la dose di disincanto necessaria la sua prosa, perennemente tesa all’invenzione di una lingua che dica di più, più icasticamente, anche a costo di franare involontariamente nel kitsch (come quando fa apparire in sogno pittori che gli parlano e rivelano autografie più o meno discutibili).
Se ci basiamo sulla traccia che lo stesso Testori ci ha lasciato, quando gli fu richiesto di individuare una traccia che consentisse di ordinare la sua sterminata biografia artistica, ci accorgiamo, come annotava Pietro Marani nell’introduzione de “La realtà della pittura” (1995), non solo che ben undici dei quattordici temi enucleati sono di arte antica, ma anche che tra “Il carro della peste (studi sul Seicento lombardo), “L’aquilegia del Tanzio” e “La notte di Casbeno (saggi su Francesco del Cairo)” intercorrono pochissimi decenni, come se quel momento, la prima metà del XVII secolo, fosse lo snodo fondamentale dei suoi interessi, e, all’interno di essa, quelli che sono i “pittori della realtà”. Ho provato allora a percorrere la mostra “L’Ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri” e il suo palinsesto, che dispone in modo nuovo la pittura prodotta tra Napoli, Milano e Genova tra il 1610 e il 1640, con lo sguardo di un Testori che visitasse oggi le Gallerie d’Italia.
Il punto di partenza può essere la pala che il Cerano ha dipinto per la chiesa di Santa Prassede. Che esisteva una volta nell’area dove ora è situato a Milano il Palazzo di Giustizia. La tela dopo la distruzione della chiesa (dove era collocata in una cappella, di fronte a un altare su cui stava una “Flagellazione” di Giulio Cesare Procaccini) confluì nelle raccolte dell’Isola Bella. Nonostante sia stata recuperata nelle collezioni dei Borromeo nel 1993, dopo che per decenni era stata ignorata dagli studi sul pittore, ha piena affinità con i Quadroni di San Carlo, con la riproposizione di schemi tardo manieristi che si ritrovano anche nei teleri della “Vendita del principato di Oria” e della “Visita degli appestati” che appartengono al ciclo dipinto nel 1602 per il Duomo, di cui Testori scriveva: “il Cerano mai dimenticò la presenza di un popolo teso ad assistere allo spettacolo, fosse pure quello delle stragi e delle rovine in cui era coinvolto”.
Strettamente collegata alla pala del Cerano appare per linguaggio la tela del “Martirio di San Sebastiano” che Gioacchino Assereto dipinse entro il 1635 (la datazione è ancora aperta e suscettibile di essere abbassata), ma ancora all’interno di un linguaggio che guarda con grande attenzione alle invenzioni dei pittori milanesi, e in particolare proprio del Cerano, nel descrivere l’accanimento dei carnefici. Certo, c’è anche la lezione di Andrea Ansaldo e quella del Morazzone, evidente nell’abile gioco di trazioni e resistenze enfatizzato dal ricorso a diverse prospettive. Già Longhi, che possedeva nella propria collezione un “Sansone e Dalila” dell’Assereto che legava allo stesso momento di quest’opera, scriveva: “un telone per traverso, ammirevole di violenza demoniaca come un Morazzone o un Cerano, costipato come tutti i milanesi di forme che versano nel quadro sine fine o sine fine se ne dipartono, ma dove, al confronto coi lombardi, l’Assereto mostra di saper così maneggiare la pasta della sua maniera che, in quella furia del voler rendere visibili ogni desinenza e ogni accento, ritrovi proprio per via di particolari la forza del naturalismo”. E però, aggiungiamo noi, lo fa all’interno di una cultura figurativa che utilizza l’artificio retorico senza remore, com’è naturale per un quadro realizzato nel quarto decennio del secolo, quando il linguaggio pittorico è ormai pienamente orientato verso la teatralità e il dato di verità resta al più imprigionato nei dettagli.
