Arte
Come un portoghese nelle colonie, sempre di passaggio
È il giorno in cui le dimissioni da pontefice di Papa Benedetto XVI – dimissioni senza precedenti in età moderna – vengono rese note al mondo intero. Il giornale locale, che annuncia l’inimmaginabile notizia, a caratteri giganti, in prima pagina, è già sul tavolo della sala da pranzo, insieme al pane tostato, al bricco di latte caldo e al termos con dentro il caffè; la colazione è pronta; ma il signor Heliseu da Motta e Silva, o meglio, o professor Heliseu da Motta e Silva, settantenne, brasiliano, per tutta la vita dedito allo studio e all’insegnamento di una materia tanto ostica in superficie quanto affascinante nelle sue rivelazioni più profonde, ovvero la vituperata (dagli studenti universitari) ma nobile filologia romanza, se ne sta ancora a letto, ormai sveglio da un pezzo, a pensare e ripensare, a rivangare leziosamente il proprio passato e ad accostare parole, costruire frasi, architettare periodi, selezionare e imbellettare ricordi per poi esporli, mentalmente, al meglio delle sue capacità oratorie.
Heliseu da Motta e Silva è il protagonista de “La caduta delle consonanti intervocaliche” – romanzo scritto dal pluripremiato autore brasiliano Cristovão Tezza, edito in Italia da Fazi –, ovvero un racconto-monologo che deve il suo singolare titolo (anche se nella versione originale è semplicemente “O Professor”) a una piccola ma importantissima fissazione grammaticale dello stesso professore, ovvero: la scomparsa progressiva delle consonanti intervocaliche sonore che si registrò nel latino parlato nel secolo XI dagli abitanti dell’attuale Portogallo, e che diede vita, a tutti gli effetti, proprio alla cultura e alla lingua portoghese – che prese così a separarsi definitivamente da quella spagnola.
Il perché di quel pigro e trasognato starsene a letto, a occhi aperti, alla ricerca di tracce vivide degli ormai lontanissimi anni Ottanta e Novanta – tra persone per lui care e importanti, così come cari e importanti sono stati però anche i fonemi e i grafemi del portoghese brasiliano –, il perché di quel puerile traccheggiare nel letto, quando, da uomini più che maturi quali si è, bisognerebbe infilarsi le pantofole e alzarsi, il motivo di questa prolungata indolenza mattutina, è la stesura di un testo, o più precisamente di un discorso: il discorso di ringraziamento per la consegna di una targa e di una medglia, onorificenze per una carriera dedicata alla grammatica diacronica della lingua portghese.
Il professor Heliseu, nei giorni precedenti, non ha preparato nulla: nessun appunto, nessuna scaletta, nessun nome in particolare a cui dedicare speciali ringraziamenti. Heliseu, semplicemente, la mattina stessa si sveglia – a dir la veirtà con un piccolo trauma: avverte la presenza di un nemico (non meglio precisato), qualcuno che vuole come braccarlo nel sonno, avvinghiandosi, cercando persino di baciarlo, ma senza riuscirci –, e comincia candidamente a pensare, pensare solamente, non ancora formulare con esattezza, ciò di cui si ritroverà a parlare di lì a poche ore, nell’auditorium dell’università.
«Sarà una bella cerimonia. Il rettore aprirà dicendo due parole benevole, poi un collega terrà un breve discorso, una piccola arringa per giustificare l’onorificenza, dopodiché mi lasceranno la parola…» Questo è quel che immagina Heliseu – questo è il punto da dove prende vita la storia creata da Cistovão Tezza, il perché della vicenda; c’è poi il cosa, il materiale di cui questa storia è composta, la sua pura sostanza: «… mi lasceranno la parola perché io mi revisioni da capo a piedi, in trenta minuti. Ne uscirò nuovo di zecca! […] le onorificenze come opportunità, una cerimonia rapida, da regolamento dei conti, da pre-giudizio universale, per revisionare la propria vita in poche parole, quell’essenza che sempre ci manca, quel niente che, se ci arrivassimo, risolverebbe tutto con tranquillità.» La chiamata all’azione è una meritata onorificenza; l’oggetto del desiderio è, né più né meno, il senso della propria vita; il mezzo con cui raggiungerlo è la propria capacità di revisionarsi – rigorosamente al riflessivo, poiché il professor Heliseu, seppur menzionando persone, luoghi, avvenimenti e date, è perso in un infantile narcisismo, in un fragile monologo, erudito senz’altro, ma stretto dal fantasma di una incurabile solitudine.
