Arte
Caravaggio Remixed/ Ep.4 Gli occhi del giovane Caravaggio
Non conosciamo il contenuto dell’insegnamento impartito dal Peterzano al giovane Michelangelo Merisi. A conclusione del proprio apprendistato l’alunno avrebbe dovuto essere in grado, per contratto, di lavorare in proprio. E in effetti all’età di sedici-diciassette anni molti artisti dell’epoca erano già in grado, non solo di superare i maestri, ma addirittura di innovare fortemente il contesto in cui si trovavano a operare. Possiamo in tal senso fare l’esempio del genovese Luca Cambiaso, che alla stessa età in cui Caravaggio conclude il suo alunnato ha già iniziato a rivoluzionare la pittura ligure. Per qualche motivo invece l’attività iniziale di Michelangelo rimane nell’ombra. Nei quattro anni che precedono la sua discesa a Roma sembrerebbe vivere di rendita. Si trova talvolta a Caravaggio, dove la sua presenza è documentata per l’ultima volta nel 1592. Nel frattempo ha perso la madre, e si è dovuto occupare della spartizione dell’eredità con i fratelli. Il che lo ha lasciato in possesso di poche centinaia di lire imperiali, cosa che trova riscontro nelle annotazioni dei suoi primi biografi. Il totale silenzio delle fonti rispetto a questo interludio ha convinto molti, anche in relazione ad alcune indicazioni riportate in una postilla dal Mancini, a ritenere che il Caravaggio sia stato incarcerato, per un delitto imprecisato, a Milano. Le interpretazioni degli studiosi in merito a questa nota sono così diverse che si oscilla tra l’ipotesi di un omicidio e quella di un’incriminazione per falsa testimonianza. Di fatto il Caravaggio aveva allora meno di 25 anni, ed era dunque, per la giustizia dell’epoca, un minorenne. Un elemento in relazione al quale il giudice che si trovasse a dover sanzionare un reato anche grave era in possesso di un’ampia discrezionalità nella scelta dell’entità della pena. Non sappiamo nemmeno dove sia stato commesso il reato, e dunque il luogo in cui il giovane abbia eventualmente trascorso un periodo in carcere. Periodo che, sulla base delle testimonianze dei suoi diversi passaggi per Caravaggio, non dovrebbe essere stato comunque superiore a un anno. Ne restano almeno tre di assoluto silenzio in merito a una sua attività artistica. Che abbia smesso del tutto di dipingere per un quadriennio appare improbabile. Così come non è plausibile che abbia intrapreso un così lungo viaggio di formazione, fermandosi, come sostengono in molti, sulla scorta del Bellori, a Venezia. Più probabilmente continuò a fare la spola tra Milano e il paese, e a muoversi nell’ambito dei collaboratori del Peterzano. In quegli anni entrò sicuramente in contatto con le esperienze più recenti della pittura lombarda. Da sempre, si accosta il nome di Caravaggio a quello dei pittori bresciani, Moretto e Savoldo anzitutto.
E poi al bergamasco Moroni, probabilmente il ritrattista in possesso di una spiccata sensibilità verista dell’epoca. Altri due nomi che si spendono spesso sono quelli dei cremonesi Antonio e Vincenzo Campi. Il primo, in possesso di un linguaggio molto vicino a quello del Peterzano, nonché autore di alcuni tra i primi dipinti di lume notturno. Il secondo, anticipatore della pittura di genere, e animato da una peculiare sensibilità nordica, che si ritrova nelle sue rappresentazioni di banchi di mercato, in cui spiccano vegetali raffigurati con forte intento naturalistico. I tempi però sono probabilmente maturi per provare, con qualche azzardo, a indicare i luoghi e le opere che con tutta probabilità Caravaggio guardò con grande attenzione nei suoi anni di formazione. Roberto Longhi si sofferma in particolare su tre dipinti milanesi: la Visita a Santa Caterina incarcerata (nella foto di copertina) e il Martirio di San Lorenzo conservati rispettivamente nelle chiese di Sant’Angelo e San Paolo Converso, e la Conversione di San Paolo del Moretto, in Santa Maria presso San Celso. I primi due sono “quadri di lume”, notturni con una fiaccola che rischiara la scena. Una soluzione però che verrà utilizzata solo due volte in tutta la carriera da “tenebrista” di Michelangelo. Nella chiesa di Sant’Angelo, anche l’affresco del Miracolo della mula, a lungo attribuito al pittore di origine genovese Andrea Semino, e che invece è da riferirsi con sicurezza al Peterzano, può aver segnato la fantasia del ragazzo per la cifra verista con cui è rappresentato il quadrupede. A poca distanza, è la chiesa di San Marco. Qui il Lomazzo, in una delle sue opere più riuscite, ha lasciato una Sacra Conversazione il cui punto di vista, ribassato e laterale, ritorna in una delle opere più celebri di Caravaggio, la Deposizione. In Sant’Antonio vedrà quella scultura della Madonna del serpe che,unitamente alla pala del Figino, ricorderà per la Pala dei Palafrenieri. Alla Certosa di Garegnano assimilerà direttamente dal Peterzano alcuni modellati, riecheggiati dalle sue opere giovanili, dal Bacchino malato alla prima versione del San Matteo e l’angelo. E il ciclo realizzato ancora dal maestro nel 1573, questa volta per la chiesa di San Barnaba, su commissione di Gian Giacomo Trivulzio vede ricorrere molti tipi umani simili, per fisionomia, abiti, gesti, ai modelli che utilizzerà Merisi. Si tratta probabilmente delle opere in cui il Peterzano prova a confrontarsi più da vicino col Tintoretto e il Veronese.
