Arte

Caravaggio Remixed/ Ep.5 Un Campari alla salute del Longhi

20 Aprile 2020

Ho in mano il catalogo della mostra milanese curata da Roberto Longhi del 1951, quella che ha corrisposto di fatto alla “nascita” della fortuna critica di Caravaggio. È un volume come non se ne fanno più, edito da Sansoni, con le pubblicità del Dentifricio Durban’s, del Cordial Campari e della Olivetti Lettera 22 in coda. Vi figurano 39 opere, alcune delle quali oggi sono state eliminate dal catalogo del pittore, più una serie di “attribuiti al Caravaggio”, tra cui un paio di dipinti che ora i più considerano autografi. Con qualche approssimazione, possiamo però dire che Longhi aveva già capito quasi tutto quel che c’era da capire, considerando che non poteva contare su alcune scoperte successive, che avrebbero corretto le sue datazioni, senza però andare a intaccare il senso del pensiero critico di fondo. Nel comitato scientifico sedevano Lionello Venturi, Giulio Carlo Argan, Matteo Marangoni, Rodolfo Pallucchini, Mario Salmi: una lista di nomi impressionante, che diede a quest’iniziativa un risalto formidabile. Possiamo a tutti gli effetti considerarla la mostra più importante mai realizzata nel nostro paese. Caravaggio vi arrivò come un pittore minore, oscuro, dimenticato, persino di cattivo gusto, e ne uscì come un gigante, capace di stare a fianco di Leonardo, Raffaello, Tiziano, Michelangelo (recentemente un bel volume di Patrizio Aiello, con introduzione di Giovanni Agosti e postfazione di Jacopo Stoppa (edito da Officina Libraria) ha ricostruito le vicende di quell’esposizione epocale, qui rievocata con immagini dell’allestimento riemerse proprio grazie alle ricerche legate alla pubblicazione di questo testo)

Scriveva Longhi nell’introduzione alla mostra: «Immaginiamo che a una mostra sul Caravaggio si fosse atteso un secolo fa. È certo che l’interesse più forte si sarebbe appuntato sul carattere impetuoso dell’uomo, sui suoi misfatti, e quanto alle opere, per induzione, sui loro aspetti più torvi». La scelta di Milano era in qualche modo legata alla volontà di testimoniare un rapporto con la pittura lombarda. «Personalmente, credo che fin la sua nascita in Lombardia, anzi tra Bergamo e Cremona, dovette contare per sempre. E gli ideatori della mostra di Milano pensano, amo ritenerlo, qualcosa di simile, ché altrimenti la scelta della sede, ridotta a sola ragione d’anagrafe, sarebbe puro pretesto. Sia pure, infatti, che il Caravaggio abbia ricominciato da capo, non abbia voluto come maestra che la natura; ma coloro che lo stimolavano su questa via eran proprio i suoi misconosciuti maestri lombardi. Certissimo, che se il Caravaggio vide e guardò dipinti, in fanciullezza, questi furono, a Bergamo o a Brescia, i Lotto, i Moretto, i Moroni, i Savoldo (nella copertina del pezzo, Tobiolo e l’Angelo, conservato alla Galleria Borghese): con la loro umanità più accostante, religiosità più umile, colore più vero, ombre più descritte e curiose e, in tutto, una disposizione a capir meglio la natura delle cose; che vuol dire tanto saper mescolarsi con naturalezza fra gli uomini indivisi, quanto saper camminare da soli e senza timore di mitologie in piena campagna». Longhi portò in mostra un campionario delle opere dei precedenti caravaggeschi. La Deposizione del Peterzano che sta in San Fedele, «quasi un Savoldo dissugato nell’aria cruda», la Morte della Vergine di Antonio Campi, «dove sono accozzati ricordi dello stesso Savoldo e del vecchio Bruegel», la Decollazione del Battista ancora di Antonio Campi, e il San Matteo e l’Angelo del fratello di questi, proveniente da Pavia. «Chi vedrà queste opere potrà intendere come codeste ed altre cose simili levassero a Milano un vento di fronda, che dico, una piccola sommossa. Non so cosa ne pensasse in extremis San Carlo Borromeo, ma sul risentimento che ne provarono i pittori più aulici come il Lomazzo e il Figino, non è da confondere». Sin dalla prima grande rassegna sul Caravaggio era dunque chiaro che il rapporto non già tra la sua opera, ma tra quella dei suoi antecedenti lombardi e i dettami di Carlo Borromeo e dell’ambiente accademico milanese dovevano essere improntati perlomeno a un’aspra dialettica.