Il motivo principale per cui val la pena prestare orecchio allo sproloquio dotto, aristocratico, vanesio e persino inquietante – in alcuni punti dell’intreccio – di Heliseu risiede non tanto nel plot, che risulta piuttosto asciutto e sostanzialmente povero di drammaturgia; il motivo, nonché ragion d’essere del libro stesso, è in ogni senso la scrittura, la resa in belle lettere dei pensieri che affollano la mente di un professore settantenne in pensione, che deve dar conto, a una platea di severi colleghi, della sua esistenza, e deve farlo al meglio delle sue possibilità, costruendo e ritoccando di continuo il suo discorso: «La catena delle angosce mattutine, sussurrò, e gli parve bello, la frase, provata ad alta voce, gli causò un impeto di entusiasmo – avrei potuto fare lo scrittore, se avessi trovato il coraggio al momento giusto. Per poco non ho squarciato il velo per oltrepassarlo. Pareva facile. Therèse una volta gli aveva detto: perché non scrivi? Un inciampo di fonemi in accumulo – catena mattutina.» Racconto-monologo, s’era detto prima, perché il gioco di Cristovão Tezza è proprio quello di intrecciare la voce del professor Heliseu a quella neutrale (ma non troppo) di un Narratore, creando un’alternanza fra i millenari concetti di mimesi e diegesi che, per scelta formale, non vengono mai separati dai segni grafici del discorso diretto, addirittura passando di voce in voce – che sia quella del Narratore, di Heliseu o di un personaggio secondario evocato da entrambi – con un sol tocco di virgola, nello svolgersi dello stesso periodo: «Cominciamo dall’inizio, per favore. Era come se non riuscisse ad alzarsi dal letto senza prima definire una volta per tutte il… il senso della vita, decise con un sorriso, quasi senza ironia, l’indice e il pollice a tracciare in aria una linea orizzontale immaginaria, il senso della vita. Da dove avrò tirato fuori questa espressione, qualcuno me l’ha detta parlando sul serio, il ricordo gli scappava via dalla punta dell’anima.»
Si procede poi a una ulteriore sovrapposizione che riguarda tempi e luoghi: l’ora scarsa in cui il professore si sveglia, fa colazione, va in bagno a fare i suoi bisogni e una doccia calda, torna in camera per vestirsi e infine specchiarsi, rappresenta il tempo reale del racconto, mentre in rassegna, in brevi sequenze o dilatatissimi episodi, scorrono trent’anni di ricordi di vita universitaria, coniugale ed extra-coniugale, spesso persino tutte e tre insieme, in un affastellarsi confusionario che conduce puntualmente lo stesso Heliseu a prendere bruscamente una pausa e rivedere il filo del discorso, chiedendo perdono al pubblico immaginario del suo estenuante discorso. Ma è una scelta condotta senza dubbio con stile: la scrittura che ne viene fuori è ricca, coesa, di una verbosità quasi ottocentesca – parlare come un libro stampato è l’intento di Tezza per il suo professor Heliseu, e ci riesce; ed entrambi, autore e personaggio, sembrano esserne assai compiaciuti.
Se poi arriva il momento di andare a vedere a cosa ruoti intorno questo lungo, estetizzante, sapientemente disordinato monologo, il materiale in cui ci si imbatte è rappresentato da pochi ma decisivi momenti della vita del professor Heliseu – le pietre angolari della sua esistenza: la morte di sua madre, caduta dalle scale, forse per mano del padre; l’incontro, in una sede del Banco do Brasil, con Mônica, il suo primo amore, che poi diventerà anche sua moglie; la scoperta fortuita dell’omosessualità di suo figlio Eduardo, sorpreso nella sua stanza con un altro ragazzo; la giornata in cui un insopportabile nervosismo viene completamente dissipiato dall’incontro con una nuova studentessa, Therèse, ebrea di origini francesi, che diventerà la sua amante; la morte di Mônica, caduta dal balcone per annaffiare le piante.