Certo Testori sarebbe stato molto incuriosito anche da una delle acquisizioni scientifiche di maggior rilevanza della mostra, quella che ha ricondotto al Genovesino un dipinto emerso, come documenta Alessandro Morandotti nelle scheda in catalogo, in tempi recenti in una collezione privata lombarda. Si tratta di “Martirio di Sant’Alessandro”, impaginato con una curiosa scelta compositiva che vede le figure disposte in maniera semicircolare attorno al martire e al carnefice, con due figure di quinta e i personaggi in secondo piano, tra cui l’imperatore Massimiano, che sono meno definiti, quasi fosse applicato, come scrive Morandotti, “un effetto di progressiva dissolvenza”. Si deve al curatore l’indicazione di un autografia di Luigi Miradori, detto Genovesino, pittore “per molti versi ancora imprendibile, specie negli anni dell’esordio e della prima maturità, epoca a cui va fatto risalire questo dipinto, verosimilmente eseguito in apertura del quarto decennio. Sono molti i dettagli che convincono della bontà dell’attribuzione, a partire dalla indimenticabile figura del giovane soldato dal cappello piumato ritratto sulla destra del dipinto; il tono accigliato e l’espressione del volto segnata da cupi presagi di quel giovane imbronciato, perfetto per interpretare il ruolo dell’eroer adolescente in una scena con Davide e Golia, ricorrono in molte opere dell’artista”. Proprio pensando a quest’ultimo riferimento iconografico, l’occhio corre a un altro passaggio della schedatura, quello in cui Morandotti, dopo aver ricordato l’educazione genovese del Miradori, il confronto con la scena milanese (dunque i riferimenti che ci sono ormai famigliari, Morazzone, Cerano e Giulio Cesare Procaccini), scrive: “Il tutto però nel segno di una scioltezza esecutiva e di una fedeltà al naturale insolite in quei maestri, se si pensa ai sensibili passaggi chiaroscurali, alla luce incisiva e allo studio attento delle fisionomie dei volti. Ed è per questo che bisognerebbe chiamare in causa la grinta di Tanzio da Varallo, mai venuta meno anche negli anni del suo definitivo radicamento a Milano, a cavallo tra secondo e terzo decennio del Seicento. A quell’altezza cronologica Tanzio, ormai lontano dai centri di irraggiamento della cultura caravaggesca come Napoli o Roma dove aveva a lungo soggiornato, trova necessario per l’affermazione professionale confrontarsi con la perfezione accademica e disegnativa di Daniele Crespi, tenendo fede però al confronto con il vero”.
Pienamente legittimati da questa lettura, non abbiamo resistito alla tentazione di convocare in quest’articolo il dipinto che forse Testori ha amato più di ogni altro, il “David e Golia” della Pinacoteca di Varallo, che il Tanzio deve aver licenziato proprio alla metà del terzo decennio. “Il viso dannato e innocente, una specie di Rimbaud senza ambasce intellettuali, ma inchiodato all’inesorabile realtà della miseria”. E personalmente mi torna in mente anche quel brano meraviglioso che Testori pone immediatamente dopo l’incipit del suo saggio sul Tanzio, quando dopo aver immaginato che il ragazzo abbia assistito alla visita pastorale di San Carlo Borromeo, sembra seguirlo mentre rientra a casa, sui monti, la sera: “In quel momento, il giovane, niente più che un ragazzo, è assalito dalla paura. Tornar a casa; attraversare i prati magri e già pronti per le nevi dell’inverno; sentir il vento frusciare sulle erbe e contro i rami; passar di lato alle stalle, ascoltar il lamento delle bestie: mucche, asini, muli e cavalli, che si scaldano sui giacigli di paglia e di strame; incontrar i compaesani, ragazzi come lui, dalla pelle tesa e prosciugata, dagli occhi freddi e fissi su chissà quale spavento; ovvero adulti tutt’ossa, carichi di nervi e di vino; donne che vanno a prendere l’ultimo secchio d’acqua; e poi, ecco le imposte sbattere l’una contro l’altra, e qua e là accendersile luci delle candele o l’altre, più rigogliose, dei camini; gli ultimi richiami; le ultime voci; finché, dai punti più alti dei boschi, vien giù, precipite e impietoso, l’ululato dei lupi; il cupo inferno d’ogni notte che scende sulla dura miseria d’ogni giorno”.