Sessant’anni di studi sono valsi in tal senso a innescare un vero e proprio meccanismo revisionistico che continua a produrre risultati improntati alla volontà di cancellare le divergenze esistenti tra le tensioni pittoriche verso un sempre più pronunciato naturalismo e il pensiero borromaico. Basta leggere quanto scritto da Rodolfo Papa in Caravaggio – Gli anni giovanili nel 2005 per capire qual è oggi il pensiero in merito a questo problema: «Il clima pittorico lombardo di quegli anni di fine Cinquecento è del resto molto complesso, attraversato da quel realismo pittorico consono allo spirito tridentino, che verso la fine del secolo Gabriele Paleotti codificherà nel suo Discorso sulle immagini sacre e profane (1582). La pittura s’impegna nel rappresentare scene fedeli alle narrazioni dei testi evangelici, cercando nel realismo l’effetto di coinvolgimento del fedele nella sacra rappresentazione. Il clima lombardo sarebbe incomprensibile a prescindere dal magistero di Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano dal 1565 al 1584, che tanto influenza l’esperienza artistica nei termini della predicazione e della catechesi attraverso le opere di tema sacro». E ancora: «A Milano l’esperienza borromaica ha una prima interpretazione nei dipinti dei fratelli Campi». L’idea è dunque quella di mettere in relazione, ancora una volta, i Borromeo e la controriforma con Caravaggio, attraverso i pittori che lo hanno in qualche modo suggestionato.

È il 1577, allorché Carlo Borromeo dà alle stampe le «Instructiones» relative alla costruzione e decorazione delle chiese. Nel capitolo XVII ci si sofferma in particolare sulla rappresentazione dei testi sacri, spiegando nel dettaglio i provvedimenti punitivi a cui sarebbero andati incontro i pittori che trasgredivano le regole. Una delle prime applicazioni della nuova disciplina ferrea è proprio il contratto che Simone Peterzano stringe nel 1578 in relazione alla decorazione della Certosa di Garegnano, quell’edificio che oggi sta come un meteorite precipitato da Proxima Centauri tra i cavalcavia dell’imbocco autostradale di Milano Nord.

«Che tutte le figure humane et massime de santi e sante siano fatte con somma onestà et gravità et non ne apaiano petti né altre membra o parti del corpo non onesto et ogni atto, giesto, gerbo, movenza et drappi dei santi siano onestissimi, pudicissimi et pieni d’ogni divina gravità et maestà». Un vero e proprio capestro, che ti metteva voglia di riporre il pennello prima ancora di iniziare.

Il clima di greve austerità, di castità dei costumi e di repressione di ogni licenza che contraddistingue l’ambiente della curia milanese all’epoca di San Carlo si riverbera nell’atmosfera culturale della città. L’arcivescovo gira protetto da una scorta di armigeri, perché i bravi e la soldataglia spagnola non vedono di buon occhio quest’atteggiamento rigorista. Persino i membri di un ordine religioso, gli Umiliati, che il Borromeo ha deciso di sopprimere, meditano di liberarsi dell’ordinario milanese, e mettono in scena un vero e proprio attentato, da cui Carlo scampa in maniera fortuita.

Milano è la città del Nord Italia più vicina ai territori convertiti alla riforma. Lungo le vallate prealpine i luterani e gli zwingliani hanno buon gioco a propagandare teorie che hanno come bersaglio polemico proprio la licenziosità dei prelati appartenenti alla Chiesa Cattolica. Venezia è all’epoca una sorta di enclave, in cui vige un clima libertario che non ha eguali nell’Europa Meridionale. La Lombardia, in breve, era un avamposto della controriforma, in un momento storico per di più di forte identità e rispecchiamento tra Spagna e papato. Il viceré, che era a capo di una guarnigione di settecento soldati, sopportava probabilmente di mal grado il clima penitenziale creato dal Borromeo. La terribile pestilenza del 1576, quella in cui morì lo stesso Fermo Merisi, padre del pittore, coincide con un periodo in cui, al fianco dell’assistenza diretta portata ai malati, San Carlo andò a stringere ulteriormente i cordoni della libera espressione degli artisti.

È la Lombardia dei Sacri Monti, voluti come avamposti del Cattolicesimo contro l’iconoclastia luterana, del gran teatro montano di Varallo Sesia, che pare quasi la trasposizione figurativa delle sacre rappresentazioni, in una commistione a fini didascalici di architettura, scultura e pittura: quel “palinsesto” che tanto suggestionò uno dei pittori più abili della generazione immediatamente successiva a Caravaggio, Tanzio, e che negli ultimi decenni, in molti, da Mina Gregori a Dario Fo, sulla falsariga del fascino che Giovanni Testori provava per queste scene, in cui le fibre lignee sembrano imitare il volgare del Ruzante, vogliono inserire di forza in un ritratto sempre più composito e ingannevole del Caravaggio da giovane. Alla morte di Carlo Borromeo, Michelangelo aveva tredici anni: un’età in cui non esiste ancora senso critico né tanto meno gusto. Il clima che abbiamo respirato in un luogo è però quello che determina la voglia di restarci o, al limite, tornarci se siamo costretti a lasciarlo.

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