Intorno a questi eventi Heliseu cerca di costruire il senso della propria vita, impiegando tutte le sue forze per trovare un ordine; l’ordine non viene mai raggiunto, e sulla pagina se ne registrano i tentativi, come in un flusso di coscienza che potrebbe anche sembrare di marca joyciana, ma in realtà molto più ristretto e controllato, accademico – non si arriva a quel “fumetto del pensiero” in cui i ragionamenti vengono dati completamente per immagini e suoni.
Narrativamente, il ritorno sugli eventi elencati è ossessivo, e ogni nuova riflessione apre un punto di vista diverso, ma sempre personale; il racconto-monologo gira su stesso, segue un tentativo classicheggiante di piccolo atlante delle emozioni umane (gli occhi, i gesti, i tic delle persone a rivelare ideologie e sentimenti), ma non c’è nessun intrigo da svelare, salvo forse le cause del decesso della povera moglie Mônica, che appaiono nebulose, lasciando trasparire in Heliseu uno sproporzionato e sinistro senso di colpa.
Nel mezzo si scoprono temi e riferimenti da romanzo borghese un po’ fuori tempo, anche se il taglio del racconto è assoluatemente ironico e leggero; a Heliseu non vengono risparmiati nemmeno tratti misogini – ama le donne, le stima intellettualmente, ma è lui il cattedratico – e classisti («Non mi piaceva molto quel caffè all’aria aperta, i mendicanti inesorabilmente lì a rompere le scatole con le loro richieste di soldi, a vendere robaccia, a innervosire, a invadere lo spazio, a ostentare miseria…»), ma l’effetto è smorzato, vira sul comico, anche perché il professore si ritrae in apertura con un «Miei cari (no, non direi mai così; detto da me fa subito carnevalesco, una maschera alla Groucho Marx).»
Heliseu potrebbe sembrare un personaggio ottuso, persino odioso, il «ricettacolo di tutti i pregiudizi», come gli dice un giorno suo figlio Eduardo prima di partire per gli Stati Uniti e non vederlo mai più. Ma la tremenda sfida di Heliseu, fare i conti con se stesso nella maniera più onesta possibile, lo fa apparire umano, se non addirittura innocuo. Colui che da fuori sembra un reazionario della peggior specie, confessa: «Non ho mai avuto un’opinione chiara. Im una parola, signori: non so, né ho mai saputo»; o a commento di una discussione in aula professori sull’importanza di uno sciopero: «Chissà se già allora avvertivo la noia mortale della politica brasiliana. Come un portoghese nelle colonie, sempre di passaggio.»
Avvicinandosi alla fine del racconto-monologo, inebriati dalla parlantina, dal suono e dal ritmo tenuto per 225 pagine dal professore – eccellente il lavoro di traduzione di Daniele Petruccioli, in un romanzo in cui il linguaggio letterario del portoghese brasiliano è forse il soggetto principale – si arriva a capire, senza alcun risentimento, che “La caduta delle consonanti intervocaliche” è un po’ come quelle bellissime riproduzioni di caravelle, galeoni, vascelli e navi merantili, iperdettagliate e dalle proporzioni perfette, dei veri capolavori – la cui lunghezza, però, non supera quella della bottiglia nelle quali sono rinchiuse. Sia chiaro: il racconto è perfetto nel sua essenza di intrattenimento colto, ma sceglie di rimanere fuori da quel tipo di letteratura che cerca, magari anche in maniera strampalata, di esplorare i propri tempi abbracciando lo zeitgeist, spesso rischiando il ridicolo deragliamento filosofico, però col coraggio di spingersi più in là rispetto ai canoni del bello, del romanzo ben scritto. Al professor Heliseu questo importa poco: si limita a constatare quanto incomprensibile sia diventato il mondo attraverso le scandalose dimissioni di Joseph Ratzinger, mentre in bagno, vedendo una macchia d’umidità sul soffitto, gli viene in mente la Cappella Sistina.
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