Vorrei chiudere quest’omaggio a Testori con una tela che appartiene alle collezioni di Brera e che è stata portata in mostra alle Gallerie d’Italia per dimostrare la ricomparsa a Genova di un linguaggio caravaggesco nel quarto decennio, all’interno di un dialogo tra Assereto e Orazio De Ferrari. Il dipinto in questione, un “Ecce Homo”, apparteneva alla raccolta del cardinale Cesare Monti, arcivescovo di Milano dal 1632 al 1650, ed è rimasto nella quadreria degli ordinari ambrosiani sino al 1895, quando è stato trasferito alla Pinacoteca di Stato . Viene descritto nell’ “Instrumentum donationis del 1650 come opera del “signor Ferrari genovese” raffigurante “un Signor con mani legate, cadente per flagelli havuti in braccio ad un Manigoldo, Pilato vestito di brocato, un bastone nella mano dritta, alza la sinistra accennando con un deto un’altra figura che rimira il Cielo”. Al di là degli echi di Morazzone, Cerano e Procaccini segnalati nella scheda Paolo Vanoli, mi sembra di poter indicare nella componente di espressività lombarda rilevata anche da Alessandro Brogi in occasione dell’esposizione della tela alla mostra milanese sulla collezione Monti del 1994, una consonanza con alcuni modi del pittore prediletto da Testori, Francesco del Cairo. Se è vero che il taglio stretto dell’inquadratura e le espressioni dei due gherri rimandano a una deformazione del naturalismo caravaggesco, e Longhi vi ravvedeva l’osservazione delle opere di Artemisia Gentileschi, mi pare di poter dire che altri elementi invece spingano decisamente oltre quest’esito, come la testa innaturalmente rovesciata all’indietro del Cristo, che credo offra materia per un confronto con una delle soluzioni ricorrenti nei personaggi e santi estatici di Francesco Del Cairo (dalle numerose “Erodiadi” al “San Francesco in estasi” del Castello Sforzesco). Nella Milano del cardinal Monti, nonostante il raffreddamento stilistico che si registra a partire dall’ascesa di Daniele Crespi, si respira ancora un pathos religioso che, attraverso l’opera di un pittore genovese come Orazio De Ferrari, riecheggia la generazione dei pestanti: si guardi allo stillare del sangie dalla corona di spine, una soluzione che avrebbe potuto adottare il Cerano. Ma nello stesso tempo convergono nuove influenze, che determinano uno stile eclettico: la veste di Pilato, che, rivolto lo sguardo verso lo spettatore, presenta alla folla il prigioniero, è dipinta con una cura minuziosa nella restituzione dei timbri metallici, così come attentissimo è il trattamento del corpo del Cristo, scandito in una successione di luci e ombre, che richiama da vicino la sensibilità di Van Dyck e dunque il passaggio del maestro nordico da Genova.
“Nel Seicento italiano ed europeo, la Lombardia si presenta con quattro artisti, il Cerano, il Tanzio, il Serodine (che andrà finalmente riportato in questa, che è la sua vera e “reale” compagnia) e Francesco del Cairo, che son, tutti, di classe primissima; ovvero, come usa dirssi pei tornei di tennis, che son tutti “teste di serie”. Quanto alla “finale”, essa ha ancora da venir giocata; dalla critica, s’intende; ché i protagonisti, giocata, l’han di già. Ma par sempre più chiaro che, ove si voglia scendere veramente in campo, occorra dimenticare quei manuali, o sunti, coi quali ognuno di noi accerta il già accertato e dispone quel che già conosce in sistemazioni che è poi durissimo rimettere in gioco”. Così scriveva Testori in “Se la realtà non è solo un fotogramma…”, uno dei suoi contributi su Francesco Del Cairo, di cui denunciava la formazione in Procaccini e Morazzone, oltre che nel Daniele Crespi che abbiamo poco sopra citato. E se a ricostruire puntualmente determinati passaggi sembra talvolta mancare un tassello, forse è perché va appunto cercato fuori dalla terra di Lombardia, a Genova, in uno scambio che non riguarda solo Giulio Cesare e Strozzi, ma che si allarga alla generazione seguente, quella appunto che vedeva da una parte Assereto e Orazio De Ferrari e dall’altra Francesco Del Cairo. Apparentemente non comunicanti, posizionati forse a essere “fanale di coda o non, piuttosto, coda d’un grande, esacerbato, pregnante, bestemmiante e invocante fanale? E fanale puntato dove? Nelle interiora di lei, la realtà; quella del non visto, quella del non visibile, epperò dell’inesorabilmente esistente”.
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