Arte
Col cuore in gola verso l’abisso: su “Grandi momenti” di Franz Krauspenhaar
In esergo, presa in prestito dal Jean Cocteau de “La Machine Infernale”: «Il tempo degli uomini è eternità ripiegata.» Frase semplice – da un punto di vista formale. Breve. Ma al tempo stesso infinita, inquietante, inesauribile – d’altronde, si tira in ballo l’eternità. Una sentenza più che appropriata per il racconto in prima persona del cinquantenne milanese Franco Scelsit, protagonista di “Grandi momenti” – romanzo scritto da Franz Krauspenhaar, edito da Neo. Scelsit è un autore di nicchia, che a un certo punto – un’occasione colta al volo – si ritrova a essere il re delle classifiche delle letture da autogrill grazie a dei gialli a dir poco dozzinali, incentrati sulla figura del detective dal nome che, a definirlo kitsch, è quasi un complimento: Stan Dolero.
La frase di Cocteau, citata all’inizio e che coi gialli dozzinali non c’entra nulla, si attaglia così bene alla vicenda del libro perché è proprio l’io narrante, Franco Scelsit, a decidere di raccontarsi tramite una narrazione in cui il proprio tempo ripiega, fino a collassare, su se stesso – su cinquant’anni di alti e bassi trascorsi su questa terra, o meglio in questa Italia, o meglio ancora in questa Milano; Milano di nebbie tetre e gente taciturna, indifferrente, murata in casa, nascosta come «cavi elettrici sotto terra», Milano dal cielo di un bianco latte andato a male; ma anche una Milano capitale degli anni Ottanta vissuta da ventenne, epoca della vita in cui, sano come un pesce e forte come toro, tutto, per Franco, pareva possibile. Un tempo in cui, però, tutto si è congelato: ambizioni, voglia di vivere, speranze.
Ripiegando su se stesso, il tempo e lo spazio, per Franco Scelsit, hanno cambiato forma e dimensione, e ora, come su una giostra impazzita, perso in un caos mentale da psicosi, sembra scorrere tutto più veloce; ma la causa del malessere, che gli rende invivibile il tempo presente, costringendolo a una malinconia coatta, non attiene né alla metafisica, né a un nero esistenzialismo da crisi di mezz’età: la causa, banalmente – filosoficamente parlando, s’intende –, è un infarto. Un brutto colpo al cuore. Inaspettato e tremendo.
L’infarto acuisce una depressione che in fondo, Franco Scelsit, ha sempre portato con sé – ha sempre avuto dentro, sotto la pelle; una pelle che ora, avviluppata dalla paura, dall’umore nero, dal freddo severo e metallico della città, risuona col gelo della morte che, qualche mese prima, era venuta a fargli visita.
“Grandi momenti” – ultimo libro di un autore, come Franz Krauspenhaar, che ha fin qui scritto molto e che ha da poco detto, in un’intervista, ligio al suo metodo, che “quelli bravi non scrivono mai abbastanza” – si inscrive idealmente, per la sua andatura da diario analitico, da digressione incalzante, da delirio lucido, da bilancio ossessivo dei giorni che furono e che sono, nella traiettoria aperta e inaugurata, in Italia, dallo Svevo della “Coscienza di Zeno”; anche nella narrazione di Franco Scelsit, un padre morto col quale fare i conti (tra i temi centrali) e il vizio del fumo da tenere a bada (accessorio narrativo invero marginale) per scongiungare una “doppietta” al povero cuore malato ma in via di guarigione. “Grandi momenti” è ovviamente lanciato cent’anni più avanti rispetto al diario del Cosini – il parallelo ipertestuale è introduttivo, per mettere a fuoco –, pervaso com’è di autoconsapevolezza postmoderna, ironia e nichilismo senza sconti; in questo senso, già si entra, più che altro, nel solco della narrativa americana dell’alienzazione da città moderna, dei feticci del consumismo postindustriale, mortiferi ma al tempo stesso irruninciabili per l’abitante dell’odierno Occidente. Un impasto riscontrabile anche nella materia principale del romanzo – quella che conferisce a “Grandi momenti” la dovuta e meritata attenzione –, cioè la lingua, la voce.