Spostandosi da Milano, e tracciando un cerchio la cui circonferenza abbia come centro il paese di Caravaggio, la frequentazione della pittura bresciana, cremonese e lodigiana da sola può giustificare buona parte delle citazioni e dei richiami stilistici che si son voluti individuare nell’opera giovanile. Chi ha studiato con attenzione Savoldo non ha bisogno di conoscere direttamente Giorgione o Tiziano, così come proprio il forte sincretismo della scuola cremonese, sospesa tra Roma, Venezia e folate di realismo nordico, avranno compendiato la mancanza di una conoscenza diretta di Durer, Michelangelo, Raffaello, Sebastiano del Piombo. Potrà aver visto i musicanti che popolano le tele del lodigiano Callisto Piazza, che appare a ogni modo come un giusto punto di mediazione tra il crudo realismo di Romanino (l’unico bresciano che crediamo sia da espungere nel novero delle influenze dirette sul Caravaggio) e il suo stile. Quanto alla pittura bergamasca, gli scarsi mezzi tecnici di Cavagna e di Lolmo, suggeriscono di appuntare al più qualche lontana consonanza di sensibilità. Credo invece che Caravaggio sia stato in qualche modo incuriosito dal “confronto stilistico” inscenato negli anni del suo arrivo a Milano dalla compresenza nelle stesse fabbriche di Aurelio Luini e del Peterzano, in particolare dall’esperienza di San Maurizio. La qualità espressa da Aurelio è costantemente inferiore a quella del padre, Bernardino Luini. Ma è lui all’epoca uno dei depositari di quella cultura leonardesca che per Caravaggio dovette costituire la vera, unica unwritten law. Possessore di disegni autografi di Leonardo, Aurelio aveva mutuato dalla scuola paterna più i modi esteriori che la sensibilità. Eppure è il sintomo più appariscente di quel naturalismo di schietta ascendenza leonardesca che, travisato e brutalizzato dal Lomazzo e dall’Accademia della Val di Blenio, sarà invece compreso a pieno da Caravaggio: una misura “classica” per eccellenza, che tiene insieme una costruzione estremamente equilibrata della composizione a un sentimento della verità che si riverbera nell’attenzione alla rappresentazione della natura, del paesaggio, degli incarnati, del modellato. Potremmo in tal senso parlare di “carsismo”, in riferimento appunto a questa cifra di naturalismo che da Vincenzo Foppa, un lombardo influenzato dalla disciplina prospettica fiorentina, passa a Leonardo.
Proprio in San Maurizio ho rintracciato tre prototipi di modi figurativi che il Caravaggio adotterà in alcune tra le sue opere più conosciute. Dalla Cacciata dei mercanti dal tempio del Peterzano può aver ricavato l’idea del chierico che scappa atterrito nel Martirio di San Matteo. Dalla Salomè di Aurelio Luini l’iconografia, già usata dal padre Bernardino, del capo girato per non vedere la testa del Battista nel piatto. E infine, da un altro dipinto del maestro, la Flagellazione in controfacciata, lo strano “passo di danza”, qui esasperato in maniera manierista, lì fortemente contenuto,dei piedi del Cristo legato alla colonna, che riprenderà nel capolavoro di Capodimonte. (continua).
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