Si comincia dalla palestra del day hospital, dove Scelsit è costretto a svolgere i doverosi esercizi di riabilitazione dopo l’infarto; il momento, tranne qualche digressione letteraria sulla condizione di scrittore e malato, è descrittivo, con un tono nervoso, adirato: periodi brevi e quasi dimessi, in sintonia con un ambiente popolato perlopiù da settantenni chi al primo, chi al secondo infarto – una specie di limbo del fitness per chi cerca di restare attaccato alla vita, caracollando su un tapis roulant. È il momento in cui lo stile si dichiara, ma non da subito al massimo della potenzialità: la prima parte, se da un lato è ben cadenzata e aderente alla presentazione quasi schifata dei luoghi, dei personaggi, degli avvenimenti – una scrittura, insomma, che dichiara e mostra lo stato d’animo completamente nero del protagonista –, dall’altro lato si ingolfa in avvio con digressioni molto tranchant e però anche assai facili, in un tentativo di discorso sui tempi un po’ troppo tout corut – per esempio, su una tecnologia come quella dell’sms, o sui blog: «Questa idea folle di mandare delle lettere elettroniche che puoi leggere subito e alle quali puoi rispondere subito, mi dà il voltastomaco. E allora il fax? […] Tutto questo è innaturale, nevrotizzante. Per non parlare dei blog, di cui mi hanno raccontato strani animali della comunicazione contemporanea. Questi contenitori impalpabili nei quali le persone dibattono senza conoscersi, e le parole non vengono dette ma scritte…» (A scanso di equivoci: la considerazione è sulla voce del Narratore, non sulle idee dell’Autore.) Anche l’uso di alcune immagini prese dal campionario di un decadentismo straconsumato dal contemporaneo («Perché l’amore, laddove esiste, è una cosa seria. E io sono un clown senza più voglia di ridere.») concorre a una resa poco omogenea della prima parte del racconto, con tratti incongrui nello stile o ridondanti nella resa del particolare stato d’animo del protagonista. La scrittura di Krauspenhaar dà il suo meglio quando si accorda con ciò che sta materialmente intorno, accanto a Scelsit: la paura da nodo in gola per un possibile e imminente infarto; lo sguardo ancorato a un bel culo di qualche infermiera; i dettagli che rendono mortificante la descrizione di un settantenne scampato a un attacco di cuore e col futuro ormai segnato; allora sì, la voce si fa incalzante, rabbiosa, acuminata, abrasiva, ritmata e verace – allora sì, è come ascoltare una marcia di battaglia in presa diretta, sul luogo stesso dell combattimento. Lo è meno, stilisticamente – e anche a livello allegorico, immaginifico – nelle (non lunghissime) digressioni, nelle similitudini a volte attacate a mo’ di appendice ornamentale in fine di capoverso.
Se all’inizio il motore del racconto sembra produrre qualche singhiozzo, magari soltanto perché un po’ a freddo, è proprio grazie all’ingresso in scena di un bolide meccanico – un bolide vero, non metaforico: una Jaguar E Type del ’67 – che lo stile prende a carburare, far rombare la propria voce, alternando in maniera armonica rettilinei, curve, frenate brusche, scalate di marcia e riprese.
Uscito dalla claustrofobica ambentazione dell’”ospedalino”, il mondo di Franco Scelsit si allarga, prende velocità, la scittura diventa calibrata, aderente, martellante: «La Jaguar mi ha salvato dalla disperazione. Ingrano la prima e salgo la rampa. […] Un quarto d’ora dopo sono sull’autostrada dei laghi, corsia di sorpasso. Sono presente a me stesso. Finalmente. Di nuovo. Mi appartengo in lungo e in largo. Sento il piede sul pedale che va giù al massimo. Spingo a tavoletta. Davanti a me, una Audi ripara veloce a destra per farmi passare. Sono le tre e mezzo, nel buio, sul rettilineo. […] Qui ci sei dentro, senti tutto. È un cuneo con il cofano lungo e la coda tronca.»
L’automobile sportiva, di lusso, non è soltanto una piccola trovata per correr via dalla morte, rifugiarsi in una volontà di potenza da futurismo tardivo – per quanto, «la velocità è una delle cose migliori delle vità, è un trionfo sulla morte, anche se provvisorio.» L’automobile è il vero e proprio simbolo del racconto, in quanto lega a sé il corpo di Franco Scelsit – è grazie alla Jaguar ripescata dal garage che il cuore ricomincia a pompare, i muscoli a riprender vita, e la vita stessa una dimensione reale – e anche l’anima, diventando l’unico mezzo per correre più veloce del tempo che sembra consumare ogni cosa.
Ma ancor più dell’automobile, è prorio il tempo a essere al centro di tutto. Più del cuore di Franco Scelsit. Il tempo è la ragione che, pagina dopo pagina, dà corpo alla nevrosi, ai salti immaginifici più spericolati, alle allucinazioni, rende l’impasto della lingua credibile, disperato e potente – perché il tempo e la morte diventano una cosa sola, risucchiando tutte le emozioni, lasciando Scelsit in un cratere deserto, senza ricordi felici. Il tempo che scorre, si ritira, si dà tutto nello stesso momento, senza logica né senso. E il racconto sale di livello.
C’è una cappa di paraonia, di schizofrenia, che rende tutto più reale e al tempo stesso allucinato. Anche le immagini usate per le similitudini fanno un salto, oltre che di qualità, di dimensione: «Da qui, nonostante tutto (e incubi compresi), non riesco a evadere. Sono incollato come una mosca fantascientifica all’enorme ragnatela cittadina.» Dopo l’accelarata decisiva a bordo della Jaguar, Krauspenhaar entra completamente dentro Scelsit, e Scelsit diventa più vero del vero: racconta del suo infarto con freddezza, senza omettere nulla, stazionando a lungo sulla morsa di dolore che dal petto si propaga dietro la schiena, lungo le braccia, fino alle mani; va per strada, vede una donna di spalle, e candidamente confessa di volerle dare un bel calcio nel culo – ma di giustezza, come un centrocampista servirebbe un attaccante per mandarlo in porta. Nelle digressioni, che ritornano, ma stavolta meno avulse dal flusso principale della narrazione, i bersagli sono colleghi definiti omuncoli, la politica che ha fallito, arrenendendosi, mettendosi prona al potere economico, cosa che lui, semplicemente, disprezza, tanto da sentirsi anarchico, talmente anarchico che se qualcuno di questi omuncoli gli dà del fascista, lui si prende le sue responsabilità – e quasi ne è contento, purché fra lui e gli altri la distinzione sia netta.
Il personaggio Franco Scelsit acquista una solidità grantica, un volume devastante; ma i grandi momenti del libro, su tutti, sono quelli in cui si parte per la tangente, ancora una volta a ritroso nel tempo, ma non in senso di ricordo trasognato: Scelsit prende l’auto e va, corre, e buca il tempo come guidando una DeLorean – ma nera, maledetta, da suicidio. Mentre se ne sta sull’autostrada dei laghi si ritrova all’improvviso a Ostia, il mare di Roma, con la Fiat 500 che affonda le ruote nella sabbia, come quando gli capitò a venticinque anni, durante una gita per andare a trovare i suoi amici; oppure in Francia, a correre dietro a due biondone su una strada che poi perde ogni contatto e coerenza col paesaggio; oppure ecco spuntare… suo padre. Che ha le sembianze di una lepre gigante. Suo padre che scappa nella brughiera. È un delirio, vero e proprio. Dichiarato persino dal medico che lo tiene in cura.
A questo punto c’è persino spazio per un fratello, quasi coetaneo di Franco, che ha le sembianze del mistico, ma anche dell’hikikomori alla milanese, un personaggio lucido, o almeno, fino a che non lo sentiamo parlare di huge form, di mente accresciuta, una teoria che potrebbe spiegare i salti temporali che il fratello si vede sfilare davanti in maniera così vivida.
Del successo accennato nelle battute iniziali, quello che arriva grazie ai gialli di Stan Dolero firmati con uno pseudonimo, cosa può rimanere? Nulla. Stordito a morte dall’eterno ritorno del tempo, da una vita che, nonostante l’occasione di una catarsi offerta dai ricordi, non ha saputo riallacciarsi con se stessa, non ha saputo risolversi, non rimane che l’abisso oscuro di una mente alla deriva.
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